Varie, 7 marzo 2002
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VAV (Edvaldo Izidio Neto) Recife (Brasile) 12 novembre 1934, Rio de Janeiro (Brasile) 20 gennaio 2002
VAV (Edvaldo Izidio Neto) Recife (Brasile) 12 novembre 1934, Rio de Janeiro (Brasile) 20 gennaio 2002. Calciatore • «Parte del Brasile grandissimo che vinse i mondiali di calcio nel 1958 e dopo ancora nel 1962. Era, in qualità di Vavà, parte del trio meraviglioso che suonava come una filastrocca a Napoli lo fu davvero e che cominciava con Didì e finiva con Pelè: il sommo centrocampista e il sommo fantasista, quei due, e in mezzo lui, che sommo mai fu ma che, sodo e concreto come pochi altri brasiliani nella storia del calcio, un sola cosa faceva, e la faceva perfettamente: i gol. Prese parte a due mondiali, li vinse entrambi giocando 11 partite e segnando 9 reti: dicevano che la buttava dentro perché c’era Garrincha, che da destra inebetiva di finte chiunque gli si parasse davanti e poi metteva in mezzo pallette al velluto che bastava spingere dentro. Ma a chi ha ancora negli occhi, uno a caso, Serginho lo sciagurato – gran divoratore di gol nel Brasile del 1982 (di cui proprio Vavà era vice Ct), il centravanti incapace di ficcare in porta i palloni che gli regalavano Zico o Socrates o Cerezo o Falcao o Junior o Eder – appare subito chiaro come, per farli i gol, anche quelli ”faciliì’, sia necessario possedere una qualche qualità. Quella di Vavà, dice piangendolo Jairzinho, l’ala destra del 4-1 del Brasile sull’Italia a Mexico 70, era coraggio più generosità: ”Era un esempio di come si dovrebbe sempre giocare: quasi si ammazzava, ogni volta, nel momento di lanciarsi di testa per colpire la palla. Ero attaccante come lo era lui, era il mio idolo: le nuove generazioni dovrebbero imparare la sua lezione’. Un idolo per Jairzinho e per gli uomini di sport brasiliani, un poco meno per la gente: non colpiva la fantasia, Vavà, la sua essenzialità e il suo opportunismo dentro l’area degli avversari facevano sì volare le squadre per le quali giocava ma non scaldavano il cuore. Ai mondiali del ’58 partì riserva di Mazola, che altri poi non era che José Altafini: ma quando il ct Feola ebbe il dubbio che Altafini tirasse indietro la gamba perché in procinto di passare al Milan, fu Vavà che chiamò dentro dal gruppo delle riserve. Ed ebbe quel che serviva: l’uomo che dava tutto dentro l’area, e che batteva i portieri: 2 gol all’Urss, 1 alla Francia, 2 alla Svezia in finale: Brasile campione. Quattro anni dopo, si replica: 1 gol all’Inghilterra, 2 al Cile, 1 alla Cecoslovacchia in finale: Brasile (ancora) campione. Come spesso si fa con chi muore o è prossimo a farlo, proprio due giorni fa – quando la notizia delle condizioni dell’ex compagno di squadra s’era diffusa – Pelè ha voluto restituire a Vavà quel che in vita nessuno, lui compreso, gli aveva dato: ”Noi brasiliani non gli abbiamo attribuito l’importanza che merita nella storia della Selecao. Forse perché, fuori dai campi di gioco, Vavà aveva uno stile sommesso e viveva una vita tranquilla, lontano dai riflettori. Ma quando era in campo meritava il soprannome di ”Petto d’Acciaio’. Centravanti di razza e grande goleador, non era uno che si lasciasse intimidire. Io scherzavo dicendo che era lui a spaventare i difensori con la sua faccia da bulldog. Anche se non abbiamo giocato nella stessa squadra, siamo stati grandi compagni nella nazionale’. Dopo i mondiali del ’62 – che gli valsero il soprannome di Leao da Copa, Leone della Coppa – Vavà uscì dal giro della nazionale. Continuò far gol per i club: quello del suo cuore era il Vasco da Gama, ma