Varie, 7 marzo 2002
VELTRONI
VELTRONI Walter Roma 3 luglio 1955. Politico. Ex segretario del Pd (2007-2009). Eletto alla Camera nel 1992, 1994, 1996, 2008 (Pds, ds, Pd). Dal 2001 al 2008 sindaco di Roma. Dal 1992 al 1996 direttore dell’Unità. Dal 1998 al 2001 segretario dei ds. Vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali nel Prodi I (1996-1998) • «Poi magari si scoprirà che Walter Veltroni [...] cinefilo, musicofilo, l’inventore del buonismo, in realtà è il più machiavellico di tutti. Più del suo classico rivale Massimo D’Alema, che nel marasma del dopo-Occhetto divenne segretario del Pds con il voto di vertice del Consiglio nazionale, mentre la base aveva plebiscitato a forza di fax l’anima buona di Walter. Più di Romano Prodi, il fratello maggiore che nel pieno della crisi dell’ottobre 1998 lo prendeva per le spalle dicendogli, idealisticamente, ”Non importa, Walter, abbiamo vissuto una grande avventura”. Più di Piero Fassino la cui dedizione al partito è una specialità piemontese, un sacrificio assunto come gioia sofferente, come un perdurante martirio glorioso. Walter è diverso. Walter non viene dalla scuola di partito delle Frattocchie, ma dall’Istituto di cinematografia, ”facevo il segretario della cellula della Fgci nella scuola”. Cinema vuol dire lezione di apparenze, di dissolvenze. Walter ha la capacità straordinaria di esserci e di sparire, di impegnarsi e di eludere. Fateci caso, non suscita avversioni violente. Nessuno lo odia. Chi non lo ama, come l’ex compagno di partito Giuliano Ferrara, in passato ha detto che al massimo potrebbe dirigere un cineforum. Chi gli vuole bene è convinto che Veltroni incarna la politica in cui crede, integralmente. E allora vale la pena di scrutarla, questa politica, la visione del ragazzo orfano di padre a un anno, madre di origine slovena, un nonno finito a via Tasso, la prigione delle torture naziste a Roma, per avere ospitato uomini della resistenza, e che quando rivede suo padre nel personaggio di un vecchio film sente ”una fiocinata di dolore che ti colpisce il ventre”. Un enfant prodige che dall’età di 22 anni [...] ha pubblicato [...] libri, spaziando su ogni argomento, dal beat al ”Dio malato” che ha dimenticato il continente africano, senza citare una compilation, Me We, i cui proventi erano destinati proprio all´Africa. Libri i cui titoli parlano da soli: il sogno degli anni Sessanta, ”quando il cambiamento sembrava a un passo”, il sogno spezzato (quello di Robert Kennedy), la sfida interrotta (quella di Enrico Berlinguer), il calcio come scienza da amare in quanto tifoso juventino ”come Berlinguer”, nonché, naturalmente, la ”bella” politica (un libro-intervista scritto da Stefano Del Re nel 1995 ricchissimo di particolari anche sulla vicenda privata). Ci si ritrova dentro tutto l’universo veltroniano, del giovane non comunista entrato nella Fgci nel 1970 ”perché c’era Berlinguer che strappava con l’Unione Sovietica”, e subito dopo perché condivideva l’idea della questione morale: ”Sarà stata anche un’identità sbagliata perché manichea, ma l’idea del paese pulito nel paese sporco era qualcosa che ha spinto milioni di persone a votare Pci”. Esserci, non esserci. C’è, Veltroni, quando durante la sua direzione all’’Unità”, dal 1992 al 1996 sconvolge le regole allegando al giornale fondato da Antonio Gramsci gli album storici delle figurine Panini; e per deviare dalla norma ancora di più pubblica con il quotidiano i Vangeli, recandosi oltretutto a consegnarli al papa in udienza privata. Con il che, la mappa dell’universo veltronico è praticamente completa: nel senso che tutto il resto, tutta la cultura di cui Veltroni è permeato, si può immaginare senza difficoltà. un blob onnivoro, che ingloba Salinger e Baricco, uno spazio in cui si contemplano tutti i totem della passione popolare progressista, da Bob Dylan a De Andrè, good vibrations più un tocco di nazionalpopolare, di neorealismo, di commedia all´italiana: l’irresistibile ”Veltroni touch”, il tocco di Walter. Se le autoconcessioni di D’Alema (scarpe, labrador, risotto), vengono percepite come defezioni dallo stile di vita comunista, le passioni di Walter appaiono come