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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

TARDELLI

TARDELLI Marco Capanne di Careggine (Lucca) 24 settembre 1954. Ex calciatore. Con la Juventus ha vinto cinque scudetti (1976/77, 1977/78, 1980/81, 1981/82, 1983/84) una coppa dei Campioni (1984/85), una coppa Uefa (1976/77), una coppa delle Coppe (1983/84), con la nazionale è stato campione del mondo nel 1982. Quindicesimo nella classifica del Pallone d’Oro 1982. Ha finito la carriera italiana nell’Inter. Da allenatore ha guidato la nazionale under 21 alla conquista del titolo europeo 2000, non ha avuto invece fortuna sulla panchina dell’Inter, da ultimo vice di Trapattoni su quella dell’Irlanda •«Il giocatore più universale che il calcio italiano abbia mai espresso. Celebra il gol ai tedeschi nella finale di Madrid consegnando alla storia il leggendario ”urlo”. Si fa le ossa nel Pisa, poi passa al Como. La Juventus lo sfila all’Inter nel 1975. Terzino sino all’intuizione di Trapattoni che lo avanza al ruolo di mezz’ala. Lo chiamano ”Schizzo”: è un fascio di nervi, un Fregoli del calcio, capacissimo di neutralizzare Keegan e di fare gol. Un purosangue. Ha accelerazioni superbe, recuperi straordinari. Con Furino e Benetti, cementa il centrocampo juventino. Calciatore totale in tutti i sensi, avrebbe fatto la sua figura nell’Ajax di Johann Cruijff. [...]» (’La Stampa” 22/12/2003). «A 28 anni ha conquistato il mondo con un gol da urlo ma soprattutto con un urlo dopo il gol. [...] Suo padre era un operaio cattolico e democristiano, in prima fila contro le ingiustizie... ”Senza contraddizioni, del resto Gesù Cristo non ha predicato l’uguaglianza? Nella mia famiglia c’erano le idee più diverse, io servivo messa e avevo un fratello seminarista e uno di Lotta Continua” [...]» (Roberto Perrone, ”Sette” n. 47/1999). «[...] L’ebbro urlante di Spagna ”82, dopo il suo gol alla Germania, quando scappava dall’abbraccio di Gentile, aggrappato alla sua casacca azzurra. [...] ”[...] avevo, ho, un fratello, che [...] era bravissimo a giocare al calcio. Più bravo di me. Ma non aveva tanta volgia, non ha mai voluto diventare un giocatore quanto l’ho voluto io. Certo, io sognavo di arrivare a giocare nel Pisa, nient’altro, quello sarebbe stato il più grande successo: scendere in campo con la squadra della mia città [...]” [...] quello che Vittorio Gassman definì ”l’unico calciatore italiano parlante” [...] ”[...] un padre operaio, all’Anas, un padre meraviglioso”, cattolico e comunista assieme. Bigotto in certe cose, rivoluzionario in altre. E una madre che ci ha tirato su in quattro, tutti maschi, io il più piccolo e che, per arrotondare, andava a far i lavori anche in casa d’altri. Perché si doveva, così come papà doveva allevare i polli e coltivare l’orto per farci mangiare. Io vengo dal calcio dell’oratorio e dall’Italia contadina, rubavo il pallone all’avversario e le susine dagli alberi del vicino [...] Il calcio per me era tutto. Anche se ho dovuto faticare per farlo capire in casa: ero magrolino, sudavo sempre, e mia madre, preoccupata, mi nascondeva le scarpe da gioco. Poi, un giorno, la professoressa di matematica le spiegò che non ero fatto per studiare, che non ne avevo voglia, anche se il diploma da geometra alla fine l’ho preso, e che insomma, era meglio lasciarmi fare altro. Solo allora lei si è convinta”. E allora il Pisa, poi il Como, poi la Juve. E la maglia azzurra. Poi l’Inter, un anno in Svizzera, quindi l’avventura in panchina: i successi con l’Under, la delusione con l’Inter. [...]» (Cesare Fiumi, ”Sette” n. 13/2002). «Sono stato un giocatore insonne, l’unico ad avere una stanza solo per sé. Ai mondiali dell’82 ho passato le notti in piedi. Dilaniato dalla preoccupazione, pensavo ai miei avversari, avevo paura di fare brutte figure, di non essere all’altezza, di non potercela fare. [...] Quando ho smesso di giocare nell’89 ho sentito la tremenda mancanza del campo, dei ragazzi, dei ritiri. Tanti amici sono spariti. Quando dall’Inter mi sono trasferito sulla panchina del Bari, sono calate le telefonate, da 200 al giorno a 40. Ma è il gioco della vita, ci sono gli amici finti e quelli veri. E poi ci sei tu, che ti siedi a tavolino e ripassi la vita che hai avuto, gli amori che hai attraversato e che ti sono ancora vicini, i figli, i tuoi genitori. [...] Nei momenti più duri ho sempre pensato a mio padre, che ogni mattina si svegliava alle sei per andare a lavorare, che non aveva mai visto una partita di calcio, che ha buttato via la mia prima maglia, tanto poco gli importava che io giocassi. [...] Appena smisi di giocare andai alla posta a pagare delle bollette telefoniche. Prego, signor Tardelli da questa parte, mi dissero. Volevano farmi una gentilezza, farmi passare avanti. Ma io volevo fare la fila, provare ad essere uno qualunque [...]» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 17/2/2004).