Varie, 7 marzo 2002
TOMMASI Damiano
TOMMASI Damiano Negrar (Verona) 17 maggio 1974. Ex calciatore. Dal 2011 presidente dell’Assocalciatori. Terzo di cinque figli, iniziò a giocare nel 1985. Nel 1990 approdò al Verona con il quale esordì in serie B. Il 1996 fu un anno speciale: vinse gli Europei Under 21 e il campionato di serie B, debuttò in serie A, fu convocato in azzurro, sposò Chiara, da cui ha avuto 4 figli (tre femmine e un maschio). Nello stesso anno passò alla Roma dove restò per dieci anni, vincendo uno scudetto (2001). Nel 2006 lasciò la Roma per il Levante, squadra spagnola. Nel 2008 giocò in Inghilterra, nel Queen’s Park Rangers. A inizio 2009 accettò l’offerta del Tianjin Teda, in Cina • «[...] alcuni brutti infortuni per un lento declino fino a quella maledetta amichevole del 22 luglio 2004 con gli inglesi dello Stoke City. Amichevole… Vaglielo a spiegare agli inglesi che una partita può essere amichevole. Al povero Tommasi un’entrata albionica frantuma il ginocchio destro: menisco, rotula, legamenti, perfino i vasi sanguigni risultano distrutti. Seguono 15 mesi di riabilitazione. Intanto il contratto che lo lega alla Roma scade. Che fare? A 31 anni e con un ginocchio disintegrato, quali garanzie può dare un atleta, nella serie A dai toni agonistici esasperati? Damiano Tommasi fa una proposta: mettetemi al minimo salariale, 1470 euro. Non al giorno, al mese. D’accordo, Tommasi viene da anni di stipendi lauti. Diciamo che il sacrificio è stato relativo. Fatto sta il suo caso è unico. Ma unico è Tommasi, soprannominato a Roma “anima candida” perché è socialmente impegnato, ha fatto l’obiettore di coscienza, ha sponsorizzato i palloni pakistani equi e solidali, eccetera. Tommasi è unico perché vince la sua scommessa. [...] Bisognerebbe non aver paura di dirlo: Tommasi è Tommasi perché cristiano impegnato. Uno che va a messa la domenica. Che l’obiezione di coscienza l’ha fatta per la Caritas presso Radiotelepace. Uno che si è sposato con la fidanzatina di quando era adolescente. Uno che non si nasconde. È un cristiano né lamentoso né arrogante, ma tutto d’un pezzo, capace di stringere i denti 15 mesi, tornare a giocare, fare gol. Se la fede non va sbandierata, neppure va tenuta nascosta. Le radici di Damiano Tommasi affondano a Vaggimal, nel Veronese, un paesino di montagna abitato da 75 famiglie; le sue radici sono i genitori e i quattro fratelli, la parrocchia, il catechismo. Lo sport vissuto come una passione prima e una professione poi, ma sempre lealmente, da cristiano. No, la fede non si esibisce, ma perché oscurarla? [...] Tommasi è quel che è perché cristiano fino in fondo, lo sappiamo, però è meglio non dirlo, forse per non disturbare. Eppure lo stesso Tommasi non ha mai fatto mistero della propria fede. Ecco come ne parlava il primo marzo 2002 durante un incontro nella parrocchia romana di S. Melania: “Non trovo difficoltà a vivere la mia fede, perché sono talmente convinto di quello in cui credo che è un problema degli altri se do fastidio con il mio comportamento, se dà fastidio che io non cerchi d’ingannare l’avversario, che cerchi di rispettarlo”. E gli sfottò fioccavano, in passato: “Sono talmente convinto della mia fede che non ho alcun problema a essere preso in giro. La presa in giro è poi un metro per misurare l’intelligenza delle persone. Così ho pazienza con chi mi insulta, con chi mi dice che non sono capace di giocare a calcio, di tornare a Verona, di tagliarmi i capelli, di andare a messa invece di andare allo stadio, di raddrizzarmi i