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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

TAORMINA

TAORMINA Carlo Roma 16 dicembre 1940. Avvocato. Ordinario di procedura penale all’Università Tor Vergata di Roma, fu il difensore, tra gli altri, di Bettino Craxi e Antonio Gava. Eletto deputato per Forza Italia nel 2001, sottosegretario agli Interni del governo Berlusconi II. L’1 luglio 2001, dopo la sentenza sulla stage di Piazza Fontana, dichiarò: «Si sta riscrivendo la storia d’Italia con la penna rossa». Il 17 novembre 2001, dopo la decisione del Tribunale di Milano di proseguire il processo Sme-Ariosto, reagì: «Quei giudici andrebbero arrestati». Due giorni dopo, l’Ulivo depositò alla Camera e al Senato una mozione che impegnava il governo a «revocare le funzioni di sottosegretario» a Taormina. Il 21 novembre, il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi ricordò a magistrati e politici che «è dovere di tutti rispettare il limite delle proprie competenze». A dicembre, in un vertice della Casa delle Libertà, fu deciso di presentare una risoluzione sulla giustizia e contro i magistrati politicizzati. Un riconoscimento politico alle dichiarazioni di Taormina che poté così dimettersi senza sentirsi smentito dalla maggioranza. Si dimise il 4 dicembre 2001: «Volevano la sua testa? Eccola. Mozzato il capo, però, è parso che Carlo Taormina il decollato restasse lì, in mezzo al Senato, ingombrante e rissoso come sempre, quasi si ripetesse il prodigio di Antonio Pezzulla, il primo dei martiri di Otranto che, decapitato per ordine del Gran Visir Achmet ”lo Sdentato” dopo la conquista turca della cittadina pugliese, ”si alzò e restò in piedi fino al termine della strage e non ci fu forza che valesse ad atterrarlo”. Certo, non è più Sua Eccellenza l’On. Avv. Sottosegretario agli Affari Interni. E Dio sa, col piacere che gli danno le maiuscole, quanto gli pesi. Nel giorno della sua più rovinosa sconfitta, bruciante per chi come lui lavora tenendo dietro la scrivania il quadro di una battaglia equestre che racchiude tutta la sua idea guerresca e furibonda del rapporto coi giudici, i nemici, il mondo, ”Tao” ha incassato però anche la più rumorosa vittoria. Cioè la scelta di Roberto Castelli di rilanciare una per una, con accenti non meno bellicosi, le accuse che il dimissionario aveva rivolto in questi mesi alle ”toghe rosse”. Al punto che il Guardasigilli pareva, in certi passaggi, quasi il ventriloquo del fantasma del decollato. E adesso? Tutto si sarebbe aspettato la sinistra, che aveva puntato secco sul voto di sfiducia e sulle spaccature dentro la Casa delle Libertà, meno quello. Chi se lo immaginava che ”Tao” (come lo chiamano gli amici rifacendosi a un ritratto di Giancarlo Perna che vi riconobbe le fattezze ”di un notabile del Celeste Impero, zigomi alti, occhi di serpente, pallore mongolico”) avrebbe ceduto alle pressioni degli alleati e in particolare di Silvio Berlusconi deciso a non rischiare in alcun modo un voto dilaniante per la sua coalizione? Lui! Il Ribelle! Quello che per descriversi politicamente dice di essere ”un po’ anarchico”. Insofferente allo spirito di gruppo. Recalcitrante alle regole di partito. Riottoso a obbedire perfino alle raccomandazioni più ovvie, come quella di rinunciare, almeno al Viminale, alla difesa di imputati di mafia in guerra contro lo Stato. Così cocciuto nelle sue convinzioni che quando i magistrati milanesi gli chiesero di proporre a Bettino Craxi di rientrare in Italia con il tacito impegno che ”probabilmente non sarebbe stato arrestato”, si prese la responsabilità di non dirlo neppure all’esule ad Hammamet perché ”io rifiuto qualsiasi accordo”. Erano mesi che ”Tao” diceva di no a chi gli chiedeva di mettersi da parte per il bene del governo. No, no, no. E se qualcuno degli amici insisteva troppo, era capace di partire in un’arringa delle sue. Torrenziali, come la volta che al processo Pecorelli, dove difendeva Claudio Vitalone, parlò per quattro ore e mezzo ”a un ritmo così incalzante che le stenotipiste dovettero dichiarare forfait e rassegnarsi al videoregistratore”. Spietate, come quando bombardò un pentito di mafia con un milione di domande su dove era nascosto e cosa faceva la moglie e come vivevano i figli finché quello non urlò: ”Avvocato, lei mi fa ammazzare la famiglia”. Al che lui aveva risposto secco: ”Ma che m’importa a me della sua famiglia!”. Tutta lì era la scommessa del centro-sinistra. Sulla durezza con cui ”Tao” aveva liquidato fino all’ultimo l’idea di cedere. Sul suo amor proprio gonfio come un soufflè. Sulla velenosità con cui si era riallacciato, nell’escludere che qualcuno gli potesse imporre l’uscita, a certi messaggi obliqui del passato. Come quando, dopo l’arresto di Renato Squillante, aveva sparato a zero su Cesare Previti (’Nessun avvocato al mondo ha visto mai una parcella da 21 miliardi: è indifendibile”) e sibilato ”quello che sta venendo alla luce è solo una minima parte del marcio che si è sedimentato oltre ogni limite a Roma. Nella passerella dei vari procuratori capo di questa città, da Giovanni De Matteo a Achille Gallucci a Ugo Giudiceandrea passando per Vittorio Mele, l’unico riferimento di una giustizia pulita è stato Michele Coiro”. Vi pare che uno così non vendesse cara la pelle? Che non si presentasse lui stesso al Senato per difendersi azzannando e graffiando? Che lasciasse i riflettori, nel ”suo” giorno di martirio, a Roberto Castelli? stato lì, vedendo la sua seggiola vuota, che quelli dell’Ulivo avrebbero dovuto capire che qualcosa stava andando diversamente da come avevano previsto. Quando il Guardasigilli, accomodandosi di tanto in tanto gli occhialetti con la cordicella, era partito sparando pallettoni e lanciando granate. Contro la sinistra che ”per anni ha lasciato che la situazione del pianeta giustizia degenerasse fino al collasso”. Contro chi non ha capito che le elezioni del 13 maggio si sono ”svolte a Costituzione reale innovata”. Contro certi giudici che vogliono ”andare ad uno scontro di carattere istituzionale con altri poteri dello Stato”. Contro il senatore Calvi ”che magari ha qualche documento trafugato al mio Ministero da sventolare”. E mano a mano che andava avanti, in un crescendo di barriti, invettive, applausi ironici e provocazioni da taverna che Marcello Pera non riusciva a contenere andando a guadagnare a sinistra nuove critiche al suo ruolo di arbitro, il ”processo” parlamentare a Carlo Taormina si è trasformato in una requisitoria contro i nemici del sottosegretario decapitato. Una requisitoria così dura e sfrontata e velenosa che forse neppure ”Tao” si sarebbe mai sognato di fare» (Gian Antonio Stella, ”Corriere della Sera” 5/12/2001).