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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

VALPREDA

VALPREDA Pietro Milano 22 giugno 1933, Milano 6 luglio 2002. Anarchico • «Voleva diventare Pietro Hènnes, era rimasto per tutta la vita Pietro Valpreda. L’anagrafe e la cronaca avevano vinto sui suoi sogni. Ma lo teneva accanto al letto, quel vecchio manifestino color ocra. Qualche nome noto dell’avanspettacolo e un po’ più sotto, tra i comprimari, in grassetto: ”Sai chi è questo? Sono io... il nome che mi ero scelto, quando ballavo. Poi m’han sbattu denter e l’è finida inscì”, mi hanno messo in galera e la carriera sul palcoscenico si è dissolta. Eppure, sino a un anno fa, Valpreda si allenava due volte la settimana, fatica dura, da ballerino classico. Viene da dire che, come nei balletti, ci ha tenuto a uscire di scena in punta di piedi. Pretendeva un po’ di pace, dopo una vita intensa, sin troppo piena di storie, di confusione, mestieri, rinascite. Aveva sorriso, in ospedale, pochi giorni fa. Era allo stremo delle forze, coccolato e accudito dalla moglie Pia, ma aveva voluto che gli si leggesse la recensione sull’ultimo giallo che avevamo insieme: ”Bella - aveva detto - ci hanno trattato bene”. quel suo modo di dire, ”trattato bene”, che fa riflettere. La tragedia di Piazza Fontana, quella fama terribile da assassino stragista che per qualche tempo gli era rimasta ingiustamente appiccicata addosso, era ormai uno dei suoi ricordi. Ma non era più un cruccio. L’aveva superata. Sapeva, da grande e onnivoro lettore di tomi, di non aver ”fatto” la Storia, ma di esserne stato attraversato: il lampo della bomba del 12 dicembre 1969 aveva centrato anche lui, non uccidendolo, relegandolo nello scomodo ruolo del primo capro espiatorio in un’indagine malsana. Il suo amico ferroviere, Pino Pinelli, moriva in questura, nell’Ufficio Politico, e lui era rimasto in carcere senza processo per oltre tre anni: si usava così, finché venne fatta una legge; la ”legge Valpreda” la chiamarono, per stabilire che non si poteva essere detenuti in attesa di giudizio a vita. Venne assolto ai processi, quando li celebrarono in giro per l´Italia. E nell’ultimo, a Milano, è arrivata la condanna non definitiva per tre neofascisti: come già nel 1970 si sapeva e si tentava di far capire a chi aveva indagato a senso unico sul gruppo politico più debole, meno ”coperto”, quello degli anarchici: odiati a destra e sopportati a sinistra. ”Ho sempre voluto sapere chi è stato mandato a mettere la bomba, visto che io non sono stato. E poi, quando mai gli anarchici hanno avuto quel tipo d’esplosivo? Sarebbe bastato questo a capire, no?”. Chissà cosa gli sarebbe successo senza quel suo strambo misto di ottimismo vitalissimo e furbizia popolare che gli ha permesso di inventarsi una serie di nuove vite. Dopo il carcere, si era candidato senza fortuna in un partito di estrema sinistra, aveva fatto l’attore, finalmente s’era messo a lavorare come rappresentante di libri Einaudi, ma l’idea giusta l’aveva avuta negli anni Ottanta, aprendo un bar in corso Garibaldi, ”1898 la barricata”, in ricordo dei milanesi ribelli, che resistettero alle cannonate del generale Bava Beccaris. Quanto si divertiva a raccontare le storie dei clienti e delle serate, o meglio nottate, davanti a un ”biccerin”. Sua moglie, quando scrivevamo, preparava il pane fatto in casa e stappava il bianco, nella casa in affitto, terzo piano senza ascensore, dov’erano andati a vivere dopo aver ceduto il bar. S’era buttato a capofitto nella sua ultima vita, quella di giallista. Il suo stupore era infantile quando si trovava al centro dell’attenzione non per la politica, non per il passato, ma per le frasi scritte, per le descrizioni di Milano, per l’enigma risolto dall’anziano maresciallo dei carabinieri scelto come protagonista positivo. Era davvero felice, la spuntava sulle cattiverie di una vita agra. Anzi, avendo visto la morte in faccia varie volte - morbo di Burgher, operazioni al cuore, aorta rappezzata come una camera d’aria - si immaginava, per questi prossimi anni, a girare per librerie: ”Dì, ma ci hanno invitato a Mantova...”, si stupiva. Al figlio Tupac, chiamato così in onore della guerriglia, mostrava orgoglioso le copie: ”T’è vist?”