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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

Valcareggi Ferruccio

• Trieste 12 febbraio 1919, Firenze 2 novembre 2005. Calciatore. Allenatore della nazionale italiana di calcio campione d’Europa nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970 • «[...] le sopracciglia cespugliose, un po’ come quelle di Ciampi, e lo sguardo molto chiaro, diretto, un filo sospettoso nei confronti di chi non conosceva. È la diffidenza della gente di frontiera, avrebbe spiegato (per sé) più tardi Enzo Bearzot, che di Valcareggi era vice, così come Valcareggi era stato vice di Edmondo Fabbri. A quel periodo, culminato nella fatal Corea, è legata una delle etichette di Valcareggi. Incaricato di studiare gli avversari (sconosciutissimi, mai visti né sentiti nominare) se n’era tornato con un rapporto che definiva gli asiatici “una squadra di ridolini”, con la minuscola a significare che non erano ridicoli, ma ricordavano il passo accelerato dei film muti. Finì che eliminarono gli azzurri dai mondiali e il ritorno della nostra squadra culminò in un’accoglienza a base di pomodori e uova marce. Le decisioni tecniche erano di Fabbri, ma Valcareggi finì ugualmente nel mucchio per quella sua relazione. In verità, quella era una spedizione nata male e finita peggio. Fabbri, che non amava l’Inter, non aveva preso in considerazione il blocco nerazzurro, Picchi in particolare. Però aveva convocato Landini, che pure nell’Inter in due campionati aveva giocato 13 partite. Sempre di Fabbri la decisione di portarsi Riva e Bertini, due giocatori di nerbo, di sostanza, in veste di turisti-accompagnatori. Oltre ai pomodori, e all’abitudine popolare di chiamare da allora “Corea” anche una sconfitta con lo Zambia, quella spedizione finì male perché Fabbri si arrampicò sui vetri sostenendo che gli azzurri erano stati vittime di una manovra losca, una specie di doping alla rovescia. Non fu una bella pagina per il nostro calcio. Ma fu anche la premessa per la nascita di un altro calcio. Silurato Fabbri, Valcareggi ne prende il posto. Il 1966 vede i club trasformarsi in società per azioni e viene inoltre decretato il blocco agli stranieri. I risultati non tardano: l’Italia di Valcareggi vince il campionato europeo del ’68. Era un’Italia che molti ricordano a memoria: Zoff; Burgnich, Facchetti; Rosato, Guarneri, Salvadore; Domenghini, Juliano (De Sisti), Mazzola (Anastasi), Rivera, Riva. E quello fu l’unico successo europeo nella storia del calcio italiano, che dal mondiale del ’38 in poi era rimasto a bocca asciutta, beccando schiaffoni notevoli. Che tipo di allenatore era Valcareggi? Uno di buon senso, uno nato a Trieste nel rione Gretta di Sopra, da padre elettrotecnico e madre (Maria Brumat) friulana e casalinga. Subito pallone, ma anche basket, nuoto, in quegli anni la città è una specie di polisportiva. Ferruccio spesso gioca una partita di calcio la mattina e una di basket nel pomeriggio. A 14 anni è già nelle giovanili della Triestina, dove conosce i mostri sacri: il paròn Nereo Rocco, Ginone Colaussi. E Memo Trevisan, il suo amico del cuore [...] Da giocatore, parole sue, era stato “discreto ma non eccezionale”. Ma 270 partite (e 44 gol) in serie A insegnano pur qualcosa. Il centro tecnico di Coverciano, il corso di formazione per tecnici dovevano ancora inventarli. E quindi un ex calciatore imparava quello che poteva dalla sua esperienza sul campo, da allenatori che aveva avuto, più in generale da quella che Alfredo Di Stefano chiamò “la universidad de la calle”, l’università della strada. Valcareggi sapeva come parlare ai calciatori, certo molto diversi e meno divi di quelli attuali. L’accento triestino non si era del tutto stinto nelle acque dell’Arno. Se da calciatore aveva girato un po’ (Triestina, Fiorentina, Milan, Bologna, Vicenza, Lucchese, Brescia, Piombino) sceglie poi Firenze per viverci. A Firenze aveva trovato la donna della vita, Anna Peruzzi, e l’aveva sposata l’11 settembre del ’43. Quattro figli, molti nipoti, lo zio Uccio aveva la vocazione del patriarca e amava mantenersi in forma giocando a tennis. Altra etichetta: quella dei 6’ di Rivera nella finale del ’70. La squadra seconda ai mondiali riceve un’accoglienza non molto diversa da quella umiliata dalla Corea del Nord. Siamo un paese molto strano. Il 4-3 alla Germania, il famoso 4-3, l’indimenticabile 4-3, aveva fatto credere a molti che l’Italia potesse vincere il mondiale, e quindi li aveva portati all’invettiva per un secondo posto. Invece era il massimo dell’ottenibile, proprio perché quella maratona pazzesca, quella partita noiosa fino ai supplementari e poi da crepacuore, aveva cotto definitivamente i nostri. Qualche speranziella col Brasile si poteva averla a patto di essere più forti atleticamente. In altitudine, la maggior tecnica dei brasiliani era un vantaggio, e poi quello era davvero una squadrone, con Pelé come ciliegina sulla torta. [...] Valcareggi aveva inventato la staffetta tra Mazzola e Rivera per non scontentare nessuno. Cominciava Mazzola (il cui impiego era caldeggiato dai difensori) e finiva Rivera (invocato dagli attaccanti, Riva in particolare). Rivera aveva segnato il 4-3 alla Germania, molti