Varie, 6 marzo 2002
TATÒ Francesco
TATÒ Francesco Lodi 12 agosto 1932. Manager. Dal 2011 presidente della Parmalat. Iniziò la sua carriera nel ’56 entrando a far parte del gruppo Olivetti, dove rimase fino al 1982. Dal 1993 al 1995 fu amministratore delegato di Fininvest, poi amministratore delegato e direttore generale dell’Enel. Dal 2002 al 2003 ricoprì la carica di presidente del consiglio di amministrazione di Hdp. Dal luglio 2003 direttore generale della Treccani • «Già gli elementi-base della sua biografia sono abbastanza straordinari. Quello che viene considerato uno dei manager più bravi d’Italia è in realtà un laureato in filosofia presso il collegio universitario Ghislieri di Pavia. Lo stesso, peraltro, del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, suo grande nemico e artefice della fine della sua carriera. Dopo l’università continuerà a occuparsi di filosofia, ma solo a titolo personale, come persona colta, alla sera dopo qualche lunga giornata come manager o sul Concorde, quando per un certo tempo fa il pendolare fra l’Italia e la Olivetti America. La sorte lo porterà poi a essere uno dei manager a cui Silvio Berlusconi deve di più. E a essere uno dei primi manager la cui carriera viene troncata proprio dal governo di Berlusconi, e questo nonostante il suo lavoro all’Enel sia stato impeccabile e abbia portato a risultati di bilancio, e di crescita, assolutamente straordinari. Unico neo in un personaggio del genere: un carattere non facile (Kaiser Tatò o Kaiser Franz sono i due soprannomi che si porta dietro), un’abitudine a fare solo di testa propria e una certa vocazione a non curarsi dell’opinione della gente. A un certo punto, quando è già all’Enel, si innamora di una bellissima ragazza molto più giovane di lui, Sonia Raule (che lo renderà padre, a settant’anni). E non la nasconde, va a vivere con lei e la presenta ovunque come la sua compagna. Un uomo così è ovvio che, alla fine, mette insieme pochi amici. E infatti i suoi sono pochi. Anche se, per la verità, se ne contano a destra come a sinistra. E questo perché, prima di tutto, al di là del cattivo carattere, è proprio bravo. Ma questo si è capito dopo. Per un lungo periodo di tempo la sua carriera si svolge nell’anonimato più completo. È un bravo manager come tanti. A un certo punto fa impressione il fatto che vada a dirigere un’azienda in Germania, nella Foresta Nera. Diventa infatti presidente della Kienzle, che ristruttura con polso molto fermo e molto deciso. Quella, peraltro, non sarà la sua unica esperienza tedesca. Ma dal 1984 al 1986 sarà anche amministratore delegato della Mondadori, già passata sotto il controllo di Silvio Berlusconi. Dopo torna in Germania, questa volta a dirigere la Triumph Adler, che nel frattempo è stata acquistata dalla Olivetti (quindi, in un certo senso, torna a casa). Dal 1991 al 1994 torna a fare l’amministratore delegato della Mondadori. Ma, intanto, le acque in casa Fininvest si sono fatte molto brutte. L’azienda è piena di debiti e le banche, che non si fidano del management che c’è, chiedono una svolta. Berlusconi si guarda intorno a la persona che trova è proprio Franco Tatò. Un personaggio che ha un curriculum manageriale impeccabile e di cui le banche si fidano completamente. E così Tatò nel 1993 diventa anche amministratore delegato della Fininvest. La riorganizza e pilota l’approdo in Borsa della controllata Mediaset. Si tratta, nella sostanza, di un vero e proprio salvataggio. Da quella crisi la Fininvest si risolleva presto e si trasforma in quella macchina da soldi che tutti conosciamo. Adesso, tutti quelli che allora lavoravano nell’azienda del Biscione si attribuiscono il merito dell’operazione che fra il 1993 e il 1995 ha trasformato quell’azienda in una delle realtà imprenditoriali più profittevoli del paese, ma evidente che il nome e il lavoro di Franco Tatò sono state due carte decisive. Nel 1996 viene nominato amministratore delegato dell’Enel. E si rivela il manager straordinario che intanto la gente aveva imparato a conoscere. Silenzioso, ma determinato nel fare quello che si deve nell’interesse dell’azienda. Il suo lavoro può essere riassunto in pochissime cifre. Nel 1995 (ultimo bilancio della precedente gestione) l’Enel chiude il suo bilancio con 1,150 miliardi di euro di utili. Nel 2000 (ultimo bilancio conosciuto di Tatò) l’Enel chiude i conti con 4,22 miliardi di euro di utili. In cinque anni, cioè, Tatò ha moltiplicato gli utili dell’azienda di quattro volte. E il monte dividendi (i soldi distribuiti agli azionisti) è stato moltiplicato per tre. Nel frattempo, si è anche