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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

Vigna Piero

• Luigi Borgo San Lorenzo (Firenze) 1 agosto 1933. Magistrato. Ha cominciato la carriera come pretore nel ”59. Si è occupato, tra l’altro, della strage del 904, di terrorismo rosso, delle bombe mafiose del ”93, del mostro di Firenze. Rimane famosa la sua «linea dura» nel sequestro Belardinelli. Superprocuratore antimafia dal ”96. «[...] uno dei simboli della magistratura italiana degli ultimi decenni. Quasi sempre dalla parte della pubblica accusa, e quasi sempre a Firenze dove [...] è stato prima sostituto procuratore, poi procuratore aggiunto e infine procuratore. Qui, alla fine degli anni Settanta, ha cominciato a occuparsi di terrorismo, e insieme agli inquirenti di altre città [...] avviò una collaborazione giudiziaria spontanea per coordinare le varie indagini. Seguendo quell’esempio nacque a Palermo il pool di Falcone e Borsellino che mise in piedi il maxiprocesso. Erano gli anni Ottanta e Vigna, sempre da Firenze, aveva già incontrato la mafia. Accadde nell’inchiesta sulla strage del 23 dicembre 1984, la bomba sul rapido 904 che uccise 15 persone e ne ferì 300. Vigna condusse un’inchiesta che portò all’accertamento delle responsabilità di Cosa nostra in quell’attentato, mentre proseguiva le indagini sul ”mostro” che uccideva le coppiette sulle colline intorno a Firenze: imboccò la pista che portò a Pietro Pacciani, morto dopo alterne sentenze e prima che arrivasse un giudizio definitivo. E con l’attentato del 27 maggio ”93 in via dei Georgofili, a Firenze, 5 morti e 41 feriti, Piero Luigi Vigna tornò a incrociare Cosa nostra, fino a ottenere le condanne di esecutori e mandanti. Tre anni dopo, nel 1996, all’uscita da un interrogatorio del boss Giovanni Brusca che aveva cominciato a ”pentirsi” chiarì qualcosa di ciò che il capomafia stava dicendo. Per quell’intervista finì sotto procedimento disciplinare e il Csm ”condannò” Vigna con un ammonimento. Ma il magistrato – nel frattempo nominato superprocuratore antimafia – non si arrese, fece ricorso e lo vinse, lasciando intonsa la sua ”fedina” disciplinare. Dalla ”centrale di coordinamento” delle inchieste sulle cosche Vigna ne ha viste e provate tante. Compresi i colloqui investigativi con boss del calibro di Pietro Aglieri, che voleva ”dissociarsi” da Cosa nostra. Ne venne fuori una polemica sulle presunte trattative, ma il superprocuratore tagliò corto dicendo che ”la parola trattare mi fa schifo”. E di dissociazione non s’è più parlato. [...]» (Giovanni Bianconi, ”Corriere della Sera” 23/8/2005). «[...] durante la sua carriera, Vigna si era costruito una consolidata fama di esperto di sequestri, ha affrontato una quindicina di casi negli anni bui dell’Anonima. Più o meno anomali, ma se li è visti tutti. [...] Alla procura di Firenze ricordano ancora gli urlacci liberatori di Vigna quando, sempre di notte, arrivava la notizia della liberazione dell’ostaggio. ”Quando c’è un omicidio, o peggio una strage, pur con tutto il dolore, ma oserei dire che era meglio. Quel che doveva succedere era purtroppo già successo. Il sequestro invece è un reato permanente che prosegue nel tempo, si aggrava con esso, e tu che devi risolvere il caso te ne senti responsabile. Tremendo”. I bambini, poi. Al magistrato toccò l’indagine sul sequestro di tre giovanissimi tedeschi, sequestrati a Firenze. Un caso molto ma molto anomalo [...] Le trattative venivano fatte dalla curia vescovile, gli organi investigativi andavano per conto loro: ”Alla fine andò tutto bene, ma mancò la collaborazione”. Dagli errori si impara. In questi anni le leggi sono sempre andate al traino di grandi fatti di cronaca, e anche per i sequestri fu così, a cominciare dal blocco dei beni. ”Gli inquirenti hanno in testa una sola cosa, la vita dell’ostaggio. Questo il pensiero che ossessiona, e non ho scelto il verbo a caso [...]” [...] si è occupato di storie che hanno scosso l’Italia, compresa le strage sul rapido 904 del 1984 e gli attentati dei corleonesi nell’estate del 1993. ”La pressione dei media sul rapimento di un bambino è un fenomeno tipico del nostro Paese. Ma c’è una spiegazione. Il sequestro è il delitto che più di altri crea una insicurezza generale. Questo contribuisce ad aumentare la pressione su chi conduce le indagini. Ci si sente responsabili nei confronti di un bimbo, ma si avverte il peso dell’urgenza, della necessità di dare una risposta positiva, perché altrimenti il proprio Paese diventerà un posto peggiore di com’era prima.Non credo sia retorica, purtroppo per me è soltanto esperienza”. [...]» (Marco Imarisio, ”Corriere della Sera” 13/3/2006).