vissero come un’ingiustizia la sua esclusione dalla finale e come un affronto il fatto che zio Uccio lo chiamasse a giocare uno spicciolo insignificante di gara, come fosse una chiamata di correità. Più facile che Valcareggi non avesse in mente una perfidia così sottile ma intendesse semplicemente dare al giocatore un gettone di presenza in più. Se ne sentì dire tante, il ct, ma incassò con quel garbo, quell’umile serietà che lo rendevano simpatico, che lo facevano giudicare una persona onesta, al disopra di ogni sospetto. Infatti conservò il posto e si tolse qualche altra soddisfazione: la prima vittoria italiana in casa degli inglesi, l’1-0 di Capello all’86’, era il 14 novembre ’73 e in panchina c’era Valcareggi. E c’era ai mondiali del ’74 in Germania, protagonista di Azzurro tenebra di Giovanni Arpino, lui e “il vecio” (Bearzot) che era il suo primo assistente. Tanto tifo degli emigrati, scarse risposte sul campo, il blocco della Lazio-scudetto non saldato sul resto di una squadra con poco fiato. Vittoria in rimonta su Haiti, pareggio sofferto con l’Argentina, sconfitta con la Polonia. Tutti a casa. E anche lì un problema con Chinaglia, che lo manda a quel paese in mondovisione non gradendo la sostituzione e fracassa un po’ di bottiglie di minerale in spogliatoio, tanto perché fosse chiaro che non aveva gradito. L’avventura azzurra per Valcareggi finisce in Germania, per quanto riguarda la nazionale maggiore. [...]» (Gianni Mura, “la Repubblica” 3/11/2005) • «“[...] La cosa che ricordo di più è un gol di Capello a Wembley. E poi, e poi...”. E poi ce ne sono di storie [...] Ottimo calciatore, commissario tecnico di un grandissimo Europeo e di quel Mexico ’70 che più che un Mondiale è un film. Italia-Germania 4-3. Poi quella finale col Brasile. “La storia della staffetta, già. Mazzola e Rivera. Quante polemiche. Ma guardi che io Rivera l’ho sempre stimato tanto. È che in campo andava protetto. Chissà oggi dove lo farebbero giocare i maestri del 4-4-2”. Chissà. Ferruccio Valcareggi scelse subito Firenze per la vita. “Avevo giocato qui e qui, alla piscina della Rari Nantes, incontrai Anna e la sposai. Abitavamo in piazza Santa Croce, dodici stanze con delle finestre enormi sulla piazza [...] Artemio Franchi. Vi ricordate? Fu lui a volermi alla guida della nazionale, dopo la disfatta con la Corea del Nord. Ci chiamavano la ‘mafia’ fiorentina. I giornali del nord ogni tanto ci prendevano di mira: non vedevano sempre bene un presidente della Federazione toscano, un ct adottato da Firenze, un centro tecnico qui a Coverciano e poi De Sisti, che se era in forma giocava in nazionale. Ma io non ho mai fatto favoritismi. Certo, lo ammetto, un occhio di riguardo per la Fiorentina l’avevo. I miei figli si chiamano Furio, Francesco, Federico e Fiorella. Tutti nomi con la lettera effe. E non è un caso [...] La seconda finale con la Jugoslavia. La mossa vincente fu quella di mettere dentro uomini freschi. Un bel ricordo”. E pensare che due anni prima anche l’elegante Valcareggi si era preso i pomodori all’aeroporto di Genova. “In Inghilterra ero il secondo di Fabbri ma più che altro andavo in giro a vedere le altre partite. È vero, li avevamo sottovalutati, i coreani. Ma soprattutto giocammo male, mentre loro trovarono la partita della vita [...] Non so se è giusto fare paragoni tra il calcio di ieri e quello di oggi. Allora eravamo meno veloci ma più attenti. Ora i terzini salgono su. Ai miei tempi magari avanzava Facchetti, ma c’era sempre chi lo copriva [...] Tutti a dire del 4-1. Ma noi sul due a uno dovevamo rischiare per forza. E rischiare con quel Brasile...”. E Pelè? Ecco una storia buffa. Perché nel ’62 Ferruccio Valcareggi, allora allenatore della Fiorentina, era volato in Cile per vedere i mondiali e provare a prendere proprio il fenomeno brasiliano. “Sì, ma non fu possibile. E così comprammo Almir”, che chiamavano il Pelè bianco ma, nonostante il talento, finì per bruciarsi la sua occasione nel giro di poche settimane a forza di trangugiare Punt e Mes in un celebre bar di piazza Duomo. Certo, che Uccio Valcareggi non è stato solo uomo di nazionale, anche se il suo nome resta legato soprattutto a quegli anni di calcio che vanno dal ’66 al ’74, anno della grande delusione tedesca. “Io dopo i mondiali di Germania volevo quasi smettere di allenare. Poi venne qui Garonzi e mi pregò di andare a Verona. Accettai”. Ma che allenatore era Valcareggi? “Sono sempre stato elastico. Bisognava capire come trattare ogni giocatore, mica sono tutti uguali”. E a Verona c’era Zigoni. Una specie di mito degli anni Settanta. “Che tipo. Lui arrivava e faceva sempre il suo teatrino: ‘Mister, chi sta a capotavola, io o lei?’. Stai te a capotavola, rispondevo. E poi: ‘Mister, mica dovrò arrivare all’appuntamento puntuale come Franzot’. No, vieni pure cinque minuti dopo. Gli piaceva fare il personaggio e a me andava bene così, soprattutto perché poi sul campo non mi ha mai tradito”. Ma chissà qual è il giocatore che è rimasto nel cuore dell’ex ct. [...] “Bertini, sì, lui. Perché era tosto, generoso, ma sapeva anche giocare bene la palla”. Poi torna fuori Capello. “Già, quel gol a Wembley”. [...]» (Benedetto Ferrara, “la Repubblica” 4/1/2005).