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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

VIERCHOWOD

VIERCHOWOD Pietro Calcinate (Bergamo) 6 aprile 1959. Ex calciatore. Difensore, ha giocato con Como, Fiorentina, Roma (scudetto ”83), Sampdoria (scudetto ”91, coppa delle Coppe ”90), Juventus (coppa dei Campioni ”96), Milan e Piacenza. In A vanta 562 presenze (l’ultima nel 2000 al Piacenza): più di lui, nei campionati a girone unico, soltanto Zoff (570). In azzurro Vierchowod conta 45 presenze. Tre i mondiali disputati: quello vincente dell’82 in Spagna, senza però mai giocare, e poi Messico ”86 e Italia ”90. Due i gol segnati in Nazionale, uno dei quali storico: Vierchowod è il goleador azzurro più anziano, contro Malta, il 24 marzo 1993, fece centro a 33 anni, 11 mesi e 18 giorni di età, l’Italia vinse per 6 1. «Lo ”zar” ha attraversato oltre un ventennio di calcio italiano ai massimi livelli. Dà i primi tiri al pallone nella squadra dell’oratorio del paese [...] Grande scatto, potente recupero, da ragazzino gioca da attaccante, quindi da terzino, infine da difensore centrale rivelando doti di marcatore inflessibile e spietato. Il suo cognome è ucraino: il padre Ivan Luchianovic, soldato dell’Armata Rossa prigioniero in Italia, dopo la guerra è rimasto e ha trovato moglie nel bergamasco. ”Orso” ha fatto l’operaio e l’idraulico prima di sfondare nel calcio. Una curiosità: è tra i pochissimi giocatori che non si iscrivono ”per principio” al loro sindacato [...]» (Dizionario del Calcio Italiano, a cura di Marco Sappino, Baldini&Castoldi 2000). «[…] ha giocato venticinque anni. Ventuno in serie A. Il padre si chiamava Ivan Luchianovic, soldato ucraino dell’armata sovietica prigioniero a Bolzano, Pisa e Modena. Finita la guerra Ivan Luchianovic Vierchowod si rifiutò di tornare in Ucraina, nella fonderia di Ricovo, periferia di Kiev. Si sposò a Spirano, nel Bergamasco. Nel dopoguerra fece il facchino e l’ortolano e poi il meccanico nella fabbrica delle motociclette bicilindriche Rumi. Pietro era un bambino di ferro. Il severo Ivan lo mandò subito a imparare un mestiere e Pietro diventò manovale e aiutante idraulico. E calciatore nel tempo libero. A 16 anni in prima categoria con lo Spirano, a 17 con la Romanese in serie D. A 37 alla Juventus. A 38 al Milan, a 39 in serie A con il Piacenza. Lasciò a 41 dopo 562 partite. Pietro Vierchowod è stato una maglia e una bandiera della Sampdoria tricolore. Ha vinto uno scudetto con la Roma e una coppa dei Campioni con la Juventus. […] ”Ho giocato contro Boninsegna e Shevchenko”. Il suo calcio attraversa Maradona e Platini, Van Basten e Ronaldo. Passa per Bettega, Pulici, Paolo Rossi, Altobelli, Pruzzo e Careca. Tocca Rummenigge, Batistuta e Weah e Zidane, sino a sfiorare Bobo Vieri e Pippo Inzaghi. Non fa classifiche, sono automatiche: ”Maradona il numero uno, Van Basten il centravanti più grande”. Due parole su Diego: ”Che numeri. Una volta gli ero addosso, incollato. L’avevo, come si dice adesso, ingabbiato. Si è girato con una piroetta, un tunnel ed è volato via. Io allora sono scattato e l’ho raggiunto e chiuso in angolo e lui si è messo ridere: ”Hanno ragione a dire che sei Hulk : ti manca solo il colore verde’”. Due parole su Marco: ”Alcuni anni fa, l’ho visto a Montecarlo. Era in piscina con la bambina e mi ha chiesto: ”Ma tu giochi ancora?’ Era triste, è stato imbarazzante. Lui si era ritirato a 29 anni, io ne avevo 40 ed ero ancora in pista. stata una perdita immensa. Noi del calcio, tutti noi, non sappiamo cosa abbiamo perso con l’addio di Marco. Giocatore unico, forse come i nostri duelli. Erano duri e spigolosi, ma leali. Ci siamo battuti e picchiati, non si è mai tirato indietro. Non era cattivo come Bettega, ma il gomito lo alzava anche lui […] Non mai avuto problemi muscolari. Cioè stiramenti, strappi. O menischi e altre cose di questo tipo. Io solo alcuni buchi ai polmoni, solo pneumotorace...”. Racconta il primo: ”A Torino, nel 1991, Juve Samp. Nell’intervallo dico a Boskov e al medico: ”Mi fa male al petto e non riesco a respirare’. Boskov alza le spalle: ”Non è niente, passa subito’. Torno in campo e dopo dieci minuti faccio segno alla panchina: ”Non ce la faccio, non respiro’. Vujadin mostra l’orologio: ”Dai, gioca mancano ancora cinque minut’. Sono rimasto un’altra mezz’ora, sino alla fine. Mi hanno visitato in diversi e liquidato con un sorriso: ”Un po’ d’aria nello stomaco, la butti fuori e sei a posto’. Per fortuna poi sono stato visto da uno pneumologo che ha scoperto il buco. Così la seconda volta, una cosa simile. Dicevano di non preoccuparmi, che non era niente. La diagnosi me la sono fatta da solo, ormai ero pratico”. Il terzo buco al polmone a 37 anni Torino. ”Giocavo nella Juve. Robetta, sono tornato quindici giorni dopo”. La Juve, una stagione, un trionfo. ”L’allenamento cominciava alle dieci del mattino, io alle otto e mezzo ero già in campo. Spesso arrivava l’Avvocato. Non mi chiedeva di calcio, era curioso di tutto. Era stato in cavalleria e voleva sapere di mio padre soldato dell’armata sovietica. Della prigionia, del suo lavoro in Ucraina. Poi parlava anche della Juve... Nella Juve sono stato bene, c’era la struttura ideale per giocare al calcio. Come al Milan: tu devi pensare solo a fare il giocatore. Alla casa, all’affitto, al pediatra ci pensano loro”. Anche a Roma? ”Un’altra realtà, altra dimensione, altri giocatori: Ancelotti, Falcao, Prohaska, Bruno Conti. E il Barone... Ci affascinava con i suoi racconti surreali. Liedholm era molto superstizioso. Sulle maglie, ad esempio. Non potevamo prenderle, doveva consegnarle lui. Una volta, l’ho strappata dal mucchio, tanto sapevo il numero. Mi ha guardato malissimo: ”Sesuccede qualcosa la colpa è tua. Non farlo più, capito?’ Un’altra volta mi metto, per sbaglio, il suo cappotto: nelle tasche c’era di tutto. Ma proprio di tutto: sale, ciondoli, amuleti, boccettine, cornetti. Uomo fine e ironico ma credeva a queste cose”. Ma è la Sampdoria la squadra della sua vita. Pietro corregge: ”Mia, di Vialli, Mancini, Cerezo. Di tutti. Era la squadra degli amici e siamo stati un meraviglioso, irripetibile gruppo. Lì ho vinto, è stato fantastico. Ma è stato bello con tutte, perché tutte mi appartengono. Prima il Como: la prima famiglia. Poi la Fiorentina: la scoperta del grande calcio. Sono tornato a Firenze per questo, ho sbagliato. La Roma: il primo scudetto. La Juve: la coppa dei Campioni. Il Milan: il momento sbagliato. Dovevo arrivare nel 1990, Il presidente Paolo Mantovani mi bloccò. E il Piacenza: la rinascita, in campo a quarant’anni. Ma sono solo ricordi. […]”» (Germano Bovolenta, ”La Gazzetta dello Sport” 6/3/2005). Vedi anche: Gianluca Perdoni, ”Sette” n.13/1999.