Varie, 7 marzo 2002
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Turow Scott
• Chicago (Stati Uniti) 12 aprile 1949. Scrittore • «L’autore di Presunto innocente, L’onere della prova, La legge dei padri […] Bella faccia, che assomiglia sempre di più a quella di John Malkovich - se non fosse che Malkovich con gli anni tende ad arrotondarsi, mentre lui diventa sempre più asciutto ed essenziale. […] Da giovane era ”riluttante a raccontare troppo direttamente” le sue esperienze di giovane avvocato (anche se poi lo ha fatto, con uno zibaldone di ricordi, Harvard. Facoltà di legge, nel 1977). Anzi, ricorda ancora che qualcuno lo aveva ”bonariamente” avvertito: se scrivi qualcosa a questo proposito, dimenticati di trovare un lavoro. […] Due carriere parallele: quella dello scrittore tradotto in venti lingue, bestseller garantito, e quella dell’avvocato che, come dice lui, ”in America non ti lascia certo disoccupato”. Da anni, dopo una breve carriera pubblica, è socio di un importante studio di Chicago che allinea ben quattrocento avvocati, Sonnenshein Nath & Rosenthal. Ma è un avvocato irregolare, che lavora spesso e gratis per cause apparentemente impossibili. In queste cause impossibili ha spesso offerto il suo patrocinio a gente che rischiava la pena di morte. Con i suoi colleghi e collaboratori è riuscito a spuntarla in tredici cause» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 17/10/2002). «A dieci anni fingevo spesso di non star bene. La scuola era una tortura per un bambino che amava sognare a occhi aperti e così spesso sostenevo di essere ammalato. Mia madre era scettica, ma io soffrivo anche di tonsillite cronica, e se un’occhiata alla gola non la convinceva, non esitavo a ricorrere alle lacrime. Il giorno in cui non andavo a scuola di solito lo passavo davanti alla televisione. Ma da quel che ricordo, ero veramente ammalato quando lessi per la prima volta Il Conte di Montecristo. Ero stato assalito dalla febbre e confinato a letto da un ordine di mia madre. Negli scaffali sopra di me la mamma aveva sistemato i volumi di una serie di cosiddetti ”Classici per bambini”, romanzi da tempo di dominio pubblico, che erano stati ristampati con il dorso giallo, rosso e verdino per renderli più attraenti ai bambini. Se non altro rallegravano la camera. Con il tempo avevo imparato a conoscere diversi di quei libri, generalmente con l’aiuto della mamma che ne leggeva delle parti a mia sorella e a me come storie della buonanotte. Ricordo di aver fatto la conoscenza in questo modo di Tom Sawyer e di Black Beauty (romanzo per bambini di Anna Sewell) e delle storie dello zio Remo distillate da vari libri di Joel Chandler Harris. Anche Dickens, che ha avuto un’influenza fondamentale sulla mia carriera di scrittore, lo incontrai per la prima volta in questo modo. Tutti quei libri mi erano piaciuti, spesso moltissimo, ma poiché li avevo letti con l’aiuto di mia madre, non erano veramente miei. Nonostante la febbre, ero annoiato e di conseguenza, in gran parte per disperazione, tirai giù il volume intitolato Il Conte di Montecristo. Erano anni che vedevo quel titolo e l’avevo giudicato assai poco promettente. Supponevo che parlasse dell’Europa e di nobili e che fosse ambientato nel passato, tutte cose che a un ragazzo americano apparivano poco interessanti. Ma lessi. Ricordo che mi sentivo debole per la febbre e che le pagine mi sembravano quasi acquose davanti agli occhi. Ma presto i personaggi, il periodo – il libro era ambientato durante l’esilio di Napoleone – i comportamenti formali di quel tempo (anche se a volte sfociavano in duelli), la passione e lo splendore di quel mondo immaginato mi gettarono in una sorta di delirio febbrile. Leggevo giorno e notte. La spietatezza del tradimento che portò in prigione Edmond Dantes, l’allettamento del tesoro irraggiungibile la cui esistenza gli fu svelata da un compagno di prigione, l’audacia della sua straordinaria fuga