piedi…” [...]» (Umberto Folena, “Avvenire” 29/11/2005). «In paese dicono che deve aver preso da nonno Alfonso, morto a 99 anni, alla mattina presto già col toscano in bocca , forte nella corsa a piedi prima, nelle camminate poi. È lui che gli ha insegnato a spaccare la legna, a riconoscere i funghi, ad avviarsi sugli sci da fondo. Domenico, suo padre, gli ha insegnato a giocare a tamburello e a cavare il marmo» (Gianni Mura, “la Repubblica” 19/1/2001). A lungo contestato dai tifosi della Roma ma poi tra i cinquanta calciatori nominati per il pallone d’oro 2001: «Rivincita? Macché. Non sono il tipo da cercare rivincite o covare vendette. Se mai, è una soddisfazione. Anzi, una grossa soddisfazione. Perché non me l’aspettavo e perché è un riconoscimento che premia un anno di lavoro, non soltanto una partita. Ad esser sinceri, comunque, ’sta storia della nomination mi sembra un po’ troppo... Ecco perché ’sto Pallone d’oro io l’ho già vinto. Anche se arrivassi al cinquantesimo posto, avrei vinto lo stesso. E volete sapere qual è stata la prima conseguenza? Ho dovuto pagare la pizza a tutto lo spogliatoio. Ditemi: potevo tirarmi idietro? No, assolutamente no. E poi Francesco non la faceva più finita... Allora gli ho detto: io il Pallone d’oro l’ho vinto, adesso tocca a te. Temo, però, che per Totti arrivare al primo posto non sarà facile. E non tanto perché non lo meriti: il fatto è che la giuria tiene conto anche del passato di un giocatore, e sotto questo aspetto - non certo per colpe proprie - Francesco è un po’ in ritardo […] Dimenticare quanto mi è accaduto negli anni passati, comunque, è impossibile. Mi riferisco ai fischi che beccavo ad ogni occasione. Io, in tutta onestà, non li ho mai sofferti più di tanto, perché anche i fischi fanno parte del mio lavoro. Solo in una circostanza mi hanno fatto star male. Indirettamente, però. Era l’ultima giornata del campionato ’96-’97, e noi giocavamo all’Olimpico contro l’Udinese: perdemmo tre a zero, io venni sostituito e al momento di lasciare il campo fui pesantemente contestato. Normale? Non proprio almeno quella volta, perché in tribuna c’era mio fratello e quando lo incontrai dopo la partita lo trovai molto amareggiato. E vedere mio fratello in quelle condizioni mi fece molto male”» (Mimmo Ferretti, “Il Messaggero” 14/11/2001). «Il paese dove è nato, un venerdì 17, si chiama Negrar. Terra di provincia, lontana dai fascini della Verona shakespeariana. Terra di brava gente che tira sera lavorando all’ombra del campanile. In quel nome, Negrar, che sembra un verbo piegato verso la fatica, senti bontà e bellezza dei puri & semplici ai quali l’impegno non basta mai, padri e figli esemplari da molto prima che esistesse l’oro del Nordest. Damiano Tommasi, l’anima candida della Roma, ha le caratteristiche sane del suo popolo. Di lui si conoscono lo spirito positivo, la grinta, l’instancabilità, il cuore generoso. Immagine cara ai giallorossi, nel bene e nel male, vive come dipinto a colori vividi su un’icona bizantina: giovane santo di tanta barba e tanti capelli, labbra carnose, carisma fatto di concretezze e di silenzio. Ma al momento dell’omelia - i fedeli lo sanno - dall’onda rasta della zazzera scura scaturisce anche la rabbia. Damiano delle combattute coscienze, della musica con parole, dei libri che insegnano a vivere. Atleta di successo che avverte l’ingiustizia, la sperequazione sociale, il bisogno di pulizia. Consapevole più che polemico. Roccioso più che ingenuo. Assolutamente lontano dalla naivete» (Rita Sala, “Il Messaggero” 11/1/2002).