. L’aveva scampata così tante volte che anche un anno fa, quando gli avevano portato via un terzo di polmone, si era ripreso. E ”alla grande”, diceva, tanto da aver voluto controllare lui alcune informazioni al centro di documentazione ebraica di Milano, e sul lago Maggiore. Poi, la ricaduta: ”Stavolta non ce la farà”, aveva detto Pia, vedendo con gli occhi del cuore più avanti dei medici. Le metastasi al cervello erano partite dalla sede del linguaggio, era diventata infinita la sua tristezza nel faticare a parlare, lui che aveva un’ottima memoria e la lingua sciolta. Alzava la voce anche contro il cielo, ma non se la prenderà se, ora che non c’è più, può salire alla bocca una vecchia preghiera, mai così adatta: ”L’eterno riposo, dona a lui, Signore”» (Pietro Colaprico, ”la Repubblica” 8/7/2002). «È lui” titolarono i giornali, lui il mostro, il ballerino anarchico che aveva messo la bomba nella banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969, uccidendo sedici innocenti […] A trentatré anni di distanza sfoglio il suo Diario dalla galera che mi dedicò nel 1974: ”A Giorgio e... grazie”. In questi anni l’ho visto poche volte, passavo davanti al suo bar in corso Garibaldi. Lo intravedevo, ma tiravo dritto non ce la facevo a farmi riprendere dall’incubo di piazza Fontana, da quella strage che ha cambiato la vita di generazioni, dal mostruoso groviglio di menzogne, di false piste, di fantasmi, di ombre da cui fummo sommersi per mesi e che non abbiamo dimenticato. Ci sono eventi che hanno il potere di rivelare l’orrore e la fragilità del vivere in cui tutti danno il peggio di sé come trascinati da una irresistibile voglia di lordarsi, di farsi del male a vicenda. I giorni di piazza Fontana sono stati di quelli che dopo ti sembrano impossibili: uno scatenamento generale di sospetti malvagi, di caccia all’uomo, di pubbliche autorità che mentono e congiurano senza sapere bene il perché. Forse perché nell’aria c’è quell’invito pressante, da monatti ad accusare qualcuno, a trovare un capro espiatorio e anche la gente comune non ragiona più, la gente che stava per linciarlo vicino al Palazzo di Giustizia quando gli sequestrarono l’automobile e come lui fece per aprirla poliziotti e curiosi fecero un balzo indietro: era l’auto del mostro, poteva farla esplodere. Storie infami: il taxista Rolandi ammalato grave con pochi mesi di vita che viene convinto a testimoniare ”a futura memoria” che il mostro è proprio lui, il poveraccio della casa di ringhiera, uno che campa vendendo collanine e lampadari fatti con vetrini colorati, il ballerino che non può più ballare per un male alla gamba. Le prove false messe dalla polizia nelle sue tasche, trentotto giorni in cella d’isolamento, la lampadina accesa giorno e notte, gli interrogatori senza fine. ”Come si può restare lucidi quando si è inchiodati su una sedia, mitragliati di domande che ti vengono rivolte da chi non ti crede e dubita di tutto ciò che dici”? Povero Valpreda, il male di vivere per lui era cominciato molto prima di piazza Fontana. ”Certo io so di non meritare la galera e l’ingiustizia mi brucia nel sangue: ma a volte mi vien di pensare che la galera non è altro che una edizione peggiorata della nostra vita. Di giorno e soprattutto alla sera la nostalgia delle persone care, l’ansia della libertà si fanno deliranti e urla disperate straziano il silenzio. Ma ora a mente fredda non posso far a meno di pensare che la galera comincia quando si nasce”. L’incubo di piazza Fontana non si è mai dissolto per noi cronisti figuriamoci per lui: processato, assolto ma mai completamente uscito da quell’ombra. Il