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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

Trentin Bruno

• Pavie (Francia) 19 dicembre 1929, Roma 23 agosto 2007. Sindacalista. Ex segretario della Cgil • «[...] Noto soprattutto per gli anni dall’88 al ”94 quando fu segretario generale della Cgil (prima di passare il testimone a Sergio Cofferati), Bruno Trentin era stato per una quindicina d’anni alla guida della Fiom, la federazione degli operai metalmeccanici, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, mentre negli anni Novanta era stato membro del Cnel e direttore dell’ufficio programmi della Cgil oltre che parlamentare europeo eletto nel 1999 nelle liste dei Ds. Prima di iniziare la carriera all’interno del sindacato Trentin aveva combattuto nelle file della Resistenza e dal 1944 aveva guidato una brigata partigiana del gruppo ”Giustizia e libertà”» (Andrea Selva, ”la Repubblica” 24/8/2006) • «[...] Capo carismatico dei metalmeccanici nell’autunno caldo, spesso coscienza critica della sinistra: fu contro l’egualitarismo salariale, poi seppe riconoscere l’errore del referendum sulla scala mobile, infine mise in guardia la sinistra sulla fine del posto fisso. Firmò l’accordo con Ciampi nel ”93, dopo essersi clamorosamente dimesso dalla guida della Cgil l’anno prima. [...]» (r.ma., ”la Repubblica” 26/11/2005) • «[...] Partigiano, professore di diritto, sindacalista: così le cronologie descrivono sommariamente il curriculum vitae dell’uomo. Troppo semplice, troppo didascalico, magari parzialmente inesatto. Perchè Trentin è stato soprattutto un sindacalista. Leader di una Cgil che aveva visto alla propria guida degli autentici ”profeti”, quali Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama. Diceva, Trentin [...] ”Nel sindacato ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario; ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere...”. Razza Piave - suo padre era nato a San Donà - e lo aveva dimostrato durante la guerra partigiana guidando a soli 18 anni una brigata delle formazioni di Giustizia e Libertà. Ma prima ancora aveva combattuto in Francia (1941) contro la Repubblica di Vichy. Poi gli studi e la laurea presso la Harvard University. Nel 1949 l’iscrizione alla Cgil, l’anno successivo entra nel partito comunista con l’elezione a consigliere comunale di Roma (1960-’63). Poi deputato (’62-’72). Dal ”62 al ”77 è anche segretario generale della Fiom (l’organizzazione metalmeccanica della Cgil) e della Film. Dal 1988 al 1994 è leader della Cgil. Sono sei anni difficili per il sindacato di corso d’Italia logorato da contrasti interni, emersi con l’uscita di Luciano Lama, e alle prese con una situazione politica ed economica del Paese delicatissima. La firma del Patto del ”93 sulla politica dei redditi, che pone fine al controverso sistema della scala mobile, porta alla crisi con Trentin che firma e subito si dimette dal vertice della confederazione. Una crisi che rientra con il compromesso del nastro nascente, Sergio Cofferati. Trentin diventa membro del Cnel e dal ”94 dirige l’ufficio programmi della Cgil. Dal ”99 al 2004 è parlamentare europeo tra le file dei democratici di sinistra. La biografia non offre altri spunti salienti. I sentimenti, i ricordi, le poche battute pizzicate dal vivo, raccontano, invece, di un uomo profondamente ”serio” anche se l’aggettivo può risultare banale. Aplomb tutto inglese, perfetto controllo del fisico e dell’espressione, sino, talvolta, a risultare antipatico. Magari capace di sprigionare un vago timore reverenziale. Ma sempre degno di assoluto rispetto. Però, l’uomo, di sentimenti ne aveva, eccome. Lo dimostrò quel lontano [...] quando annunciò le dimissioni dal vertrice della segreteria e una lacrima gli scivolò lungo una gota. Altri occhi nell’auditorium di via dei Frentani, a Roma, si illuminarono fino ad inumidirsi. [...] ”Il problema dei sindacati - diceva [...] - non è e non può essere quello di resistere. Se i cambiamenti sono di natura profonda e irreversibili, il problema appunto non è quello di resistere e poi perdere la partita, ma quello di governare il cambiamento nella