giocò anche per il Palmeiras, il Recife, il Portuguesa; e andò in Spagna, all’Atletico Madrid; e in Messico, all’America; e perfino negli Usa, al San Diego. Sempre gol. E poi il silenzio, come ricordava Pelè. Si tornò a parlare di lui due anni fa, quando venne colpito da ictus; e poi ancora nel maggio scorso, quando morì Didì, portandosi via una parte della vita di Vavà. Rimasero gli spiccioli, vissuti tra la sedia a rotelle e la clinica dove svolgeva la riabilitazione. Fino a ieri, quando dopo un’agonia di tre giorni dentro il petto d’acciaio il cuore ne ha avuto abbastanza di continuare a lavorare” (Alessandro Tommasi, ”la Repubblica” 20/1/2002). ”Nils Liedholm, testimone e avversario dei tempi d´oro, finale di Stoccolma compresa, lo ricorda così: ”Era un grande, davvero. Il meno appariscente dei ”tre’, ma il più utile, forse. Contro di noi, ci fece due gol impossibili, quasi nascondendosi dietro ai difensori. Giocava semplice, sbagliava poco: un opportunista spietato’. La sua carriera è legata soprattutto a una squadra, il Vasco da Gama. Vi arrivò, nel 1952, dalle giovanili dello Sport di Recife, nelle quali si era fatto le ossa. Il 1952 è anche l´anno delle Olimpiadi di Helsinki, che segnano il debutto di Vavà in Nazionale. Trascina il Vasco allo ”scudetto’ carioca del 1956 e alla conquista del torneo Rio-San Paolo del 1958. Ai Mondiali di Svezia, è la riserva di José Altafini, che i brasiliani chiamavano ”Mazzola’ per la sua somiglianza con il grande Valentino. Il ct Vicente Feola lo promuove titolare dalla seconda partita, 0-0 con l´Inghilterra. La leggenda del trio nasce alla terza, con il ”taglio’ di Altafini: 2-0 all´Urss, doppietta di Vavà. Che Brasile, quel Brasile: Garrincha, Didì, Vavà, Pelé, Zagallo. Il meglio del meglio. Al titolo, Vavà contribuisce con un bottino di cinque gol. Nell´intento di monetizzare il successo, si trasferisce a Madrid, all´Atletico, in tempo per aggiudicarsi due coppe di Spagna. Rientra poi in patria e firma per il Palmeiras. La consacrazione definitiva giunge con il Mondiale del 1962, sotto la guida di Aimoré Moreira. Pelé gioca due partite e s´infortuna. Gli subentra Amarildo. Tocca a Vavà, Didì e Garrincha tenere in piedi la baracca. Quattro gol, l´ultimo dei quali nella finale con la Cecoslovacchia (3-1). Il suo bilancio nella ”seleçao’ sarà di 25 partite e 15 gol. Con il Palmeiras, nel frattempo, conquista il campionato paulista. Anima indocile, si trasferisce in Messico, all´America, e negli Usa, ai Toros di San Diego. Nel 1966, a 32 anni, ritorna in Spagna, all´Elche, un piccolo club che onora con lo scettro di capo-cannoniere, 19 gol in 30 partite. Non aveva la finta di Garrincha, e neppure il genio di Pelé o il senso geometrico di Didì e Zagallo: ma era comunque un giocatore completo, un centravanti che aveva fatto tesoro dei suoi trascorsi di centrocampista, ricavandone un repertorio eclettico e assolutamente competitivo. Vavà non sprecava un passaggio, sempre al posto giusto nel momento giusto. Di una classe sobria e mai arrogante, se n´è andato tradito da quel cuore che ne aveva ispirato le gesta. Non un addio tragico come la fine che Garrincha fece nel 1983, divorato dall´alcol, e nemmeno lancinante come la morte di Didì, consumato da un tumore. Un´uscita quasi improvvisa, al culmine di una vita spesa sempre con lo stile e la dignità del campione che conosce il valore dello sport e il prezzo del sacrificio. ”La stelle del Brasile sono tre, Vavà-Didì-Pelé’, cantava il Quartetto Cetra negli anni Sessanta. Ci è rimasto il sommo: almeno lui, teniamocelo stretto» (Roberto Beccantini, ”La Stampa” 20/1/2002).