varie, 7 marzo 2002
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Weaver Sigourney
• (Susan Alexandra Weaver) New York (Stati Uniti) 8 ottobre 1949. Attrice • «Il nome che l’ha resa celebre sul grande schermo se lo è scelto a tredici anni dopo essersi innamorata di un personaggio del Grande Gatsby chiamato Sigourney Howard. Fino a quel momento si chiamava Susan Alexandra Weaver, e sin da piccola aveva odiato tutte le abbreviazioni che le venivano affibbiate a scuola, a cominciare da Susy. La scelta di un nome difficile da pronunciare non fu ispirata solo dalla volontà di essere immediatamente riconoscibile e di minimizzare il rischio di ogni possibile soprannome, ma soprattutto dall’esigenza di ribadire l’amore per la cultura che può offrire il proprio paese. Da allora la passione per la grande letteratura non è mai scemata, così come quella per la cultura americana [...] “Mio padre amava immensamente la storia romana, al punto da chiamare mio fratello Trajan, in onore dell’imperatore. In un primo momento avrei dovuto chiamarmi Flavia, e sono rammaricata del ripensamento dei miei genitori. Forse non avrei cambiato nome”. I continui riferimenti ai genitori spiegano molto del carattere di questa star assolutamente anomala per cultura, raffinatezza e tipo di fascino. Sigourney Weaver è prima di ogni altra cosa una newyorkese orgogliosamente legata alla cultura europea, per merito in particolare della madre, l’inglese Elizabeth Inglis, un’attrice elegante e aristocratica che a sua volta cambiò il proprio nome di battesimo dall’originario Desireé Hawkins. Alla fine degli anni Trenta, la Inglis era considerata l’attrice più promettente del cinema inglese: aveva lavorato con Hitchcock (è la figlia del professor Jordan in I 39 scalini) e nel 1940 era approdata a Hollywood, dove, dopo aver cambiato ancora una volta il nome in Elizabeth Earl, aveva recitato a fianco di Bette Davis in The Letter di William Wyler. Per nulla intimorita di dividere lo schermo con la più grande e difficile tra le attrici americane, Elizabeth conquistò i critici dell’epoca che la descrissero come la star del futuro, i mogul hollywoodiani che individuarono in lei un sicuro investimento, e, soprattutto, un produttore di nome Sylvester “Pat” Weaver, che vide in lei la donna della sua vita. I due convolarono a nozze, e Pat fece capire immediatamente ad Elizabeth che voleva costruire con lei una famiglia, e che proprio perché era un produttore sapeva quanto fosse difficile conciliare il mestiere di attrice con il ruolo di madre e di moglie. [...] “Mia madre ha smesso di recitare nel 1945, ed è riapparsa sullo schermo soltanto una volta dopo oltre quaranta anni insieme a me in Aliens, in una scena che ironicamente venne tagliata in fase di montaggio [...] Quando rivedo i suoi film ammiro un’attrice di talento e di grandissima sensibilità”. [...] Assolutamente opposta la scelta esistenziale di Pat, che si appassionò sin dagli inizi alle potenzialità della televisione e diventò nel giro di poco tempo uno dei più potenti ed innovativi produttori televisivi americani. “Se c’è una cosa che devo a mio padre è quella di aver concepito il mio mestiere in maniera idealistica. La vita ci costringe a scontrarci quotidianamente con delusioni e disincanto eppure è importante avere il coraggio e la volontà di svolgere il proprio lavoro per tentare di cambiare, seppur di poco, il mondo”. “Pat” concepì la televisione come strumento di comunicazione dalla straordinarie potenzialità educative: si deve a lui l’invenzione del format del “talk show”, che nelle sue intenzioni doveva allargare in maniera planetaria l’arte della conversazione, e fu sempre Pat il primo a più fervente pioniere della tv via cavo. [...] la giovane Susan non fu affatto incoraggiata ad intraprendere la carriera di attrice. La scelta avvenne quasi per caso, e fu dovuta a una situazione dolorosa: la statura estremamente alta ed il retroterra di privilegi fecero della ragazza l’oggetto di scherno dei compaagni di classe, e lei, per conquistarne l’approvazione, decise di diventare il clown della scuola [...] Dopo un periodo di tormenti e ripensamenti durante il quale cercò di comprendere se stessa in un lungo soggiorno in un kibbutz, Sigourney studiò letteratura inglese a Stanford e quindi recitazione a Yale, dove fu compagna di corso di una ragazza piena di talento di nome Meryl Streep. Si appassionò al teatro No, ma non entrò mai in sintonia con i docenti: “Molti tra loro erano rigidi, conservatori e misogini. Vissi il ritorno in una New York nella