popolo della sinistra ne aveva fatto un simbolo di lotta politica, ma non lo amava, funzionava ancora in molti quel riflesso condizionato che per più di un anno gli aveva impedito di trovare un alloggio a Milano. Lui diceva quel suo nome, Pietro Valpreda e la gente si tirava indietro, trovava una scusa. I mesi dei sospetti e della galera non poteva certo dimenticarli, gli era rimasto addosso un astio verso tutti, ricordo una sera al circolo De Amicis che venne fuori con un fiotto di ira e di amarezza che coinvolgeva anche noi che avevamo cercato di dargli una mano. Ma come non capirlo? ”Voi - scrive nel diario - siete nelle vostre case davanti alla televisione che parla di me, voi discutete, cercate di capire, ma io sono qui e un poliziotto mi si avvicina e dice: ”Abbiamo trovato il codice’. Lo guardo inebetito: ”Quale codice?’. ”Nel taccuino magnetico dell’auto’. ”Il codice magnetico?’ dico sbalordito. ”Eh è tutto chiaro, è lo stesso gergo dei terroristi altoatesini’”. […] Perché? Perché? Perché l´apparato poliziesco della Nato doveva spostare a destra il nostro governo? Perché Rumor doveva aver la meglio su Moro? Perché gli apparati polizieschi si devono autogiustificare diffondendo false minacce e coltivando il mito del potere segreto che tutto può fare e mai essere punito? Le trame nere organizzate contro le trame rosse dell’Unione Sovietica hanno avuto un unico effetto: di farci vivere nello stesso incubo poliziesco. E Pietro Valpreda pagò più degli altri» (Giorgio Bocca, ”la Repubblica” 8/7/2002). «’Alza la testa, mostro!”. Non era mai riuscito a dimenticare il ricordo del giorno in cui, dopo averlo interrogato, il giudice romano Vittorio Occorsio, che qualche anno dopo sarebbe stato assassinato da un commando di terroristi neri, lo aveva dato in pasto ai fotografi. ”Fu tremendo, un assalto feroce”, ricordava strascicando la ”erre moscia”. Col passare degli anni, a mano a mano che quella ferita gli si rimarginava, aveva preso ad accennare una piega ironica della bocca. Ma il trauma gli era rimasto dentro, incancellabile. Come fai a cancellare un titolo che strilla sotto la tua foto ”Ecco il mostro”? Eppure, a forza di frequentarli, di trovare tra i ”pennivendoli” anche alleati di straordinaria passione culturale e civile, di conoscere i perversi meccanismi che a volte possono spingere un cronista a fare cose orribili delle quali è destinato a pentirsi, il Pietro si era via via quasi affezionato ai giornalisti. Al punto che nella seconda metà degli anni Settanta aveva preso a frequentare il ”Corriere” e il ”Corriere d’informazione” per vendere libri dell’Einaudi e soprattutto la voluminosissima, raffinatissima e costosissima enciclopedia diretta da Ruggiero Romano. Se ne piazzava una, sorrideva: ”Conto sui sensi di colpa”. Seguiva del resto, come aveva imparato a fare in ogni campo, il consiglio della zia Rachele, che anche nei momenti peggiori non aveva voluto cambiare il campanello con scritto ”Torri-Valpreda” e rinfacciava ai cronisti bugia dopo bugia (e furono davvero tantissime) restando ancorata alle sue certezze: ”Arrivati a questo punto, signori miei, bisogna dire che l’onore di una famiglia è stato calpestato senza che nessuno vi abbia punto un dito. Però la coscienza, se non si fa viva oggi, si farà viva domani”. Era un personaggio straordinario, la vecchia zia Rachele. Una cattolica vecchio stampo e orgogliosa della propria fede, che viveva circondata da crocefissi e madonne e candele da cerimonia arrotolate a tortiglione e tutta una serie di simboli religiosi. Quando parlava del nipote sospirava: ”Ah! Dalla nostra famiglia doveva venire fuori un prete. O una suora. Non un anarchico...”