6 marzo 2002
Tags : Heinrich Struebig
STRUEBIG Heinrich. Per tre anni, dal 1989 al 1992, è stato ostaggio dei fondamentalisti islamici. Oggi ha sessant´anni, si divide fra la Germania, il Medio oriente e i territori di guerra, come operatore di un´associazione umanitaria
STRUEBIG Heinrich. Per tre anni, dal 1989 al 1992, è stato ostaggio dei fondamentalisti islamici. Oggi ha sessant´anni, si divide fra la Germania, il Medio oriente e i territori di guerra, come operatore di un´associazione umanitaria. Vorrebbe partire e tornare in Libano, ma forse la sua salute, gravemente compromessa dai tre anni di prigionia a Beirut, non glielo permetterà. Deve il suo rilascio a un italiano, Giandomenico Picco, in quegli anni inviato dell´Onu, che condusse le difficili trattative con i governi siriano, iraniano e libanese per la sua liberazione e quella di altri ostaggi occidentali degli hezbollah. ”Io e il mio collega Thomas Kemptner lavoravamo a Beirut per un´associazione umanitaria. Un giorno, mentre stavamo in macchina, siamo stati affiancati da un´altra auto. E´ stata questione di pochi secondi: ci hanno preso, legati, bendati e portati via. Abbiamo passato tre anni della nostra vita in una buca incatenati, senza luce, con pochissimo da mangiare e in condizioni igieniche catastrofiche. Al momento del rilascio, il capo dei nostri carcerieri è venuto a scusarsi per come eravamo stati trattati. I responsabili politici del nostro rapimento non lo hanno mai fatto (...) Arafat, che poi è stato premiato con il Nobel, nonostante il suo passato di terrorista. Ecco, lui non si è mai scusato. Poi i palestinesi ci hanno passato agli hezbollah, che avevano un conto aperto con il governo tedesco e volevano scambiarci con alcuni terroristi libanesi detenuti in Germania con l´accusa di aver dirottato un aereo, ucciso un passeggero e aver pianificato atti terroristici in territorio tedesco (...) Di fronte ai taleban, gli hezbollah sono un´organizzazione liberale, ma la strategia politica è la stessa. Credo che in un momento come questo i rapimenti di persone aumenteranno e il bersaglio non saranno tanto politici e diplomatici, che sono sempre ben protetti, ma civili (...). Ho chiesto spesso ai miei rapitori, nelle rare volte in cui sono riuscito a parlarci, perché avessero rapito me e non il nostro ministro degli esteri. Mi hanno risposto: ’Ai nostri occhi siete tutti uguali, con la differenza che tu non hai guardie del corpo’ (...) Dietro le motivazioni ideologiche e religiose spesso ci sono i soldi. Un rapimento costa poco, riscuote subito la risonanza necessaria, e quelli che si prestano a farlo vengono pagati molto bene. Vede, questo terrorismo è fatto soprattutto di idee, con mezzi relativamente ridotti. Se uno ha una buona idea, diventa un esempio e la violenza si diffonde. Anche se Bin Laden verrà preso e condannato, ci sarà un nuovo Bin Laden, forse anche più pericoloso, e se la situazione generale non migliora, si passerà da periodi relativamente tranquilli a scoppi di violenza improvvisa. Tornando ai rapimenti, bisogna anche dire che a differenza che da noi, dove il sequestratore deve stare comunque molto attento a non farsi scoprire, lì l´appoggio della popolazione è praticamente incondizionato. Nel mio caso, ad esempio, nessuno dei civili che sapevano delle nostre condizioni ha mai detto niente né alla polizia, né a nessun altro. L´omertà era totale. Ma quando tornai in Libano, dopo due anni, proprio dalla popolazione civile mi sono venuti continuamente segnali di amicizia. Una volta volevo pagare un gelato e il venditore si è rifiutato, dicendo che avevo sofferto troppo nel suo paese (...) Gli autori di azioni criminali non sono giustificabili, ma durante la prigionia ho cercato di capire la loro logica, e mi sono reso conto che, dal loro punto di vista, non avevano altra scelta. La popolazione palestinese, ad esempio, si sente senza uscita, vive da decenni in campi profughi, in uno stato di miseria e di disperazione profondissima. Diventare adulti, per un palestinese, significa imparare a tenere un arma in mano. Non c´è educazione civile, è chiaro che poi si mettono dietro ai folli che predicano la lotta armata per avere giustizia sociale. Lo stesso vale per il popolo afgano. E´ un popolo allo sbando. Il problema sono i leader politici. Quelli che come Arafat hanno ottenuto qualcosa con la violenza, e che fanno della violenza uno strumento politico (...) La sensazione che mi accompagnò durante la prigionia fu di totale impotenza. Erano i miei carcerieri che avevano deciso sin dall´inizio se avessi dovuto vivere o morire. Dietro di loro c´erano governi per i quali noi eravamo semplice merce di scambio. Se la nostra liberazione portava qualche vantaggio, allora saremmo stati liberati, altrimenti la nostra vita valeva zero. Io sono sopravvissuto, ma altri sono morti”. Vedi ”La Stampa” 2/11/2001;