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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

Wiesel Elie

• Sigmet (Romania) 30 settembre 1928. Scrittore. Israeliano. Premio Nobel per la pace. «Sopravvissuto all´Olocausto, poi Premio Nobel per il suo impegno internazionale, è forse la massima autorità morale della cultura ebraica contemporanea [...]» (Andrea Tarquini, ”la Repubblica” 24/1/2005). «[...] ancora bambino, era stato deportato ad Auschwitz. Cosa ricorda del giorno della liberazione? ”Io ero a Monowitz, cioè Auschwitz III. Il 18 gennaio mi avevano evacuato a Buchenwald, e quindi non vidi l’arrivo dei russi. Ci avevano spostati proprio perché le armate di Mosca erano molto vicine, e ancora non capisco perché non abbiano accelerato la marcia per liberarci. Quindi la fine dell’incubo per me venne più tardi, in aprile, quando gli americani arrivarono a Buchenwald [...] Non ci sono molti giorni importanti come quello, nella mia esistenza. L’attimo in cui riacquistammo la libertà. Eppure il mio ricordo più forte è che non ci fu gioia, tra i sopravvissuti, quando capimmo che per noi la tragedia era finita. Ci vennero subito in mente i pensieri di cui avevamo paura, che fino a quel momento avevamo cercato di sopprimere per scampare alla morte: quanto eravamo deboli, e soli, e quante persone non erano più con noi. Per loro la liberazione era arrivata troppo tardi [...] Il campo dove stavo io, Monowitz, è stato distrutto. Qualche anno fa tornai a visitarlo, e non c’era più niente. Fermai un prete che camminava là vicino, e gli chiesi se sapeva dove stava il campo. ”A pochi metri da dove si trova lei’, mi rispose. Gli domandai se lui era lì, ai tempi della guerra, e disse di sì. Era bambino, ma la sua casa stava davanti al nostro filo spinato, e si ricordava ancora la cadenza delle giornate: le adunate, la musica, le marce, persino le impiccagioni. Gli chiesi come potevano fare colazione, o mangiare il pranzo, sapendo cosa accadeva oltre quella recinzione. Lui rispose che all’inizio era stata dura, ma poi si erano dovuti abituare. Io, quando stavo nel campo, pensavo di essere sperduto in un luogo lontano da tutti e da tutto, dimenticato dalla civiltà umana. E invece oltre il filo spinato c’erano case dove scorreva la vita normale, per quanto poteva esserlo in quel tempo di guerra [...] cosa ha trasformato degli esseri umani in macchine della morte? Non ne ho idea. Il mondo sapeva e non ha reagito. Quei binari che portavano dentro Birkenau li vedevano tutti, eppure hanno lasciato che nel momento peggiore venissero ammazzate 10 o 12.000 persone al giorno. D’accordo, c’era una guerra da combattere, con uno scopo molto nobile. Bisognava sconfiggere il fascismo, il nazismo, Hitler. Ma la liberazione degli ebrei è stata solo un sottoprodotto di quel conflitto. A chiunque abbia chiesto, nel mondo occidentale, mi ha risposto così: salvarvi dalla morte non era un vero obiettivo, è venuto con la sconfitta dei nazisti [...] Ho letto tutti i libri e i documenti possibili, senza trovare nulla. Forse fu indifferenza, oppure negligenza. Alcuni, qui in America, mi hanno detto che magari i politici temevano di dare l’impressione che la guerra servisse solo a liberare gli ebrei, perché questo l’avrebbe resa meno popolare [...] Io continuo a pensare che Pio XII abbia delle responsabilità. Il Vaticano aveva un grande sistema informativo, perché poteva contare sui preti, che parlavano ai vescovi, che riferivano alla Santa Sede. Se il Papa avesse scritto una lettera pastorale, o avesse detto in qualche modo ai polacchi, agli ungheresi e agli altri popoli della regione di aiutare gli ebrei, migliaia di persone sarebbero state salvate [...] Io ho fatto pace con Dio. Naturalmente devo essere onesto con me stesso: una persona credente, come me, ha molte domande che non hanno ancora ricevuto risposta. Ma io oggi sono in pace con Dio. L’Olocausto non è venuto dal Cielo. Gli uomini lo hanno immaginato, voluto, costruito e gestito. Auschwitz è un prodotto degli esseri umani e un imbarazzo per loro. Ma questo significa che io ho perso la fiducia in tutta l’umanità? Assolutamente no” [...]» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 15/1/2005).