Varie, 7 marzo 2002
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Villeneuve Jacques
• Jean-sur-Richelieu (Canada) 9 aprile 1971. Pilota. Figlio di Gilles, il pilota della Ferrari morto l’8 maggio 1982. Campione del mondo di formula 1 1997 (Williams) al termine di un avvincente duello con Michael Schumacher. Più giovane vincitore della 500 miglia di Indy (’95), vincitore del campionato Cart (’95). In formula 1 ha vinto 11 Gp. «Coraggioso, scomodo e irriverente, a volte troppo per i canoni omologati dell’automobilismo moderno. Ma Jacques Villeneuve, per la F.1, ha rappresentato qualcosa di notevole. In primo luogo perché è il figlio di Gilles. Un’eredità pesante, che ha sempre voluto tenere lontano dalla sua vita professionale. [...] nel 1996, al primo assaggio nei GP proveniente dalle gare Usa, fu un fulmine. Pole e successo sfiorato (secondo solo per un guaio al motore) nell’esordio con la Williams a Melbourne, prima vittoria alla quarta corsa (al Nürburgring) e a fine anno la piazza d’onore iridata alle spalle del compagno Damon Hill, tenendo aperta la sfida mondiale fino all’ultimo GP. Ma il suo capolavoro in F.1 resta la stagione 1997, che lo laureò campione. In particolare la gara finale a Jerez. E ancora più una curva, la Dry Sack. Dove il canadese, nel momento decisivo, tirò una staccata da cineteca a sua maestà Michael Schumacher. Giocarsi un titolo all’ultima gara, uscire dal rifornimento finale alle spalle del rivale diretto, rimontare come un indemoniato e poi mettere in scena una mossa di quel genere significa avere determinazione, fantasia, coraggio. Significa, in sostanza, avere talento. Che poi Schumi abbia cercato di buttarlo fuori, eliminandosi e regalandogli di fatto il titolo, ha solo giocato a suo favore... Da lì, per un motivo o per l’altro, si è spenta la luce. Un altro anno con la Williams poco competitiva, poi il passaggio alla neonata Bar. Progetto nel quale era coinvolto, a livello dirigenziale, il suo manager e amico Craig Pollock. E, si diceva, anche lui come socio. Progetto legato forse troppo ai dollari e all’ingaggio. Visto con il senno di poi, un fallimento. O, almeno, un grosso errore di valutazione temporale. Perché per Villeneuve quelle dal ”99 al 2003 sono state 5 stagioni di fatiche, frustrazioni e polemiche. Fatiche per cercare di rendere competitivo il progetto, frustrazioni perché la Bar non è mai stata all’altezza e polemiche perché, se c’era da dire qualcosa di scomodo, non si tirava mai indietro. Con la beffa di una monoposto diventata competitiva (ora sta lottando per il 2 posto nel Mondiale costruttori) proprio quando lui è stato costretto ad andarsene. Il resto è colore e voglia di vivere senza essere costretto tra i confini di un mondo che i non omologati li guarda storti. [...] presunti flirt (la cantante Natalie Imbruglia) e fidanzate famose (Dannii Minogue, protagonista di musical a Londra) [...] uno che nella vita vince il titolo di F.Cart, la 500 Miglia di Indianapolis recuperando due giri di ritardo e il Mondiale di F.1 battendo un certo Schumi, proprio scarso non dev’essere. Magari può non piacere e forse le sue scelte non sono state tutte lucide e dettate dalla pura passione [...]» (Gianluca Gasparini, ”La Gazzetta dello Sport" 16/9/2004). «Di suo padre non parla, non se ne può parlare. Un’insofferenza che vira alla stizza, che nasconde la cicatrice fresca sopra la ferita. Come se non bastasse la sua traccia, congiunta in qualche modo all’altra: stesse piste, stesso mestiere e poi il taglio degli occhi vispi, da discolo, somiglianti come solo quelli di un figlio, appunto, lui. Jacques Villeneuve non tollera un’appartenenza inevitabile, secondo una cocciutaggine feroce eppure tenera, a voler guardare. Per riuscire nella sua impresa ha dovuto vincere tutto, titolo mondiale compreso, convinto che solo a quel punto avrebbe potuto vivere di luce propria, del nome proprio, indipendentemente da cognome già celebre, memorabile, marchiato Gilles. Uno sforzo che avrebbe interessato il dottor Freud, ribadito ad ogni ricorrenza. Cosa è stato, come fu non dice, lasciando immaginare lo stupore di un bambino trasportato in un camper sulle piste dietro al suo strano, velocissimo papà. Non una parola sul dolore spalancato sopra il lutto, sulla solitudine da bimbo sperduto, in collegio, Svizzera, Francia, chissà. Poteva coltivare comprensibili fragilità: è diventato fortissimo dentro, con una grinta che può produrre soltanto la fatica, la voglia di cacciar via un destino sbilenco. Perso il padre ha trovato un sostituto, Craig Pollock. Lo scovò vicino, su piste di sola neve; è diventato la sua spalla, il suo manager, l’unica porta aperta alla debolezza, alla fragilità. Per il resto un duro. Al punto da fissare da solo una scommessa: correre, andar dietro al fantasma onnipresente di Gilles con uno stile capace di tenerlo a bada, di tenere a bada tutti. Lo aspettavano al varco per riderci sopra, secondo modalità tipica riservata ai figli piccoli di padri enormi. Aspettava solo quello pure lui. Il risultato è venuto fuori in fretta e persino Schumi ebbe modo di saggiarne la tenuta. Jerez, 1997. Poi, come dopo una prova suprema, Jacques si è distratto, si è trovato un po’ lontano dalla battaglia e lì resta come un guerriero che comunque ce l’ha fatta. Gilles era solo fuoco, istinto puro, era pubblico nei botti, nei vizi, dall’elicottero guidato senza brevetto al motoscafo trattato come una Formula 1. Jacques è chiuso come uno scrigno, è testa, determinazione protetta, salvo eccezioni rare, tra i computer, il teak della sua barca. Gilles suonava la tromba; Jacques la chitarra. Musica per entrambi ma diversi i timbri, le scansioni. Ha vinto più di suo padre. Ma a suo padre ha reso omaggio, vendetta, onore. A modo suo, s’intende. L’ha detto una volta, un giorno soltanto, in uno spiffero di intimità che aveva dentro una commozione contagiosa, un amore fortissimo e privato che lui solo frequenta, che nessun altro deve riguardare» (Giorgio Terruzzi, ”Corriere della Sera” 8/5/2002).