direzione più utile per i lavoratori”» (Luciano Costantini, ”Il Messaggero” 24/8/2007) • «[...] è stato il più intellettuale tra i segretari del maggiore sindacato italiano, ma questo non gli ha impedito di lasciare un segno concreto in momenti importanti della vita nazionale, traghettando la Cgil su posizioni via via più riformiste e moderne, anche a costo di forti contraccolpi interni. Come quando, il 31 luglio del ’92, firmò l’accordo col governo di Giuliano Amato che metteva definitivamente fine alla scala mobile e subito dopo si dimise perché aveva disatteso il mandato della Cgil, che poi lo convinse, per acclamazione, a restare. Il coraggio, insomma, non gli è mancato. Del resto, la famiglia gli era stata d’esempio. Il padre Silvio, ricco proprietario terriero, docente di diritto amministrativo e deputato antifascista, nel 1925 aveva venduto tutto e si era rifugiato in Francia per non sottostare al regime. Qui Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, a Pavie. E in Francia si forma e segue le orme del padre impegnandosi nella resistenza contro i tedeschi prima a Tolosa e poi, dal ”43, in Veneto come comandante di una brigata partigiana di Giustizia e Libertà. Finita la guerra, Trentin si laurea in Giurisprudenza a Pavia e perfeziona gli studi ad Harvard. Già nel ’49 arriva al sindacato, all’ufficio studi economici della Cgil. Nel ’50 l’iscrizione al partito comunista. Ma è nella confederazione guidata prima da Giuseppe Di Vittorio, poi da Agostino Novella e infine da Luciano Lama che la sua ascesa sarà inarrestabile. la lunga esperienza al vertice dei metalmeccanici Fiom (1962-1977) durante l’autunno caldo delle conquiste sindacali che lo lancia alla segreteria generale della Cgil, nel 1988, dopo la breve segreteria di Antonio Pizzinato. Una Cgil smarrita sceglie lui per ritrovare un punto d’equilibrio e una guida sicura. E se Lama, con la svolta dell’Eur del 1978 (’il salario non è una variabile indipendente”) aveva preparato la strada all’abbandono di posizioni massimaliste, Trentin porta a compimento questo processo. E ci riesce in un momento tra i più difficili per la sua organizzazione. Era crollato il muro di Berlino, era scomparso il Pci che dopo la svolta della Bolognina voluta da Achille Occhetto si era trasformato nel Partito democratico di sinistra. Traumi storici per la Cgil, capitati mentre la situazione economica e di bilancio dell’Italia precipitava e il sindacato veniva chiamato da personaggi legati alla stessa Cgil come Giuliano Amato e il governatore Carlo Azeglio Ciampi (che in Banca d’Italia aveva la tessera Cgil) ad accettare grandi rinunce. Ma per Trentin non era solo questo. Si trattava di abbattere il tabù della scala mobile e in definitiva di accettare che avevano ragione Cisl e Uil (nonché la componente socialista della Cgil) che già nel 1984 si erano messe sulla strada del superamento della spirale prezzi-salari. Trentin riuscì a far digerire questo passo alla Cgil spiegando che in gioco c’erano la salvezza del Paese dalla bancarotta e l’unità sindacale. Per questo si assunse la responsabilità di firmare anche senza il via libera della sua organizzazione. Forse potè farlo anche perché i partiti, compreso l’ex Pci (che invece nell’84 aveva imposto a Lama la rottura), si trovavano nel momento di loro maggior debolezza. In ogni caso seppe dimostrarsi leader, convincendo il suo sindacato, a posteriori, della giustezza della sua posizione. Ed evitando quella scissione a sinistra che invece aveva subito il Pci. Tenne unita la confederazione, ne promosse l’autonomia con decisioni pesanti nella liturgia della sinistra, come lo scioglimento formale della componente comunista, decretato non a caso nella storica scuola sindacale di Ariccia. Certo, non scaldò mai il cuore delle platee. Non aveva il carisma e la potenza oratoria di Lama. Le sue relazioni erano scritte come un saggio di sociologia del lavoro. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva un tratto un po’ snob, con quell’eleganza ricercata, i gilet scozzesi, la pipa, la borsa sempre piena di libri e giornali che leggeva durante le riunioni dando l’impressione di non ascoltare gli altri, l’amore per la Francia dove spesso si rifugiava in compagnia della moglie, la nota giornalista francese Marcelle Padovani. Ma alcune sue sentenze arrivarono fino all’ultimo degli iscritti: ”Che i lavoratori possono aver torto lo sappiamo tutti, ma ancora non lo abbiamo mai detto”; ”la classe operaia non è più centrale, bisogna passare alla difesa dei diritti individuali”; ”l’inflazione è un vincolo”. Nel ’94, quando lasciò la guida della Cgil nelle mani del riformista Sergio Cofferati, si ebbe la dimostrazione che la Cgil ne aveva fatta di strada. Per sé volle l’Ufficio Programma, ma ben presto capì che non poteva fare in alcun modo ombra al nuovo leader che stava rapidamente affermandosi. Tornò al partito (era già stato parlamentare comunista dal 1962 al 1972) e fu deputato al parlamento europeo nel gruppo del Partito socialista europeo. Senza farsi notare partecipava alle grandi manifestazioni del sindacato, si mischiava sul palco con i vecchi e i nuovi dirigenti. Il 23 marzo 2002, vedendo la folla oceanica del Circo Massimo radunata da Cofferati a difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, norme che il governo di Silvio Berlusconi avrebbe voluto abrogare, un lampo di commozione gli aveva velato gli occhi. Tra i tanti messaggi che Trentin lascia alla Cgil forse uno più di tutti è ancora attuale. quello nel quale invitava la sua amata organizzazione a superare ”il male oscuro”. Non sapeva bene neppure lui in cosa consistesse, ma in definitiva, spiegò, era la carenza di autonomia dalla politica. E per convincere i suoi citò Marx: ”Mai i sindacati debbono essere in qualche modo collegati con una associazione politica o posti in qualche modo sotto la sua dipendenza”. Lasciate le cariche nella Cgil si era fatto crescere un leggera barba. Bianca. Ordinata. Che gli aumentava la caratura di grande saggio e di padre nobile della sinistra che già in vita gli spettava. Poi [...] il 23 agosto del 2006, quella tragica caduta dalla bicicletta mentre, in vacanza, percorreva la bella ciclabile fra San Candido e Lienz. Il ricovero in rianimazione per un trauma cranico dal quale non era più guarito» (Enrico Marro, ”Corriere della Sera” 24/8/2007) . «[...] Trentin rappresenta [...] l’ultimo collegamento di alto profilo tra la ricostruzione del dopoguerra e i tempi problematici della globalizzazione che stiamo oggi vivendo con difficoltà: un uomo che iniziò la sua attività in tempi ”eroici” e cercava di dare un senso agli attuali tempi, altrettanto ”eroici” e importanti senza che molti di noi se ne accorgano. Se la proverbiale pipa di Luciano Lama, l’altro grande leader della Cgil, era il simbolo del buon senso che viene dal basso e dei problemi minuti dai quali si possono trarre conclusioni generali, la quasi altrettanto proverbiale pipa di Bruno Trentin era il simbolo del carattere internazionale dei problemi che i lavoratori italiani dovevano, e devono ancor più oggi, affrontare quale necessaria premessa per sedersi a un tavolo di trattative. Trentin, infatti, non apparteneva all’Italia provinciale. E proprio per questo poté apportare al mondo italiano del lavoro una rara, e quindi tanto più preziosa, pluralità di esperienze: nato in Francia, partigiano in Italia e in Francia, laureato in Italia, studente a Harvard, per tutta la vita mantenne collegamenti e interessi intellettuali a livello internazionale. Era arrivato al sindacato attraverso l’ufficio studi ma si era spostato verso la prima linea dei confronti sindacali; il suo approccio, spesso duro e tagliente, si portava dietro una visione globale coerente dei problemi del lavoro a livello mondiale. Non andava in cerca di popolarità (prese anzi decisioni molto impopolari, firmando, tra l’altro, l’accordo per l’abolizione della scala mobile) ma sapeva stare sulle piazze ”calde” degli scioperi degli Anni Settanta e Ottanta. Concluse, per la Cgil, l’accordo sulla politica dei redditi con il governo Ciampi, il che richiese indubbiamente molto coraggio. Il tempo di Trentin era quello di un confronto sindacale in giacca e cravatta, di linguaggio asciutto, di rispetto reciproco, di scontri