Varie, 7 marzo 2002
VELASCO
VELASCO Julio La Plata (Argentina) 9 febbraio 1952. Allenatore di pallavolo. Della Spagna. Nel 2006/2007 a Montichiari. Dal 1979 al 1982 allenatore del Ferrocarril Oeste di Buenos Aires (quattro scudetti), poi viceallenatore della nazionale argentina. Nel 1983 si trasferisce in Italia, allena a Jesi, poi dall’85 all’89 passa sulla panchina di Modena dove conquista 4 scudetti, 3 coppe Italia, una Coppa Coppe. Nell’89 diventa ct dell’Italia: manca solo l’oro olimpico (argento nel 1996), ma vince 3 europei, 2 mondiali, 2 coppe del Mondo e 5 World League. Lascia nel 1996, passa alla nazionale femminile ma non ottiene grandi risultati. Nel 1998 la Lazio (calcio) lo chiama come dg, nel 2000 passa all’Inter dove è consigliere del presidente e si occupa del settore fisico e medico. Nel 2002 allenatore della nazionale di volley della Repubblica Ceca, nel 2003 torna in Italia, sulla panchina del Piacenza (A1 maschile) • «Il tecnico italo-argentino che negli anni 90 era diventato nell’immaginario collettivo sinonimo di volley. [...] ”Oggi il mio punto di riferimento è Trapattoni: una persona che mantiene l’entusiasmo sempre, come se fosse la prima volta, perché fa il lavoro che gli piace. Il motivo per cui sonotornato ad allenare è proprio questo: mi piace. Ma forse è una spiegazione troppo semplice e non viene capita. [...] Ero un argentino emigrato, oggi mi sento un italo-argentino che vive in Italia per scelta. [...] Noi del mondo nuovo conserviamo una certa ingenuità, non abbiamo visto tutto e pensiamo che si possano fare più cose. In Europa, in Italia in particolare, invece si dice: ’Questo è così... questo l’abbiamo discusso già un paio di secoli fa...’. [...] La convivenza dei migliori esponenti delle diverse culture è una ricchezza straordinaria che l’Italia si permette nello sport e non in altri settori dove, invece, i cervelli vanno via. una grande combustione culturale: non si individua chi dà l’impronta, maproduce qualità, creatività e crescita. [...] Ho rifiutato tanti inviti e da Costanzo sono andato due volte, non ho mai partecipato a trasmissioni in prima serata, né al Processo, ma la mia immagine era quella di opinionista su tutto. Fece clamore un mio intervento da Chiambretti, non riuscivo più a liberarmi da questo mito che si autoalimentava. Allora per un anno e mezzo ho rifiutato qualsiasi intervista. [...] Io sono molto orgoglioso dell’argento di Atlanta: non abbiamo dato la colpa a nessuno, abbiamo pianto ma non piagnucolato, non si è rotta l’unità del gruppo. Eppure fu una sconfitta durissima. [...] Il problema, non solo nello sport, è quello non di pensare in grande, ma di pensare oltre le proprie possibilità. A qualcuno va male, ad altri va bene. Forse è peggio per i giovani vedere a chi è andata bene e, per riuscirci, non ha rispettato le regole. Oggi quello che conta è vincere, a tutti i costi. Invece no: bisogna rispettare le regole. Chi lo fa non è un fesso. corretto. Se bisogna vincere a tutti i costi, perché il doping no? Io sono contro il culto della pastiglia, anche quella legale. normale che un uomo sano prenda di tutto? Noi non l’abbiamo mai fatto: abbiamo vinto tanto senza niente. Non c’era la pastiglia, non c’era la creatina, non c’erano gli aminoacidi. [...] Nei giochi con la palla la competenza tecnica e la fantasia hanno un grande peso. Ma se una squadra si dopa ha un vantaggio enorme. In nessuno sport si può dire che il doping non c’è. E non esiste solo quello biologico. Esiste il doping amministrativo. Esiste il doping psicologico: siamo tutti uguali quando scendiamo in campo?. [...] Col doping è una lotta senza fine. Non ci sarà una vittoria, ma va combattuta lo stesso per non arrivare al punto che i puliti, non potendo competere, si ritirino dallo sport. Quando c’era la crisi in Argentina la cosa peggiore era che la gente aveva perso la speranza. Oggi non è così. L’uomo senza speranza è annichilito, non lo è quando è povero anche se è durissima. Io credo che negli sport di squadra c’è la speranza. E ci sono esempi. Gente come Gardini e Cantagalli: non hanno mai preso niente, durano di più, hanno 38 anni e continuano a giocare e a guadagnare. [...] Ho sempre fatto quello che sapevo fare. Mi proposero anche di dirigere un’azienda. Dissi di no. Io non credo nel carisma in generale: se parli di cose che non sai molto bene con persone che invece le conoscono, il carisma lo perdi facilmente. Nel calcio posso lavorare come dirigente, non come allenatore. E questo ho fatto» (Enrica Speroni, ”La Gazzetta dello Sport” 3/10/2003). «La carriera non è una scala dove si sale: vederla così ti impedisce di goderti le cose belle. Preferisco ascoltare le mie pulsioni, altrimenti vivi peggio solo per la vertigine della salita. [...] Ero diventato la pallavolo e dovevo uscire di scena. Il calcio era una prospettiva interessante [...] Per l´immagine esterna sono condannato a vincere. Non mi importa molto: voler dimostrare di essere il numero uno è il modo migliore per non esserlo. Assomiglia molto all´idea berlusconiana del "successo assoluto", per cui il mondo si divide in quelli che vincono sempre e negli "sfigati". Invece a volte fai bene, altre fai male» (Valentina Desalvo, ”la Repubblica” 9/8/2003). Vedi anche: Cesare Fiumi, ”Sette” n. 20/2000;