Varie, 7 marzo 2002
VALDUGA
VALDUGA Patrizia Castelfranco Veneto (Treviso) 20 maggio 1953. Poetessa • «Ai poeti, si sa, è concesso tutto. Beninteso purché abbiano qualcosa da dire, e lo dicano bene. A Patrizia Valduga, allora, si deve concedere ciò che ad altri forse non sarebbe lecito in nome d’una pruderie che bolla come osceno ciò che riguarda il sesso raccontato senza reticenze. [...] quel premio Viareggio opera prima che vinse, ventinovenne, nel 1982... [...] al solito, è vestita in nero. Minuta, quasi timida, sorridente, la cadenza veneta [...] infinite paia di scarpe, la sua passione [...] ”Flaiano diceva che è meglio la poronografia di certi romanzi rosa [...] Scrivo la mattina appena alzata, perché la logica dell’inconscio è ancora viva. L’inconscio è una logica, non è una psicologia, non è un magazzino di simboli” [...]» (Stefano Jesurum, ”Sette” n. 23/1997). «Patrizia Valduga si veste di nero da sempre. Una poetessa non può che vestire di nero, specie se esile e con una pelle color della porcellana... ”Ma va là. Altro che donna fatale: è una questione di praticità [...] Innanzitutto perché amo la monocromia e mettere insieme i colori è difficilissimo. Il nero è nero. Poi io ho sì una carnagione chiarissima ma ho pure un accenno di baffi alla tartara che saltano fuori subito quando indosso altre tinte [...] Poi sono nervosissima e ho una sudorazione terribile. Con il nero il problema è sempre risolto. E non si nota mai quando comincio a sudare come un cavallo. Altra considerazione è che il nero non si sporca o per lo meno non si vede. Così puoi anche indossare gli stessi pantaloni per una settimana. Perché siamo sinceri, vestirsi di chiaro a Milano significa lavare e lavare e lavare [...] Però, considerazioni pratiche a parte, ho tutta una mia cultura sul nero. Per esempio: il nero più bello è quello del velluto di seta a quattro fili che si usava negli abiti degli anni Venti e Quaranta. Ho scovato dei pezzi meravigliosi e sono la notte più nera [...] E poi mi piace comunque modulare la nerezza del nero: un raso nero è lucente, ha bagliori, riflessi che devi cogliere» (Pa. Po., ”Corriere della Sera” 22/11/2005). «’La letteratura deve avere un fondamento etico, altrimenti è solo intrattenimento [...] La grande letteratura deve avere una portata morale, il che significa che deve insegnare qualcosa, deve commuovere e deve dare piacere: ha una funzione conoscitiva, emotiva, erogena. Io credo, come Matte Blanco, nell’emozione pensante e nel pensiero emozionato”. Matte Blanco è stato uno dei maggiori teorici postfreudiani della psicoanalisi, e Patrizia Valduga lo considera un suo maestro, pur avendo studiato con Francesco Orlando a Venezia. [...] poetessa ampiamente consacrata dalla critica, diverse traduzioni alle spalle (da Molière, Mallarmé, Valéry, Shakespeare), Patrizia Valduga ha un rapporto di necessità con la parola poetica. E forse nel suo caso il fondamento etico ha qualcosa a che vedere con questa necessità che l’ha portata via via a sperimentare, entro forme metriche per lo più classiche, i temi ”esistenziali più roventi”: erotismo, dolore, colpa, pietà. Una ”capacità di canto e di strazio”, ha scritto Luigi Baldacci. ”Proust diceva che la letteratura insegna a fare l’unica vera esperienza, che è l’esperienza di noi stessi: migliora la vita interiore e i rapporti umani. Ecco, questo è il suo fondamento morale”. Proust è una delle sue passioni di lettrice. Anzi, la passione per eccellenza, condivisa con il compagno della sua vita, Giovanni Raboni. ”Non riesco a godere di una storia, ma solo di un pensiero detto in bello stile”. Altra passione: Céline, il simbolo novecentesco di una controversa divaricazione tra biografia e opera. ”Non sono d’accordo: penso che Céline abbia voluto creare un personaggio. L’errore è quello di identificare chi dice io con l’autore. Céline è diventato purtroppo personaggio di se stesso. Per alcuni è nazista, per altri è comunista. Per me è uno dei maggiori scrittori”. Con Proust e con Beckett. ”Sono i tre con cui riesco a stare per un tempo indefinito”. Perché alla fine quel che conta è lo stile: ”Tutti e tre hanno uno stile perfettamente adeguato a quel che