fatti per prevalere e di accordi fatti per durare. Il tutto girava attorno alla realtà della fabbrica, luogo centrale della produzione, in cui tutte le parti si riconoscevano, in cui si scontravano e incontravano i fattori produttivi, attorno ai quali si potevano chiaramente identificare ceti e classi sociali. Non facevano parte di queste stagioni sindacali le furbizie, le trovate retoriche, le miopie di molti scontri e accordi in materia di lavoro dell’Italia di oggi in cui le fabbriche contano molto meno e le burocrazie molto di più. Per Trentin, libertà e democrazia non erano slogan appiccicabili a qualsiasi vertenza ma concetti molto seri che andavano oltre le vertenze; e rispetto ai quali non era troppo incline a fare sconti, né al tavolo delle trattative né altrove. Tutto ciò lo portò, specie nell’ultimo periodo della sua vita, a posizioni nettamente divergenti dalle rivendicazioni spicciole delle cronache sindacali recenti. Di fronte ai cambiamenti profondi del lavoro, aveva sostenuto [...] in un vibrato dibattito con studenti, che il sindacato non può rimanere invariato. ”Occorre sempre più conoscenza per potersi esprimere attraverso un lavoro, e... (quindi) tutte le persone diventano degli individui con problemi diversi, bisogni diversi, capacità creative diverse. Il sindacato organizzava sempre grandi masse di lavoratori e cercava di cogliere, di rappresentare per tutto quello che hanno di identico. Oggi il sindacato, se vuole veramente rappresentare non delle masse, ma delle persone, ognuna con i propri bisogni, con le proprie identità, deve sapere ripensare se stesso, completamente... le sue forme di rappresentanza, dare voce a tutte le diverse figure che stanno emergendo nella società e soprattutto fra i giovani”. Dietro a questo imperativo si indovinava la sua minuta e appassionata conoscenza dei mutamenti della situazione internazionale, così spesso trascurata, da tutte le parti in causa, nelle vicende quotidiane del lavoro di casa nostra. [...]» (Mario Deaglio, ”La Stampa” 24/8/2007) • «[...] Bruno Trentin diceva che i lavoratori non hanno sempre ragione. Anzi, diceva, che ”possono anche sbagliare”. Pure per questo Bruno Trentin è stato l’eretico del sindacalismo italiano. Intellettuale aristocratico, francese di nascita [...] scelse di fare il sindacalista, al servizio dei più deboli, sedotto – come spiegò - dalla scoperta della ”straordinaria voglia di conoscenza e di libertà della classe lavoratrice”. Poteva fare anche altro, lui che una parte dei suoi studi li compì ad Harvard. Non fu mai un trascinatore di folle, come Luciano Lama o ancor prima Giuseppe Di Vittorio. Nelle assemblee i suoi lunghi interventi a braccio si trasformavano spesso in una irripetibile esperienza intellettuale. Un lungo viaggio tra impietose autocritiche e soluzioni illuminanti – talvolta assolutamente irrealizzabili - ripensando Karl Marx e Antonio Gramsci. Nulla con Trentin era scontato o prevedibile. Negli anni Settanta si batté, isolato, contro l´egualitarismo salariale, poi interpretò ”con intransigenza” (come ammise) la linea della maggioranza del sindacato dell’autunno caldo; negli anni Ottanta comprese fino in fondo l’errore della difesa ostinata della scala mobile da parte del Pci, ma per non strappare con il partito elaborò la teoria del vulnus secondo cui il decreto di Craxi nella notte di San Valentino, al di là del contenuto, violava le regole delle corrette relazioni tra governo e sindacati; negli anni Novanta ruppe tabù come quelli del posto fisso, attaccando la pigrizia e l’’opacità” intellettuale della sinistra incapace di guardare – prigioniera dei suoi ”stereotipi” sul lavoro - oltre il taylorismo, e portò la Cgil ad accettare la sfida della concertazione mentre con la caduta del Muro precipitava anche il Novecento. Negli ultimi anni della sua vita, prima europarlamentare poi dirigente dei Ds, assorbito dagli studi per contribuire ad un programma della sinistra orfana delle categorie del pensiero comunista, si è ribellato all’idea di una ”involuzione” affaristica del movimento cooperativo respingendo però la tesi – durante l’affaire Bnl-Unipol - di una ”questione morale” all’interno dell’ex Pci. Poi ha detto no al Partito democratico costruito in provetta, in un laboratorio politico staccato dalla realtà concreta e dai fermenti della società, senza più radici nel movimento operaio, cioè nel lavoro: ”Vorrei poter morire socialista”, disse. E così è stato. [...] nella Fiom che Trentin esprime fino in fondo il suo carisma e la sua grande capacità di elaborazione teorica, la sua leadership. Alla pratica sindacale arriva giovanissimo dall’Ufficio studi della Cgil, prima dell’autunno caldo. Di quella stagione diventa l’interprete più autentico e originale. Intuisce la forza innovativa dei Consigli di fabbrica (mentre il Pci difende le vecchie Commissioni interne) e la spinta che proviene dalla base, quella dell’’operaio massa”, tanto meridionale, figlio del miracolo economico. A questo nuovo protagonista della scena politico-sociale, alle sue lotte, per la conquista di diritti e migliori condizioni di lavoro, non solo di aumenti salariali, che accompagnano il processo di trasformazione del capitalismo italiano, dedica le sue corpose analisi contenute nella raccolta Da sfruttati a produttori, volume oggi praticamente introvabile. Ma prima, molto prima, c’è la crisi economica della seconda metà degli anni Settanta, gli anni di piombo, l’assalto del sindacalismo corporativo dei Cobas alla rappresentatività delle grandi confederazioni Cgil, Cisl e Uil, la guerra (sbagliata) sulla scala mobile. Nel 1986 dopo sedici anni, Luciano Lama lascia la segreteria generale della Cgil. Non sceglie il suo successore. Non Trentin, dunque, che già aveva preso il suo posto alla guida della Fiom più di vent’anni prima: ”Ho tanti fratelli e pochi figli”, disse Lama per giustificare la decisione di non designare né Trentin né Sergio Garavini (l’altro autorevole leader che avrebbe potuto succedergli). Arriverà Antonio Pizzinato, il cui grigiore intellettuale e debolezza politica porterà ad una crisi profonda al vertice della Cgil. La ribellione dei ”colonnelli” quarantenni, tra i quali Sergio Cofferati, porterà in poco tempo al ribaltone e all’elezione, all’unanimità, di Bruno Trentin alla segreteria generale della Cgil. Era il suo posto. Resterà sei anni al vertice del più grande sindacato italiano, scosso dal travaglio del mondo comunista, mentre la prima Repubblica sprofonda sotto le macerie di Tangentopoli e la finanza pubblica attraversa una crisi impressionante. Trentin riesce a tenere unita la Cgil, spinge per ciò che chiama ”l’autodissolvimento” della componente comunista anticipando lo scioglimento di quella dei socialisti. Nasce così il ”sindacato dei diritti” ancorato ad un progetto autonomo. Il 31 luglio del 1992 arriva, con il governo Amato, l’accordo sulla politica dei redditi. Un accordo ”a perdere” per il sindacato, e, soprattutto, oltre il mandato che la Cgil aveva affidato a Trentin. Che, con un rigore assai poco diffuso, si dimette, denunciando – nello stesso tempo - ”il male oscuro” di un sindacato ancora troppo vincolato alle logiche di schieramento, di partito. Rientreranno le sue dimissioni, poi arriverà l’accordo con Ciampi nel ”93: ”la risalita”, come dirà. Quindi il passaggio di testimone a Cofferati, nel ”94, mentre il nuovo nella politica italiana si chiama Silvio Berlusconi e la sinistra si affida a successive ansiose composizioni e ricomposizioni. Trentin diventa il responsabile del programma della Cgil. Perché è lì nella ”fatica del progetto”, come dice, che va ricercata l’autentica identità del sindacato. Se ne va da Bruno Trentin, lasciando nel suo ultimo saggio (La Cgil e il ”56: democrazia e autonomia) anche l’ultima invettiva contro il Partito democratico: ”Penso, infine, all’imbarazzo che persiste nei confronti di un passato che non andava rimosso o cancellato, ma rivisitato e superato laicamente, almeno prima di dedicarsi con frenesia ai cambi di nome. E prima che si allentassero i legami con quel mondo del lavoro subordinato che è sempre stato la ragione d’essere fondamentale di qualunque forza di sinistra”. Trentin è morto così, socialista. E ancora sindacalista» (Roberto Mania, ”la Repubblica” 24/8/2007).