Varie, 7 marzo 2002
VALERI
VALERI Franca (Franca Norsa) Milano 31 luglio 1920. Attrice • «Ha scelto il nome d’arte di Valeri su suggerimento della sua amica Silvana Ottieri, che in quel momento aveva per le mani un libro di Paul Valery edito in Italia dallo zio Valentino Bompiani: ”Mio padre, l’ingegner Norsa, era assai poco convinto della mia carriera d’attrice: così, mentre provavo per la compagnia di Ernesto Calindri, mi cambiai il cognome da Norsa in Valeri. Il nome, invece, è sempre stato quello vero, contrariamente a quanto scrivono le enciclopedie dello spettacolo, che mi attribuiscono quello di Alma” [...] parla di sé e della sua vita con l’elegante, sulfureo distacco, con l’umorismo quietamente allucinato che da sempre la contraddistingue: ”Non si sa perché abbia voluto far l’attrice; in casa si è poi rintracciata una Fanny Norsa che nel ”700 calcava le scene. Io però non ne sapevo nulla, quando abbandonai Milano per venire a Roma e tentare l’ammissione all’Accademia. Fui bocciata, ma non lo dissi alla famiglia e presi a frequentare la scuola di Pietro Sharof, che mi accettò: gli parevo simpatica”. Come negarlo? Che sia stata Maria Brasca o abbia interpretato il bassotto in Bonaventura veterinario per forza con Sergio Tofano e Ferruccio Soleri, che abbia dato voce alla signorina Snob o alla Sora Cesira maritata Cecioni, che abbia raccontato le terribili vacanza montane d’una moglie per bene in Non c’è da ridere se una donna cade o l’illusoria vacanza parigina d’una prostituta in Parigi, o cara (’era un titolo che aveva già usato Arbasino e così andai a chiedergli di poterlo adoperare anch’io) la Valeri non ha mai abbandonato quel suo prodigioso distacco, il suo personalissimo, rarefatto, umorismo. ”Dicono di me che sono stata la prima attrice italiana a far ridere. Non è stato difficile, forse perché ero l’unica. Le attrici comiche di oggi tendono spesso a polemizzare. Il mio umorismo è invece apparentemente sereno, senza condanna. Più lieve, direi”. Attrice, ma anche prolifica autrice (fin dai tempi dei Gobbi, che fondò con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli - con il quale è stata sposata molti anni - ha scritto non solo i suoi monologhi, ma innumerevoli commedie) [...]» (Patrizia Carrano, ”Sette” n. 16/1997). «Carissima, inarrivabile Signorina Snob. Ve la ricordate? Era un personaggio radiofonico creato da Franca Valeri che, da poco strappata al cicaleccio dei salotti milanesi, diffondeva dai microfoni quel saettante ritratto di ”signorinac” che vedeva il mondo a modo suo, e non lo concepiva al di fuori dei Cicci e delle Ildefonse, della scappata a Cortina e della caccia alla volpe. La Signorina Snob apparve allo scoccare degli anni ’50, quando la Valeri era già il detonatore femminile di quel trio d’attori, i Gobbi, che avevano inventato il cabaret da camera. Suoi partner erano Vittorio Caprioli (che sarebbe diventato suo marito) e Alberto Bonucci. Tre moschettieri del paradosso e del nonsense che espugnavano fragorosamente i teatri non solo italiani. Fu durante una trasferta parigina dei Gobbi che la Valeri rivide Colette Rosselli e Indro Montanelli. Fu a Parigi nel 1951 che si progettò Il diario della Signorina Snob con le illustrazioni della Rosselli. E allo scadere di ”51 Arnoldo Mondadori già pubblicava le stralunate pagine del Diario corredate da immagini deliziosamente caricaturali che valevano un commento, una nota a margine, uno sfottò supplementare. [...] Un’aria lontana, c’immergiamo nel vivere delle classi alte e altissime che la Valeri deforma con gli specchi ustori della sua satira. La Signorina è il personaggio che convoglia un mondo fatuo e scoppiato, è la parte per il tutto. E che fa una ragazza ricchissima quando cerca di riempire le giornate? Fa cose strampalate, che registra sul Diario, come facevano tante. E così, da un Capodanno all’altro, la Signorina Snob ci apre la porta del suo mondo. Entriamo. La signorina oggi è di malumore. Che le succede? ” un periodo che mi sento talmente sinistrorsa che il levriero mi dà un fastidio da matti”. Ha ragione. Non sarà che ha bisogno di depurarsi dopo un periodo di ”orge apoplettiche”? E allora, via con la cura: ”Levataccia pre-gallica alle tre del mattino, poi bevanda di lattuga da prendersi non precisamente per bocca, due ore di massaggi abbondanti a mezzo turcomanni, un pasto al giorno a orario inglese a base di rape non mature, carote nere e carrubo francese. Molti sughi e dormire non-materassati. Come genere piuttosto sobrio, in compenso c’è la merenda, non il five-o’-clock solito noiosetto, ma certe belle merendazze da bambini svizzeri, soltanto che invece di pane e burro ti danno pan secco spalmato di terra concimata. Calcifica senza ingrassare”. Sopravvissuta alla cura, la Signorina torna ai soliti impegni. Le corse all’ippodromo, per esempio. Ma poiché lei ha una natura capovolta, racconta che ha riso da matti pensando ”cosa sarebbe di bello un concorso ippico se la gente corresse e i cavalli stessero a vedere”. [...] Se, dopo l’ippica, la Signorina Snob si dedica al calcio, la pulsione estrosa non cambia: ”Siccome il mio più vivo desiderio era essere picchiata ho gridato: ”Viva l’arbitro”. Una donna mi ha preso a sberle. Troppo bello!”. In un mondo snob non può mancare il salotto con l’ospite di grido. Un giorno arriva ”il nume della sartoria francese. stato invitatissimo, tanto che ce lo siamo dovuto contendere, non dico ai pasti, che sarebbe normale, ma addirittura al caffellatte. Certo c’era da aver paura perché a Roma gli hanno fatto delle cose carinissime, vedi il Rudy che gli ha servito un arrosto con patatine di lamé”. Di avventura in avventura, tra arredamenti scriteriati, feste mascherate, sedute spiritiche, matrimoni da organizzare, regali natalizi da fare, pensando magari di donare alla cuoca ”due polli di Picasso prima maniera”, l’anno se ne va, e la Signorina Snob ci lascia con un brivido di assurdità amara: ”Ma perché lo fanno tutti gli anni il Capodanno? Non è tutta una barba che non finisce mai?”. Passerà qualche tempo e lei ci abbandonerà definitivamente. S’incarnerà in altre signorine, in altre donne. L’ultima sarà la Signora Cecioni. Avrà abbandonato l’affilato accento milanese e assunto la parlata cava romanesca. Però la frattura assurda del suo mondo sarà la stessa» (Osvaldo Guerrieri, ”La Stampa” 7/11/2003). Vedi anche: Tullio Kezich, ”Sette” n. 12/2000.