Varie, 7 marzo 2002
TREMONTI Giulio
TREMONTI Giulio Sondrio 18 agosto 1947. Avvocato tributarista. Politico. Deputato di Forza Italia dal 1994 al 2008 e poi del Pdl. Ministro delle Finanze nel primo governo Berlusconi (1994), dell’Economia e delle Finanze nel Berlusconi II, III, IV (2001-04, 2005-06, 2008-11) • «Nessuno [...] ha incarnato meglio di Giulio Tremonti quel vento del Nord che ha portato Berlusconi a Palazzo Chigi nel ’94 e gli ha concesso una seconda chance nel 2001. Nessuno, dentro Forza Italia, ha interpretato con tanta personalità la voglia di modernizzazione e l’insofferenza per la burocrazia romana, la richiesta di efficienza e l’odio per i lacci e lacciuoli pubblici che calpestano il sacrosanto diritto di far soldi, ma anche di non regalarne allo Stato, fino a teorizzare l’inevitabilità dell’evasione (e lo stesso ministro dell’Economia, nel ‘91 incappò per qualche milione non denunciato nella rete della Finanza). Che poi Tremonti, personalmente, ci credesse davvero fino in fondo, è un altro discorso e meno importante. Sono in molti quelli che vedono in lui almeno altrettanto cinismo che intelligenza. Ma, come detto, è una questione secondaria. Quel che conta è che Giulio Tremonti è stato l’uomo al quale Berlusconi ha affidato il compito di realizzare il sogno che gli ha permesso di conquistare la Penisola: tagliare le tasse, decurtare i balzelli tanto alle famiglie del Sud, quanto alle imprese del Nord. Con queste premesse, si capisce perché il superministro fosse tanto amato dai leghisti, (dalla base, non così dai dirigenti a dire la verità) che all’ultimo congresso del Carroccio gli tributarono un’autentica ovazione quando esordì dal palco dicendo: "Io non sono per il cuscus, a me piace la polenta". E si spiega anche come il salto da abile tecnico che era stato titolare delle Finanze nel primo governo Berlusconi a politico vero, sia stato legato proprio alla fiducia che Tremonti ha saputo suscitare nel diffidentissimo Bossi, con il quale ha stretto una vera amicizia a furia di vacanze in montagna e biciclettate fin in Austria e che, per una "extraordinaria malignità di Fortuna" gli è mancato proprio nel momento più delicato, nel passaggio più difficile. Si deve infatti in buona parte alle notti passate in pizzeria con Bossi, alla paziente ricucitura di Tremonti, il successo dellaa trattativa che riportò la Lega nel centrodestra, dopo il ribaltone e anni di accuse e controaccuse, e che permise alla Casa della Libertà la vittoria del 2001. E, al tempo stesso, che sulle pagine dei giornali ma anche nei corridoi di Forza Italia, fece dell’ex socialista collaboratore di Formica il “delfino” di Silvio, l’uomo che aveva tutti i numeri per succedergli un giorno. Inutile dire che la rapidissima scalata nelle grazie del Cavaliere rinfocolò contro Tremonti invidie e rancori, già ampiamente fomentati dal suo carattere impossibile e dalla sua insopprimibile predisposizione a trattare la stragrande maggioranza dei suoi simili dall’alto in basso. Epici gli scontri con il suo predecessore Visco, da lui soprannominato Dracula e accusato di succhiare il sangue dei contribuenti italiani; ripetuti, anzi immancabili, le liti con i colleghi in Consiglio dei ministri, che in una occasione hanno coinvolto perfino la gelida Letizia Moratti; implacabile il reciproco astio con Ginfranco Fini. Ma, naturalmente, non sono state queste tempeste a travolgere Tremonti. Sono stati, è chiaro, i mutati rapporti di forza all’interno della Casa delle Libertà, il tonfo pesante del partito del presidente del Consiglio e il contemporaneo consolidarsi degli alleati-rivali di An e Udc, non compensato dalla crescita della Lega. E, di conseguenza, la sconfitta dell’asse Berlusconi-Bossi-Tremonti intorno al quale si è mossa in questi primi tre anni la politica del centrodestra al governo. A travolgerlo è stata, certo, anche la difficoltà incontrata dalle riforme, frenate a volte dalla mancanza di coraggio e dall’imperizia, spesso dalla forza d’inerzia dell’esistente e dalle resistenze sorde di corpi dello Stato e corporazioni. Ma c’è di più. C’è che quella politica è stata affondata dall’11 settembre del 2001, dalla crisi economica e dalla voglia di sicurezza che quegli eventi hanno generato. Una crisi che il liberismo non è in grado di arginare e che nessuna Mano Invisibile è in grado di padroneggiare. Tremonti ha provato a reagire con acrobazie spericolate, a volte utili a volte fallimentari