Varie, 7 marzo 2002
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Weah George
• Monrovia (Liberia) 1 ottobre 1966. Ex calciatore. Pallone d’Oro 1995. Con il Milan vinse gli scudetti 1995/1996 e 1998/1999. Cominciò a giocare negli Young Survivors of Claretown, poi nel 1988 approdò al Monaco e successivamente al Paris Saint Germain. Nel 2000 passò al Chelsea, poi al Manchester City, quindi al Marsiglia per chiudere poi la carriera negli Emirati Arabi • «Oppong, come viene chiamato amichevolmente Weah da tutti i liberiani, uno dei suoi cognomi, è cresciuto insieme a 13 fratelli nella bidonville di West Point, in fondo a United Nations Drive, a Monrovia. Ha vissuto la sua adolescenza tra il primo colpo di stato e l’inizio della guerra civile. La sua casa è stata bruciata, perché le battaglie così sanguinose non hanno tempo per eroi del calcio, soprattutto eroi come Oppong. Uno che al suo paese ha sempre tenuto: se n’è andato nel 1988, prima in Camerun, poi in Europa, infine negli Emirati Arabi (dove ha giocato fino al 2003, segnando sempre tanto), tornando più o meno spesso, a seconda delle condizioni di sicurezza. Altrimenti sostenendo la propria nazionale. Oppong pagava i viaggi, le divise, le scarpe, gli alberghi. Ha fondato un club nel 1994, i Junior Professionals, e poi una rivista sportiva. [...]» (Filippo Maria Ricci, ”La Gazzetta dello Sportt” 19/11/2004). «[...] ha spiegato agli italiani cosa fosse l’Africa. E non era nostalgia, non era lontananza, non era quell’assenza da sudamericano intristito dal clima e neanche capriccio da talento esportato. Era orgoglio e semplicità. Mr George, come lo chiamano i suoi tifosi, appena arrivato al Milan dormiva sul pavimento di casa Simone. Ogni tanto aveva bisogno di riposare con la schiena a terra e camminava da papera. Quando Fabio Capello lo vide per la prima volta disse: ”Questo qui si muove come un cameriere”. E questo qui doveva sostituire Van Basten. Si presentò con un rigore sbagliato al trofeo Berlusconi. E tutti a guardargli i piedi. Se ne andò dopo 58 reti, due scudetti e un Pallone d’oro. E tutti a guardarlo negli occhi. Qualsiasi giocatore africano transitasse dall’Italia (e prima dalla Francia) era suo ospite, quando si infortunava tornava in Liberia e si metteva in porta a giocare con i ragazzini. Riempiva casse di vecchie maglie rossonere e le distribuiva in patria, sui campetti dove era cresciuto, da dove voleva scappare lasciandosi dietro la vita povera e l’adolescenza passata a installare cavi telefonici. Dove è sempre voluto tornare però. Anche se ha abitato nel Principato di Monaco, a Parigi, a Milano, a Londra, a Manchester, a New York (un posto che gli piace da pazzi, dove ha ancora una casa e un ristorante) e a Marsiglia, non ha mai mollato il suo codazzo di amici e parenti. Si spostava con il seguito e si guardava in giro. A ogni tappa ha raccolto persone, idee, è diventato fortissimo e ha ricordato sempre ogni giorno passato. Prima delle partita, anche quelle a biliardo, un minuto di raccoglimento. Quando ha vinto il pallone d’oro, ha ringraziato Wenger, il tecnico che lo ha scoperto: ”Perché mi ha insegnato come diventare un campione e mi ha lasciato restare quel che ero. Un africano”. Una volta ricco, si è messo a pagare le trasferte della Liberia: dalle tute agli aerei. Sapeva che la sua Nazionale non sarebbe mai andata lontano e ha deciso che era meglio iniziare a far camminare il suo Paese» (Giulia Zonca, ”La Stampa” 5/10/2005).