quale vivevo per la prima volta da sola come una liberazione, e finalmente cominciai ad apprezzare realmente il teatro”. All’inizio la carriera fu tutta in salita: ancora una volta l’altezza anomala e i lineamenti aristocratici si rivelarono un grande handicap: venne scitturata costantemente in ruoli minori da caratterista, ma lei capì che se avesse ceduto alle indicazioni di quel periodo sarebbe stata la fine delle sue ambizioni, e cercò di caratterizzare la propria carriera con scelte agli antipodi da quelle della famiglia: si specializzò nel teatro greco (in particolare Aristofane) e in quello d’avanguardia, giungendo ad avere una candidatura per il “Drama Desk Award”. Da quel momento cominciò a essere contattata per i ruoli più disparati dagli stessi agenti che prima non rispondevano alle sue chiamate, e ottenne un piccolo ruolo in Io & Annie prima di avere l’occasione della sua vita in Alien. La sua interpretazione di Ripley la rese una star di pirma grandezza e perfino un’icona femminista, ma se da un punto di vista recitativo è da ammirare la perfetta mescolanza di femminilità e potenza con cui affronta il male assoluto dell’alieno, su un piano prettamente umano si riscontra un sintomatico ribaltamento della realtà: “Sono una delle persone più paurose che esistono. Mi terrorizzano persino i ragni e se mi capita di rivedere i vari Alien non riesco a credere che sono proprio io a sbarazzarmi di tutti quei mostri. Quando Ridley Scott mi offrì la parte, ero in un momento di grandi studi intellettuali: non ero una fan della fantascienza, ma compresi che per molti versi quello era il ruolo di una donna che faceva cose da uomo. Dissi a me stessa: ‘questo sarà il mio Enrico V’, e basai l’interpretazione su una cara amica di cui preferisco non fare il nome”. Sigourney reagì con saggezza al successo planetario, e se dilazionò nel tempo la ripresa del personaggio di Ripley, diventando in seguito anche produttrice della fortunatissima serie, cominciò a dimostrare il proprio talento di attrice con ruoli diversissimi, che hanno oscillato dalla commedia (Ghostbuster, Dave) alla storia d’amore (Un anno vissuto pericolosamente), con escursioni memorabili nel cinema d’autore: il personaggio di Paulina, la donna che dopo molti anni riconosce il suo torturatore in Death and the Maiden di Roman Polanski è una delle interpretazioni più misurate e commoventi [...] mentre va in direzione opposta la caratterizzazione della moglie insoddisfatta della Tempesta di ghiaccio, un personaggio degli anni Settanta che la Weaver rende talmente insopportabile da venir definita da un critico americano “una Jane Fonda andata a male”. [...] a parte le battaglie di Ripley in uno spazio dove nessuno può sentire urlare, i ruoli che sono rimasti maggiormente nel suo cuore sono quelli che le hanno regalato nelllo stesso anno due candidature all’Oscar: la manager di Working Girl nel quale capovolge a proprio favore e con grande auto-ironia il ruolo di antipatica e, soprattutto, la Diane Fossey di Gorilla nella nebbia, una donna ancora una volta estremamente coraggiosa. “Diane mi ha affascinato dal momento in cui ho letto la sua storia: mi ha sempre colpito il coraggio che l’ha portata ad essere uccisa e l’abengazione con cui ha sposato una causa così particolare [...]”» (Antonio Monda, “la Repubblica” 12/6/2005) • «[…] Mi piacciono i personaggi di caratterista, di spalla: la verità à che non mi sono mai sentita a mio agio con i ruoli da protagonista […] La maggior parte dei progetti che mi offrono sono illeggibili, non riesco ad andare oltre la pagina dieci. Mi offrono spesso parti di donne cattive, impasticcate, dalle quali le figlie adolescenti vogliono fuggire. Sono caricature irreali di madri, e non mi piacciono. Non ho nessuna esitazione, come in Holes, a recitare una cattiva, a patto che ci sia una dose di realismo nelle sue motivazioni. La fobia contro la mezza età continua a imperversare a Hollywood. Oggi più che mai. Lo vedo nei copioni che mi mandano: quelli buoni sono tutti per donne più giovani di me. L’idea della donna matura che hanno gli sceneggiatori, come dicevo prima, è quella di una madre infernale. Forse le cose cambieranno […] Ma anche Harrison Ford, ne sono sicura, ha difficoltà a trovare un bel personaggio serio da interpretare, alla sua età. Hollywood e il cinema americano in genere è pieno di storie di e per gli adolescenti, con attori sempre più giovani. È come in certi sport olimpici, tipo la ginnastica: a 18 anni sei già vecchio [...]» (Silvia Bizio, “la Repubblica” 14/4/2003).