e addirittura controproducenti, che lo hanno trasformato nel profeta della «finanza creativa». E ha provato a reagire con un’ennesima piroetta, teorizzando in anticipo un ritorno al colbertismo che in questi mesi impazza negli Stati Uniti, dove si progettano nuovi dazi e punizioni fiscali alle imprese che delocalizzano. Troppo tardi e troppo poco. Come troppo tardi arriverà quella ripresa economica mondiale alla quale alla fine del 2003 il ministro affidava le speranze di tagliare le tasse e di realizzare il sogno berlusconiano [...]» ("La Stampa" 3/7/2004). « Dove troveremo [...] un altro ministro dell’Economia che si adatta a dormire in caserma, a pedalare in Austria, a fare trekking in Valcamonica con Eridano Bossi e Roberto Libertà Bossi, pur di accudirne il padre? Che pranza a mezzanotte nella cucina allestita al ministero, per poi riprendere a lavorare davanti al caminetto e a un cognac? Che cita gli scritti di un giurista ignoto ai più, sino a farne una star dell’opposizione? Che rompe la liturgia di Cernobbio facendosi beffe dei soloni del lago? Che saluta polemicamente a pugno chiuso l’ex direttore dell’ufficio studi di Confindustria? Che parla confidenzialmente di Colbert ministro del re Sole come fosse un compagno di scuola? Qualcuno ha collocato il genio di Giulio Tremonti ai confini della pazzia. Nessuno ha mai potuto in buonafede negarlo. La sua ambizione ne ha fatto un uomo di contrasti: il più ricco tributarista italiano fotografato in missione a Lipari con il berretto della Guardia di finanza; il ministro dalle 14 minacce di dimissioni che al momento buono bisogna cacciarlo; il socialista sospinto dal vento del Nord verso la politica delle partite Iva; e, per contrappasso, il profeta del liberalismo padano che blocca le privatizzazioni e teorizza nuove forme di protezionismo. Piacione mai però; di questi tempi, non è poco. L’arte dell’antipatia coltivata con feroce eleganza. Mai un momento di noia o un combattimento rifiutato. In mille giorni Tremonti si è scelto con cura i rivali e li ha puntati. Due su tutti: Giuliano Amato e Gianfranco Fini. Alla sinistra non ha risparmiato nulla, invettive acclamatissime dal podio dei congressi di Lega e Forza Italia, citazioni, calembour, insulti; ha fatto un punto d’onore di non provare soggezione per nessuno, tanto meno per l’uomo più stimato e temuto da Berlusconi, quel Dottor Sottile cui nell’estate 2001 ha imputato il buco nei conti pubblici e in quella 2002 ha rispedito la bozza della Costituzione europea definendola "un intrigo tipo Nome della Rosa" ( Follini che la difendeva fu invece rinviato all’"idea di gioco in Huizinga"). Con il leader di An non ha cercato il conflitto. Ne è diventato l’interditore naturale. Quando Fini si spartì con i vincitori le spoglie dell’Ulivo, non volle per sé deleghe ma la vicepresidenza unica; per essere lui a dettare l’agenda politica, a supportare con la tecnica la leadership carismatica di Berlusconi. Sulla strada ha incontrato Tremonti. Che è ricorso alla propria natura molteplice: professore, professionista, politico; lombardo al cubo, nato nelle Prealpi cresciuto nella Bassa affermatosi a Milano. Forte del rapporto con Bossi (chissà come sarebbe finita se ci fosse stato il Senatur), ha messo il piede in tutte le azioni del governo, anche quelle che esulavano dai suoi cinque ministeri: dalla legge sull’immigrazione alla giustizia ("anch’io voglio il mandato di cattura europeo, ma alla luce dei Lumi, non nell’oscurità delle segrete o di una sala macchine per autodafé"). Certo non ha fatto una politica di destra. Ha parlato semmai di New Deal, anche se forse pensava, più che a Roosevelt, all’intervento pubblico in Fiat. Del resto Tremonti veniva da sinistra. Il consigliere di Reviglio, il tecnico tentato dalla Rete di Orlando, l’economista di Segni era stato persuaso da Berlusconi solo dopo la vittoria elettorale del ’94. In quell’anno, mentre "c’erano pellegrini in cammino verso la City, parroci della retorica domestica della casalinga globalizzata di Voghera che trova il salame ungherese al supermarket", lui scriveva per Mondadori un’angosciosa profezia, Il fantasma della povertà. Il suo segno l’ha lasciato, nel male e nel bene. È stato l’unico ministro del governo Berlusconi a suscitare una produzione polemica, a vedere gli amati calembour volti contro di lui — "Treconti" — a sentire Rutelli raccontare in tv una barzelletta che dev’essergli parsa il calcio