Varie, 7 marzo 2002
TOAFF Elio
TOAFF Elio Livorno 30 aprile 1915. Ex rabbino capo di Roma. figlio di Alice Jarach e del rabbino capo Alfredo Sabato. Allievo del Collegio rabbinico di Livorno, si laurea in Giurisprudenza a Pisa, partecipa alla Resistenza, è rabbino ad Ancona e poi a Venezia. Nel settembre del ’51 arriva a Roma come rabbino capo assieme alla moglie Lia Luperini e ai quattro figli. Tesse rapporti con i politici italiani e con la Chiesa, culminati nella visita di Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986. Non sempre ha rapporti tranquilli con Israele. Nell’ottobre del 2000 definisce «irresponsabile provocazione» la visita di Sharon alla Spianata delle Moschee. Si dimette l’8 ottobre 2001 • «Il più illustre rappresentante dell’ebraismo italiano, figlio a sua volta di un famoso rabbino livornese [...] ha detto di essere diventato rabbino nonostante che suo padre glielo sconsigliasse. [...] “Mi disse che fare il rabbino non era né semplice né comodo. Bisogna accollarsi tutto quello che succede in una comunità, affrontare insieme le difficoltà e i dolori. [...] Da mio padre, che era un bravissimo professore di greco (fra l’altro aveva dato a lungo lezioni a un ragazzo che si chiamava Carlo Azeglio Ciampi), avevo imparato per fortuna a vedere il lato buono anche nelle cose più terribili, a difendermi con l’ironia. Ero un bambino quando, durante le azioni squadriste del ’22, uno studente fascista sparò in classe a mio padre. Lui, senza scomporsi, si fece consegnare la pistola e la mise sulla cattedra. A lezione finita gliela restituì dicendo: ‘La prossima volta usala meglio’ [...] chiesi la tesi di laurea. Era il ’38 e con le leggi razziali gli ebrei non potevano più né insegnare né iscriversi. Non trovavo un solo professore disposto a darmi la tesi, finché accettò il professor Mossa. Ma alla discussione finale il preside della facoltà, Cesarini Sforza, buttò la toga sulla cattedra e uscì sbattendo la porta. Che un ebreo potesse ottenere la laurea era superiore alla sua sopportazione [...] Ancora oggi non posso pensare alla Shoah senza vedermi davanti agli occhi i morti della strage di Sant’Anna di Stazzema. Ero partigiano in Versilia, entrai in paese poco dopo che i nazisti ne erano usciti. Mi trovai davanti i cadaveri di più di 500 persone, donne, uomini e bambini, ammassati in mezzo alla piazza e bruciati dando fuoco alle panche della chiesa. Sono immagini che non ho mai potuto dimenticare, che sono tornate per molto tempo nei miei sogni[...] Quella strage era l’espressione di un odio inconcepibile di esseri umani nei confronti di altri esseri umani, di un razzismo che conduce all’annientamento di chi è diverso da te. Questa, come altre esperienze drammatiche vissute durante la resistenza, mi sono state di grande aiuto quando, nel dopoguerra, sono diventato rabbino capo della comunità di Roma”. Era il 1951 [...] “Trovai miseria, disperazione. Una comunità che può vantarsi di essere la più antica d’Europa viveva come in un incubo, e ben pochi trovavano la forza di reagire. Avevo cercato di riportarli alla realtà, riscoprendo prima di tutto l’orgoglio delle nostre radici. Mi dedicai a rimettere in piedi le nostre scuole, che erano praticamente scomparse, a ricostruire la biblioteca del Tempio. Perfino i libri, nel ’43, erano stati deportati dai nazisti. Avevano caricato i volumi più preziosi su un treno, che poi fu bombardato a Civitavecchia da un aereo inglese. I libri rimasero sparsi sulla strada. Ma qualcuno per fortuna ce li riportò [...] Ci fu una rumorosa minoranza fascista che non rinunciò per molto tempo al suo antisemitismo. Negli anni Cinquanta fummo perfino costretti a fare le barricate contro alcune incursioni di scalmanati che volevano penetrare nel Portico d’Ottavia. Ma li ricacciammo indietro. Non ci riprovarono più [...] mio padre, [...] mi aveva insegnato a dialogare con le altre religioni. Lui era grande amico del vescovo di Livorno. Non dimenticherò mai che ai funerali di mio padre il vescovo fece suonare a morto le campane di tutte le chiese della città. A Roma mi venne naturale tenere rapporti con vari prelati cattolici. Fu con il cardinale Dupré, che allora era il presidente della commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, che maturò l’idea di questa visita. Anche attraverso il cardinal Meyìa ci furono vari incontri riservati alla chiesa di San Carlo dei Catinari. ‘Ha qualcosa in contrario a entrare?’, mi aveva chiesto Meyìa davanti alla porta della canonica. Io risposi di no, rompendo una vecchia tradizione. Mi preoccupava però anche quel che avrebbero pensato i rabbini europei. Li consultai uno per uno, mi dissero tutti di sì. E così si arrivò, il 13 aprile dell’86, alla visita di Giovanni Paolo II al Tempio maggiore [...] Mi colpì che il papa, abbracciandomi, ci chiamasse ‘fratelli maggiori’ invece che ‘perfidi ebrei’, come ai tempi di Pietro“. Anche con i nostri presidenti della Repubblica i suoi rapporti sono stati ottimi. Con una breve eccezione per quel che riguarda Pertini, quando nell’82, a causa di un attentato di terroristi arabi alla sinagoga, rimase ucciso un bambino di pochi anni. “Me la presi con Pertini per il clima di antisemitismo che era stato alimentato in seguito al problema palestinese. ‘Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui’, gli dissi con il mio impeto livornese, vedendolo nella camera ardente. Uscì in silenzio, ma poi mi ritelefonò addoloratissimo. E allora capii che era necessario un gesto di riconciliazione. Andammo sottobraccio ai funerali e nessuno lo contestò. Ma prima avevo detto in sinagoga: ‘Se domani sentirò anche una sola voce contro Pertini vi dovrete cercare un altro rabbino’ [...] Tutte le fedi tendono alla pace. Questo è il loro fondamento, che non può venir intaccato da singoli episodi. Anche di fronte alla guerra non si può dimenticarsene” [...]» (Chiara Valentini, “L’Espresso” 22/11/2001) • «Non potrò mai dimenticare chi mi salvò quando ero rabbino ad Ancona. Abitavo in via Maratta a circa cento metri dalla chiesa del Gesù dove c’era un prete dall’aspetto minuto, don Bernardino, il quale aveva fatto amicizia con me. Spesso parlavamo insieme, si faceva due passi. Una mattina mentre tornavo dalla preghiera del tempio mi venne incontro per strada e con cenni e qualche parola concitata mi invitò a stare attento. Io gli chiesi: “Don Bernardino che c’è, che è successo?”. E lui: “Attenzione, a casa sua ci sono i tedeschi che l’aspettano, venga in canonica”. Andai da lui in canonica e mi sono salvato» (Orazio La Rocca, “la Repubblica” 27/1/2001).