un’eccellente autorealizzazione nell’epoca incerta del post-socialismo. Scompare dunque, con maestria e tempismo, non appena la sua presenza risulterebbe incongrua. Sparisce dal governo, in seguito alla drammatica caduta di Prodi, lasciando un vistoso rimpianto nella comunità dei beni culturali, per riapparire dopo una staffetta puntualissima con D’Alema nelle vesti di segretario dei Ds. E, come segretario, comanda. Il presunto buonista cambia cinque segretari su nove nella federazione delle grandi città, e 15 segretari regionali su 19. Si presenta al congresso del 2000 a Torino con un manifesto intitolato ”Progetto per la sinistra del duemila” e con lo slogan di don Lorenzo Milani ”I care”, lui che non crede in Dio, o almeno ”credo di non credere” (nel frattempo è stato in pellegrinaggio alle tombe di don Giuseppe Dossetti e dello stesso don Milani, nonché nel sacrario laico torinese di Norberto Bobbio). Si materializza di nuovo con un perfetto colpo di scena candidandosi alla carica di sindaco della Capitale, e sembra a tutti un modo di riapparire e svanire per mettersi di lato, fuori dalla campagna elettorale perduta in partenza contro Berlusconi nel 2001. E mentre gli altri perdono lui vince, naturalmente, perché in Veltroni la superficie luccicante dell’intrattenimento di massa e l’alone del missionario laico, non cela del tutto il Veltroni macchina da consenso, l’agitatore del ceto medio di sinistra e del generone che apprezza l’eleganza del potere, colui che sa mobilitare il centro storico e nobilitare le borgate. Sicché non c’è da stupirsi che nel giro di poche stagioni la sua popolarità dilaghi, attingendo quote da monarchia assoluta. Accoglie scrittori e cantanti in Campidoglio, mostrando a tutti il balconcino fatidico con il panorama ”più bello del mondo”. Fa vibrare Roma, la accende con le notti bianche, trasforma una città turistica in un evento ricorrente, in una condizione ”mitica”. E dietro lo schermo veltronico governa con una mano ferma, come dimostrano il piano regolatore e interventi urbani che sciolgono nodi di decenni. Come politico, si consente di punzecchiare la segreteria socialdemocratica di Fassino flirtando con il Correntone, nel nome di una ”simpatia per gli ultimi” che alla fine non suona insincera. Per poi sfilarsi dalla minoranza perché d’ora in avanti, quando il gioco si fa duro, è prevedibile che non ci sia bisogno soltanto di testimonianze. Alcuni hanno rilevato che il mondo di Walter ”con i suoi romanzi, con i suoi musei, le sue foto accattivanti, i suoi ”villaggi della pace’ e i suoi ”parchi della memoria’, e poi con gli artisti e gli sportivi disabili, gli ex deportati, gli eroi senegalesi, gli ultrà pentiti, le donne minacciate di lapidazione, i vecchietti rallegrati da Totti, i dipendenti comunali in permesso per volontariato” (Filippo Ceccarelli), potrebbe essere uno specchio rovesciato del berlusconismo, più che un’alternativa radicale a Berlusconi. Ma è davvero solo questo, il metodo Veltroni? Chi lo apprezza sostiene con la ragione dell’evidenza che non si resta in politica 35 anni, non si attraversa la storia del Pci, la sua crisi, la sua metamorfosi, senza una consistenza autentica, senza la stoffa del politico vero. Anzi, più che la stoffa, una struttura mentale e fisica, la capacità di resistere, di stringere i denti e se occorre di digrignarli; e di mettere in moto uffici e apparati con la grinta di chi sa che cos’è il comando. Dietro l’immagine di Walter, dietro l’apparenza, ci sarà senz’altro una sostanza. Ma la sostanza di Veltroni è una risorsa che non sorprende la fantasia, che non incuriosisce, non affascina e non lusinga. Diamola per scontata. Il suo atout principale è la leggerezza, la souplesse: è l’idea che per battere il berlusconismo attuale o la destra futura bisogna capire se occorrerà contrastarli sulla rocciosa realtà delle cose, sui numeri, sull´economia; oppure se verrà il momento in cui la partita si giocherà anche o soprattutto sulle aspettative, sulla speranza, sull’emozione. Perché se a un certo punto si dovrà machiavellicamente dissolvere un sogno con un sogno, come Walter non c’è nessuno» (Edmondo Berselli, ”la Repubblica” 