inventato un’azienda telefonica (Wind), che ormai è uno dei tre grandi operatori del paese e che vale molte migliaia di miliardi. […] Tanto era apprezzato dal premier, tanto meno era apprezzato dal ministro dell’Economia. Fra i due c’è molta vecchia ruggine. Un po’ per una questione di stile. I due, pur avendo studiato nello stesso collegio di Pavia, sono come abitanti di due pianeti diversi. Ma, inoltre, c’è il fatto che Tremonti ha bloccato un’operazione di acquisizione all’estero che avrebbe fatto dell’Enel uno dei più importanti operatori energetici d’Europa, cosa di cui ovviamente Tatò si è molto lamentato. Inoltre, a Tremonti non è mai andata giù l’operazione Wind, che ha dato fastidio a molti operatori del settore» (Giuseppe Turani, “la Repubblica” 14/5/2002). «“Guardando Tatò, anche io mi sento un costo da abbattere”. Era il 1994 quando Silvio Berlusconi pronunciò la famosa battuta su quello che allora era il suo plenipotenziario alla Fininvest, l’amministratore delegato che, dopo aver risanato la Mondadori, era stato chiamato a fare la stessa cosa nella holding al vertice di tutta la galassia messa in piedi dal Cavaliere con una serie straordinaria di intuizioni imprenditoriali ma anche senza badare troppo ai conti. E che proprio per questo si trovava in una situazione finanziaria delicata: a fine ’93, quando fu chiamato in Fininvest, i debiti viaggiavano sui 4 mila miliardi di lire. Oggi chi conosce bene i due protagonisti dice che in quella battuta è racchiusa l’essenza dei rapporti tra i due uomini. Perché le battute di Berlusconi non sono quasi mai casuali, ma spesso rappresentano una specie di “precipitato verbale” dei suoi sentimenti più profondi. Sentimenti che verso Tatò erano un misto di amore e odio, di ammirazione e timore. Si tratta di vocaboli che vanno intesi in senso lato, naturalmente. Ma chi ha vissuto il periodo Tatò prima in Mondadori, poi in Fininvest, poi di nuovo in Mondadori (inizio ’95) fino alla partenza del manager per l’Enel nel giugno ’96, usa proprio questi termini. Per capire, allora, conviene tornare a quel periodo. Anzi, ancora prima, agli anni ’80, quando Berlusconi fa fare alla Fininvest il grande salto verso l’empireo delle imprese nazionali. Quello sviluppo tumultuoso venne realizzato con una squadra di uomini tutto sommato ridotta: Giancarlo Foscale, il cugino di Berlusconi, Adriano Galliani, il mago delle antenne e delle frequenze, Fedele Confalonieri, l’amico di sempre, Amedeo Messina, il capo della tecnostruttura finanziaria e soprattutto Marcello Dell’Utri, il numero uno di Publitalia, la concessionaria di pubblicità, la macchina da soldi che in pochi anni sbaraglia la concorrenza e giunge a minacciare la Rai. Sono compagni di lavoro, ma anche amici, insieme ne hanno passate molte, sotto la guida di Berlusconi hanno costruito un impero. È un vertice coeso ma non strutturato secondo organigrammi aziendali, dove tutti fanno tutto, magari sprecando energie e risorse ma con indubbio successo. In questo ambiente arriva Tatò: preceduto da una fama di tagliatore di teste, di una durezza che il soggiorno in Germania, quando era all’Olivetti, sembra aver temprato ancora di più (donde il soprannome di Kaiser Franz), viene chiamato a mettere a posto i conti, forse su mandato delle banche (ma lui ha sempre smentito) preoccupate per i propri crediti. In Mondadori ci era riuscito, ma non senza costi umani, soprattutto tra i manager. Logico che l’arrivo di Tatò venga guardato con sospetto. Una diffidenza che il carattere di Kaiser Franz, non facilissimo, non fa nulla per dissipare. È un battitore libero, si muove da solo, con spregiudicatezza e incisività, arriva fino, si dice, a portare a Berlusconi i registri aziendali minacciando di farli proseguire per il tribunale. E presto viene accusato, soprattutto da Dell’Utri, di sacrificare lo sviluppo in favore del riequilibrio. E Berlusconi in mezzo, a comporre, con l’aiuto di Confalonieri, dissidi senza fine. Con grande ammirazione per le capacità gestionali di Tatò ma anche sconcerto per l’incapacità del manager di fare squadra, di piacere, di farsi amare. Tutte qualità che Berlusconi possiede in gran quantità e su cui ha costruito la propria fortuna. Così Tatò è costretto a lasciare Fininvest per tornare in Mondadori, per poi andare all’Enel, mentre la Fininvest viene risanata grazie all’approdo delle tv in Borsa. E Berlusconi? Continua a stimare il manager ma non ad amarlo, lo difende finché può ma alla fine sceglie chi sente più simile e vicino. Un copione, a quanto pare, che ieri si è ripetuto» (Paolo Rastelli, “la Repubblica” 14/5/2002).