al leone morente ("L’Italia è un Paese bagnato da tre mari e prosciugato da tre- monti") . Sulla legge Tremonti però alcune imprese hanno prosperato. Poi c’è la sorella Angiola, artista dal talento riconosciuto tardivamente, che non dev’essere neppure lei di indole mite, se alla notizia dell’ennesimo premio rispose con un fax alla Provincia di Como: "Non sono io la sorella di Giulio, è lui che è mio fratello". Con i giornalisti, la famiglia ha rapporti burrascosi. Al fratello di Angiola Tremonti accadde di rivolgersi così in Transatlantico a un notista: "Il suo giornale è diretto da un trafficante d’armi!". E però poi sapeva scusarsi, con i direttori come con il cronista di Pordenone allontanato da una serata elettorale di Alessandra Guerra (quando Tremonti parlava di Illy come Berlusconi di Fini, "uno che non ha mai lavorato in vita sua"). Da Fini non lo divideva solo la biografia, ma l’idea della società, come dimostra la lettura comparata dei due progetti di riduzione delle aliquote Irpef. Fini non avrebbe mai pensato a un’aliquota per chi guadagna più di un milione di euro e non solo perché non avendo mai lavorato in uno studio da tributarista non ha consuetudine con i redditi reali degli italiani. I due abitano paesi diversi, che non coincidono necessariamente con il Nord e il Sud, le partite Iva e le pensioni di invalidità, i piccoli imprenditori e i dipendenti pubblici. Forse la storia di Tremonti è anche una variante dei fallimenti della modernizzazione italiana. A Tremaglia che chiedeva denari per gli emigrati rispose con un’altra profezia angosciosa: "Di questo passo affonderete tutti. Io no, perché me ne andrò prima". Forse non sarà così. Di sicuro uno come Tremonti, nel male e nel bene, non lo avremo mai più» (Aldo Cazzullo, "Corriere della Sera" 4/7/2004). «Un fior di fiscalista, il suo studio è tra i più apprezzati in Italia (anche la Mediaset vi ha fatto ricorso), la sua carriera universitaria luccicante, come i tomi sfornati impongono di registrare. Il professore è sempre primo della classe: lo dicono gli altri e lo pensa anche lui. Coltiva la filosofia, Voltaire e Hobbes, gira da un posto all’altro, e infatti quando può (e anche quando non può) esibisce l’inglese, perfetto. Cita in latino quando la fortuna gli fa trovare accanto gli interlocutori giusti. A via Venti Settembre lo chiamano Treconti, ma solo i maligni. Con questo nomignolo vorrebbero indicare il disinteresse del ministro per gli effetti contabili delle sue misure. […] Come copre le sue leggi? “By magic”, per magia disse, sfottendolo, Beniamino Andreatta al tempo del primo governo Berlusconi. Anche l’economista Mario Baldassarri, che oggi è suo vice e non si permetterebbe mai, a quel tempo spiegò che “l’unico provvedimento significativo è la cedolare secca, il resto è parmigiano grattugiato sparso sulla pasta, senza però che ci sia la pasta”. […] È di Sondrio, ama la Valtellina, i funghi (“il golf dei poveri”) e le montagne. Se si avvererà la profezia del governatore della Banca d’Italia, “per cinque anni e forse più” starà a Roma, a curare gli affari pubblici. Ama la politica in tutte le sue versioni. C’è un Tremonti old style, socialista-bertinottiano, che cura per conto di Rino Formica il libro del Fisco. La ricetta è: tassazione delle rendite finanziarie, patrimoniale, abolizione del segreto bancario. “Roba da comunisti” direbbe il Tremonti di oggi, che sull’anonimato ha costruito la legge per il rientro dei capitali italiani all’estero. Finito il feeling socialista, riordinate le idee su liberismo e liberalismo, il professore ha voluto provare l’avventura con Mariotto Segni. Tre mesi e ha capito tutto. Meglio Forza Italia. Oggi è seduto sulla poltrona di Quintino Sella. Il carattere è quello che è, un poco irascibile. Offeso dalle critiche dell’Unità, ha interpellato un giornalista, convinto che fosse della stessa ditta: “Scusi, ma mi dice come ci si sente a lavorare in un giornale il cui direttore, mi sembra, vendeva armi in America?”