2/2/2005).. «Sempre più Walter Veltroni si conferma un interessante caso d’antagonismo mimetico, o mimetismo antagonista. Doverosa la spiegazione. Più che l’anti-Berlusconi sembra configurarsi come l’alter-Berlusconi, il suo doppio speculare, una copia politicamente simmetrica, un prototipo uguale e contrario, là dove questa geometrica contrarietà è orientata per così dire a sinistra. Ma attenzione, perché la sinistra, nel caso del sindaco di Roma, appare come una categoria ideologica non solo abbastanza desueta, ma anche un po’ fuorviante. [...] In altre parole, l’ipotesi è che il sindaco di Roma abbia fatto sua la lezione del Cavaliere commutandola in maniera evoluta ben al di là del recinto berlusconiano. Ma in modo tale da risultare, il veltronismo, con i suoi romanzi, i suoi musei, le sue foto accattivanti, i suoi cd e dvd alla moda solidale (con Diaco), i suoi ”villaggi della pace” e i suoi ”parchi della memoria”, e poi con gli artisti e gli sportivi disabili, gli ex deportati, gli eroi senegalesi, gli ultrà pentiti, le donne minacciate di lapidazione, i vecchietti rallegrati da Totti, i dipendenti comunali in permesso per volontariato, i barboni massacrati e poi premiati per il loro coraggio civico, insomma, è come se il mondo di Walter fosse più simile a un berlusconismo alternativo che non a una radicale alternativa al berlusconismo. Va da sé che quasi tutti gli ”ismi” sono inevitabili forzature giornalistiche. E che l’evoluzione delle forme espressive della politica è un fatto complesso dalle mille implicazioni. Sarebbe semplicistico, oltretutto, oltre che ingiusto, ritenere che Veltroni imita, anzi si è messo a ”copiare” il Cavaliere, se non altro perché è in politica da molto prima di lui. E tuttavia, a proposito di quella ipotetica ”mimesi”, di quell’antagonismo alla rovescia, varrà giusto la pena di ricordare che nel 1990 Walter pubblicò con gli Editori Riuniti un volume che s’intitolava: Io e Berlusconi (e la Rai). [...] Il libro è una raccolta di articoli, discorsi, interviste sulla tv. Eppure quel furbo titolo suona oggi più che giustificato che allettante perché rende bene l’idea di quanto, fin da allora, Veltroni abbia studiato Berlusconi. E ancora di più perché dimostra quanto l’abbia via via capito assimilandone i tempi rapidi, i percorsi e i calori televisivi, le esigenze spaziali e spettacolari delle rappresentazioni, i linguaggi al tempo stesso sincopati, comprensibili e immaginifici, la forza delle emozioni, i segni del consumo e le risorse simboliche da utilizzare nel grande gioco del consenso da conquistarsi a distanza. [...]» (Filippo Ceccarelli, ”La Stampa” 30/9/2004). «In un paese che non rimpiange il craxismo ma ha già nostalgia della democrazia cristiana e adora il berlusconismo anche quando detesta Berlusconi, l’unico leader possibile è il collezionista di figurine (figuracce) Walter Veltroni […] ”Testa a pera”, lo chiamavano a sua insaputa i colleghi dell’’Unità” […] Mentre D’Alema, come Craxi, affascina i machiavellici ma non assomiglia all’Italia che vorrebbe governare, Veltroni è il prototipo dell’everyman di sinistra: la classe di insegnanti e impiegati a reddito fisso e frustrazione variabile che ha sostituito il proletariato come baricentro elettorale dei progressisti e nerbo sociale del paese. Per chi non ha mai visto uno dei trentacinque talk show televisivi cui partecipa; per chi non ha mai letto una sua intervista politica o gustato una sua recensione cinematografica […] può essere utile un ritratto introduttivo del personaggio […] Piace alla gente perché si vede subito che è uno che non ha studiato. Infatti è diventato ministro dei Beni Culturali (di Eco e De Gregori ha detto: ”Sono uomini importanti per il paese”). Con delega per lo sport (dell’allenatore juventino Lippi ha detto: ” un uomo importante per il paese”) e per lo spettacolo (dei registi Salvatores e Tornatore ha detto: ” importante che siano uomini di questo paese”). Passa per buonista perché tra i libri che ha letto, molti meno di quelli che ha scritto, ce ne sono un paio di Susanna Tamaro. In realtà è cattivissimo, però simpatico. Ama l’America anche se non ne conosce a perfezione