dicono: il periodare ampio di Proust, la frase cardiaca e il ritmo frantumato di Céline, la precisione matematica e la perfezione impronunciabile di Beckett. Ecco l’impegno della letteratura... [...] Non conosco i contemporanei, non mi interessano, non ne ho voglia. Il più grande narratore italiano del secondo ’900 è Paolo Volponi, un uomo di altissima statura morale. Ma è stato anche senatore e sarebbe troppo facile dire che è stato un intellettuale impegnato”. E i poeti? ”Lasciamoli stare, per carità, sono le persone più permalose del mondo [...] Pasolini in vita ha costruito il suo personaggio, poi è diventato un eroe alla James Dean per la sua morte violenta. Dicono di lui che è un autore scomodo. Ma scomodo a chi? Ha fatto tutto quello che voleva. Scriveva sul Corriere, andava a cena dalla Crespi, faceva i film con la Callas... Scomodo a chi?”. Un intellettuale davvero scomodo? ”Beh, Raboni. Ha lavorato per tutta la vita, negli anni 70 si è fatto spaccare i denti dalla polizia, mentre Fortini si tirava da parte sul marciapiede e guardava con aria da estraneo [...] Vittorini e Sciascia hanno fatto il loro lavoro onestamente. Ma un conto è dire con coraggio quel che si pensa, un conto è svolgere onestamente la mansione per cui sei pagato e protetto da un ruolo e da uno stipendio”. [...] Per trovare in Italia la prosa più grande, bisogna ricorrere al ’600 napoletano che vide nascere e morire il gesuita Giacomo Lubrano. I dizionari, in poche righe, si limitano a ricondurne il nome al ”concettismo”, ma per Patrizia Valduga le sue prediche quaresimali sono un esempio di stile: ”La sua prosa è di una ricchezza e di un’intelligenza straordinarie. Altissimo tasso di figuralità [...] Gadda per me è un po’ troppo esibizionista, troppo nevrotico per i miei gusti. [...] Céline diceva che senza una critica vigile, attiva e onesta tutto finisce nella ciarlataneria. La critica sembra la posta dei lettori, non c’è più autorevolezza [...] Io ho avuto il privilegio di vivere per 24 anni con Raboni, da cui imparavo anche quando stava zitto. Ho imparato che ci vuole l’orecchio, che la letteratura è piacere, i versi devono venir fuori da soli. In passato mi hanno attaccata perché ho detto che Leopardi non è un grande poeta, mi hanno accusata di esibizionismo [...] In Italia non è possibile dire che Prati è il nostro maggior poeta romantico e che Leopardi è un aborto imbarazzante, che non è un poeta ma un filosofo, e che in lui non c’è un briciolo di piacere. Il piacere è mettere in successione ordinata il senso, il suono e il ritmo. Prima andavo a letto solo con Raboni, in questo periodo vado a letto tutte le sere con Belli, ho cominciato con Tasso, Marino... [...] A Baldacci devo la scoperta di Giovanni Prati e poi dei lirici del ’500. Quando mi disse: non ho una gran passione per Gadda, ho fatto un balzo di gioia. Altri? Garboli? Uno che si mette a presiedere un premio letterario e come linea critica adotta quella di premiare una dopo l’altra le sue fidanzate non mi pare che possa essere preso in gran considerazione. Raboni diceva che Garboli era un buon critico di Delfini, ma il suo Pascoli era un’operazione sbagliata e narcisistica. Un giorno Berardinelli arrivò in casa e si mise a leggere i cento poeti messi in una nota per aggiornare la Cecchi-Sapegno. Leggendo, sembrava Garboli. Quando se ne andò, Giovanni disse: era un’imitazione di terzo grado, perché Garboli imitava Soldati. Contini? Non posso perdonargli di aver trattato male Rebora. Come filologo era un grande, ma come critico dell’attualità non capiva un accidente: Pizzuto è un minimo. E Montale non è uno dei grandi come sosteneva lui. L’ultimo Betocchi ti dà subito un’emozione e una straordinaria forza di verità che nessuna chiusa gnomica e nessuna intelligentissima sentenza montaliana... Montale è un poeta intelligentissimo e furbo, che ha saccheggiato molto il primo Rebora e che si è promosso bene, come Calvino. il genere Baricco, che è una formidabile agenzia pubblicitaria di se stesso, lavora 24 ore al giorno e non va mai in ferie pur di non perdere un minuto al solo scopo di promuovere stesso”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 8/12/2005).