e poi, grande delizia, la comparsa del misterioso e ricco Conte di Montecristo che io, per alcune pagine, non capii chi fosse realmente, mi catturarono. Mi ricordo l’entusiasmo che provavo a ogni sviluppo del racconto e l’enorme sete di vedere alla fine che fosse fatta giustizia. Ma ero anche affascinato dall’epoca lontana e dalla vita di altre persone. Il potere elementare della letteratura e del raccontare storie – quello di permetterci di entrare nella pelle altrui – mi investì come una rivelazione. Durante quei giorni di lettura mi ricordo di aver pensato a quanto sarebbe stato meraviglioso possedere un tale potere e catturare in quel modo i lettori. Di tutti i privilegi goduti dagli adulti, mi sembrò il più desiderabile da esercitare. In quell’aspirazione c’era un’intuizione che potrebbe essere giusta: per quanto grande fosse il piacere del lettore, l’esperienza dell’autore nel creare una storia sarebbe stata ancora più intensa. A ripensarci, sento ovviamente un collegamento tra quei giorni e il seguito della mia vita. La storia di Alexandre Dumas su un caso di ingiustizia che si risolve solo dopo molte sofferenze e molto tempo è sostanzialmente il tipo di storia sugli usi e gli abusi del potere che ho finito per scrivere anch’io. Il libro di Dumas ha toccato in me una corda così essenziale del mio carattere che senza dubbio esisteva e vibrava anche prima dell’inizio dell’adolescenza. Capii per la prima volta che ero destinato a diventare scrittore un decennio dopo, quando mi alzai di nuovo da un letto febbricitante e scrissi, in meno di dodici ore, la stesura completa di uno dei primi racconti che avrei pubblicato. Era una storia molto diversa dal Conte di Montecristo. Ma è su un giovane uomo, bistrattato da coloro che gli stanno intorno, che finalmente reclama vendetta. Le antiche influenze scorrono in profondità» (’Corriere della Sera” 30/7/2003). «[...] uno scrittore di successo, uno che vende milioni di libri [...] celebre scrittore di ”gialli”, ”noir” o se preferite ”mystery novel” ambientati nelle aule dei tribunali e dietro le quinte delle law firm è un caso forse unico nel panorama letterario mondiale. Nonostante il successo - i suoi libri sono quasi tutti best seller venduti in tutto il mondo - e la fama che lo potrebbe portare in giro a raccogliere premi e a tenere conferenze ben retribuite, Scott Turow non ha mai rinunciato alla sua prima professione. E ogni mattina, come un comune ”commuter”, un pendolare, prende il treno e dal ”suburb” fuori città dove abita raggiunge il cuore di Chicago, dove confondendosi in mezzo ai turisti che visitano la ”torre” sale al 66esimo piano, cambia ascensore e raggiunge il suo ufficio da SN&R una decina di piani più in su. [...] ”Quali sono gli autori da cui sono stato più influenzato? Tanti. Gli scrittori che ammiro di più sono Saul Bellow, John Updike, Bernard Malamud. Se penso a un genere un po’ più avventuroso mi viene in mente Conrad, o Graham Greene e naturalmente Le Carré”. Tra i maestri del thriller americano Scott Turow non si sente invece troppo vicino né a Hammett né a Chandler. ”Hammett non l’ho letto neanche troppo bene. Chandler lo ammiro, molto, ma non mi piacciono i suoi protagonisti”. Se gli chiedi come si comportano i giurati quando in aula arriva lui, uno scrittore famoso, Scott Turow si schernisce: ”Non creda che io sia poi così famoso, gli scrittori non sono così conosciuti negli Stati Uniti. facile che ci sia una giuria in cui nessuno sappia assolutamente chi sono, che non conosca il mio nome. Con i giudici invece è diverso, sono piuttosto conosciuto nel loro ambiente, faccio l’avvocato qui dove sono nato e dove vivo e anche se non frequento troppo le aule sanno chi sono. A volte è un punto a favore, a volte no. Va bene in ogni caso; nelle aule posso sempre trovare nuove fonti di ispirazione”» (Alberto Flores D’Arcais, ”la Repubblica” 16/6/2004). Vedi anche: Andrea Purgatori, ”Sette” n. 6/2000;