la lingua: solo una ventina di parole, che comunque ripete spesso. Questa lacuna, dovuta all’intensa precocità della sua attività (a 22 anni era già consigliere comunale e comunista a Roma, tifoso della Juventus e assistente alla regia nello sceneggiato tv Una pistola nel cassetto) non gli ha impedito di pubblicare a sua nome una traduzione degli scritti di Bob Kennedy, l’eroe mitologico dal quale ha preso la totale dedizione al lavoro e la ferrea morigeratezza sessuale. Dotato di un carisma incomprensibile ma reale, ha una faccia e un’etica borghese (per dire, detesta le parolacce e cerca di convincere tutte le coppie che conosce a sposarsi) in grado di tranquillizzare i moderati più di dieci strappi e cento svolte. Questo man, anzi questo everyman, ha un progetto molto semplice, mutuato dalle lezioni tattiche di Gianni Brera e dalla pratica politica di Andreotti e Forlani: non desidera comandare, ma durare. All’attacco scriteriato preferisce il gioco di rimessa. Al bel gioco, la vittoria […] In ogni intervista cita sempre il libro, il disco o il film di moda a sinistra in quel momento […] Proprio come Berlusconi, è funzionale al modello televisivo imperante, cioè all’unica forma di cultura cui gli elettori italiani di destra e di sinistra siano abituati» (Massimo Gramellini, ”Micromega” n.1/1997). «Ci sono due cose che ritengo di avere fatto bene nella vita: il direttore dell’’Unità” e il ministro dei Beni culturali [...] Io vengo da una famiglia democratica, liberale. Questo era il clima della mia famiglia [...] non ho mai creduto nella ideologia della dittatura del proletariato [...] Mio padre morì che avevo un anno. Non l’ho mai conosciuto. Quando ero ragazzino la sua mancanza non mi pesava. Crescendo è stato peggio. Paradossalmente è più dura oggi di quando ero piccolo [...] Vivevo con una mamma dolce e spiritosa. Lei lavorava in Rai ai programmi. Tutto sommato ero un ragazzino tranquillo. Le diedi qualche preoccupazione quando frequentavo il ginnasio Tasso. Andavo male, era il Sessantotto. Attraversavo una fase turbolenta dell’adolescenza. Decisi di andare dove mi portava il cuore, e cioè alla scuola di cinema. Fu una folgorazione. Lì incontrai gente vera, del popolo, di estrazione diversa dalla mia e da quella dei compagni del tasso. L’impatto però fu durissimo. I tempi erano durissimi. Ricordo Teodoro Buontempo con un gruppetto di fascisti che venivano per picchiarci. Ci salvarono gli operai della Omi, un’officina meccanica che stava di fronte alla scuola [...] A 16 anni mi successe una cosa bellissima: vinsi 600mila lire con un ”12” alla schedina. Mi comprai un ”super 8” e cominciai a girare cortometraggi. A 18 anni feci un film, Una pistola nel cassetto, come assistente alla regia di Gianni Bongiovanni. Mentre giravo quel film mi telefonarono e mi chiesero se volevo diventare responsabile della Fgci, la gioventù comunista. Ci pensai per una notte. Lì si decise la mia vita. [...]» (Flora Lepore, ”Chi” 25/4//2001). Grande appasionato di calcio, tifoso della Juve: «Ero un bambino e non ero né di sinistra, né di destra. Non c’è un motivo per spiegare le origini del tifo: t’innamori e basta. Il tifo è sentimento: per questo quelli che cambiano squadra in virtù del mestiere che fanno o che scelgono scientificamente da che parte stare, mi spaventano. Ci vuole coerenza: è quasi più comprensibile cambiare un partito perché ci sono le cosiddette ragioni storiche, ma una squadra di calcio non si può tradire. Della Juventus mi piacquero i colori, igiocatori, Sivori. La prima partita della mia memoria è uno Juventus-Sambenedettese [...] In campagna elettorale visitai a Testaccio lo storico club della Roma. Vidi una foto del 1961 e feci una specie di Rischiatutto con il romanista più preparato. Non solo riuscii a non sfigurare, lo battei. Le gare che seguo la domenica sono tre: Juventus, Lazio e Roma. Provo simpatia anche per l’Inter: Moratti è, insieme con Sensi, tra i pochi presidenti profondamente legati alla loro squadra. Io amo il calcio, daragazzino seguivo persino la Roma di Olivieri e Sensibile e la Lazio di Zanetti e Carosi» (Stefano Boldrini, ”La Gazzetta dello Sport” 22/5/2003).