. Ha conosciuto la “persecuzione” della Guardia di Finanza, subendo una verifica fiscale al tempo in cui era ministro delle Finanze, in un mirabile esempio di conflitto d’interessi. Il suo reddito gli ha consigliato di creare società con sede in luoghi più acconci, ad esempio il Lussemburgo. La sua famiglia gli ha imposto di tener casa a Pavia. Bossi l’ha obbligato a dare una lezione, sperando che tutti l’abbiano capita, su Voltaire» (Antonello Caporale, “la Repubblica” 11/12/2001). «Per addolcirlo gli hanno proposto un pranzo con i capigruppo della maggioranza. Stavolta lui ha detto: “Sì, grazie”. A tavola, poi, si toglierà la soddisfazione di dire sempre di no. Ormai è Giulio Tremonti contro il resto del mondo, una partita giunta al momento della verità: il Dpef che deve conciliare il rigore con le promesse di Berlusconi, gli appetiti dei ministri, le esigenze dei partiti. In consiglio dei ministri Tremonti ha litigato con molti, di tutte le aree. E i ministri tecnici sono i suoi bersagli preferiti, tanto nessuno li difende. Il titolare delle Tecnologie Lucio Stanca racconta una sua difficile giornata-tipo: “Nelle riunioni del consiglio molti di noi si presentano con i dossier preparati dagli uffici tecnici. Spieghiamo quello che vogliamo fare, illustriamo i diagrammi, i preventivi di spesa, parliamo per un’ora e mezza. Poi, tocca a lui e dice: non si può fare, ma grazie lo stesso. Così è frustrante...”. A volte Tremonti non si limita a un netto rifiuto. Dispensa giudizi severi e tanti ci rimangono male. Con il titolare delle Infrastrutture Pietro Lunardi ha fatto una litigata gigante ed è intervenuto Berlusconi. Lunardi rivendicava “autonomia di budget”. Tremonti lo ha bacchettato, figuriamoci. E adesso ha aperto un nuovo caso con la Patrimonio Spa. La gestione dei beni artistici tutta concentrata al Tesoro è destinata a provocare nuove gelosie, oltre all’allarme già espresso da Carlo Azeglio Ciampi. La scrivania del premier è intasata di lamentele più o meno esplicite per il comportamento del numero uno dell’Economia. Il loro è un patto d’acciaio, ma Berlusconi e Tremonti non potrebbero essere più diversi. Il Cavaliere è il politico-manager che quando gli “altri sono concavi si fa convesso e viceversa”. L’idolo delle “partite Iva” sembra invece provare un sottile piacere nel rifare ogni giorno la punta agli angoli dell’azione di governo. […] Il presidente della Camera Pierferdinando Casini ha individuato in lui l’unico vero avversario nella corsa alla candidatura per il 2006 quando Berlusconi potrebbe finire al Quirinale. […] I rapporti sono tesi persino con Girolamo Sirchia, un signore che ha una parola buona per tutti, da medico che ogni giorno combatte la sofferenza. Eppure sul documento di programmazione economica il titolare della Salute s’irrigidisce: “Io ho il mio elenco della spesa. Certo, c’è un buco da coprire e qualcuno dovrà studiare una soluzione. Ma non devono pagare i cittadini”. Parole secche, come quelle di un ministro che già si prepara a un braccio di ferro. […] Tremonti comunque sa anticipare le proteste dei colleghi. Per il Dpef ha chiesto per lettera i desiderata di ciascun ministro. “Ed è arrivata una valanga di richieste di spesa”, ha confidato ai suoi collaboratori sventolando in particolare un progetto del ministro di An Gianni Alemanno. Tremonti non ci ha pensato due volte spedendo tutto a Palazzo Chigi. Come dire: vedi perché mi tocca litigare. Come lo scrivano Bartleby ripete sempre: “Preferirei di no”. Ma non è un atteggiamento passivo, il suo. Infatti tutti s’infuriano. Tranne gli amici. A Bossi qualcosa concede, come per le fondazioni bancarie, studiate a pennello per le ambizioni leghiste. E allora o si è amici o si fanno le barricate» (Goffredo De Marchis, “la Repubblica” 20/6/2002). «[...] si è costruito una vasta esperienza di governo in campo economico [...] È stato consigliere del ministro delle Finanze alla fine degli Anni Settanta, e poi ancora due volte durante gli Anni Ottanta (i ministri con cui lavorava erano membri del Psi). Nel 1992 è stato consigliere del premier socialista Amato durante il suo primo mandato. È rimasto nell’ufficio del presidente del Consiglio fino al 1994. Poi arriva la svolta: n el 1994 viene eletto alla Camera con la formazione centrista “Patto Segni”. Poco dopo crea la Fondazione liberaldemocratica, e più tardi il movimento Alleanza democratica.Ministro delle Finanze nel governo guida- allora in poi è rimasto il suo consigliere economico di fiducia [...] Come responsabile delle Finanze ha guidato la commissione per la rinegoziazione del trattato fra Italia e Stati Uniti sulla doppia tassazione [...] Tremonti è sposato e ha due figli. Parla correntemente inglese e francese. Il suo hobby è la lettura e i suoi sport preferiti sono lo sci e il tennis» (da un rapporto della Cia; Paolo Mastrolilli, Maurizio Molinari, “La Stampa” 15/9/2005).