. Lo chiamava ”il mio povero Pisacane fuori epoca” ma le perdonava tutte a quel ragazzo ribelle che si vestiva con le cose più strambe, stracciate e colorate che si potessero trovare in commercio ma, sotto, portava solo scarpe di marca. Ne aveva, scrive il grande Marco Nozza in Pistaroli, il libro mai editato che riassume la ”strategia della tensione” e la storia dei cronisti che avevano cercato di vederci chiaro rifiutando le versioni ufficiali, venti o trenta paia. Un’enormità, per il figlio un po’ spiantato, bohemien e testa calda di un barista della periferia milanese. Trenta scarpe! E ”tutte prese dal Polli”. I milanesi, dice la zia di Valpreda, sanno chi è il Polli, nelle scarpe. I piedi del Pietro sono delicati, da ballerino. Ha bisogno di avere sempre un numero in più, come le hanno consigliato. Partì proprio da lei, dalla zia Rachele, la ”rimonta” di Valpreda. Il progressivo crescere dei dubbi, dentro gli amici, dentro i giornali, dentro l’opinione pubblica, intorno all’unica ”prova” che avevano in mano la polizia milanese e i giudici romani, che già il giorno dopo la strage avevano scippato l’inchiesta ai colleghi ambrosiani e puntato tutto sulla pista degli anarchici: la testimonianza di Cornelio Rolandi. Il famoso taxista che aveva raccontato d’aver portato un uomo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura quel tragico pomeriggio del 12 dicembre 1969 e che, davanti alla fotografia del Pietro, aveva detto quelle tre famose parole che sarebbero diventate storiche: ”L’è lu”. lui. Che valore avesse quella deposizione, rilasciata a futura memoria perché il taxista era così malato che era stato subito chiaro che non sarebbe riuscito ad arrivare al processo, lo si sarebbe visto con chiarezza solo tre decenni dopo, nel settembre del 2000. Quando saltò fuori finalmente la foto scattata ai protagonisti del ”riconoscimento ufficiale” fatto fare a Rolandi perché confermasse ciò che aveva detto. Una foto che da sola spiega più di mille parole come l’inchiesta, in anni in cui la parola ”garantismo” era praticamente ignota, fosse stata viziata fin dal principio. Quattro manichini stile Upim, perfettini e ordinatini con la cravatta e l’aria del brigadiere, e in mezzo lui, trasandato, barba lunga, maglione, capelli da hippy spettinati, l’aria sfatta di chi è stato sottoposto per ore ad interrogatori pesanti. Che sarebbe finita male, avrebbe scritto il ”mostro” nelle sue memorie ricordando gli altri partner ”impossibili” del riconoscimento, era chiarissimo: ”Sembravano pronti ad andare a una festa. Quale festa? La mia”. Poco prima che uscisse, dopo tre anni passati in carcere spesso con la luce accesa giorno e notte, raccontò a Giampaolo Pansa che era riuscito a incontrarlo (superando lo sbarramento di 26 carabinieri) nella clinica dov’era stato ricoverato: ”Lo Stato mi dà il voltastomaco: pochi giorni fa mi è successo veramente, avrò tirato fuori mezzo litro di schifo e di odio: ecco, lì, bella e concreta, la mia valutazione del sistema”. Assolto con la formula dell’insufficienza di prove, massima concessione che i giudici ritenevano di potergli fare dopo averlo additato come il simbolo del Male, continuò a ricevere per anni e anni ingiunzioni di pagamento per questa o quella spesa giudiziaria che ogni tanto sbucava fuori da qualche cassetto di un processo mostruoso. E per anni, anche quando pareva ormai chiaro a tutti quanto marcia fosse stata l’operazione con cui l’avevano incastrato, continuò ad essere seguito come fosse un colpevole sfuggito alla giustizia: ”Se faccio una corsa in un prato corriamo in ventuno: io più i venti poliziotti che mi seguono dovunque vada”. Raccolti i cocci della vita, aveva messo su famiglia, era stato benedetto dalla nascita di un figlio, l’aveva chiamato Tupac Amaru, nome dell’ultimo inca che si ribellò agli spagnoli. Il ballerino no, non era tornato a farlo più. Ma ci teneva a far sapere che, al diavolo gli anni, aveva continuato ad allenarsi: ”Il ballo è una cosa che quando ce l’hai dentro l’hai dentro”. Fino all’ultimo, che si sappia, ha continuato a dichiararsi anarchico» (Gian Antonio Stella, ”Corriere della Sera” 8/7/2002). Vedi anche: Francesco Battistini, ”Sette” n. 13/1999.