Varie, 7 marzo 2002
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Wilder Billy
• Sucha (Polonia) 22 giugno 1906, Beverly Hills (Stati Uniti) 28 marzo 2002. Uno dei più grandi registi della storia del cinema. «Pochi lo sanno, ma il vero nome di Wilder era Samuel: fu la madre Eugenia a soprannominarlo Billy, perché aveva visitato gli Stati Uniti e si era innamorata del personaggio di Buffalo Bill. E per lui, che era riuscito a scappare dalla Germania nazista prima che la persecuzione degli ebrei diventasse politica del regime, quel soprannome è rimasto per tutta la vita come un ricordo dolce e doloroso allo stesso tempo: la madre amatissima morì con la nonna e altri membri della famiglia ad Auschwitz. Appena un anno fa aveva confessat […] Era scappato dalla Germania con la moglie Judy Coppicus, da cui aveva avuto due figli, Victoria e Vincent. Fu un lampo di genio quello di non rifugiarsi in Austria, come altri ebrei fecero, di fatto rimanendo intrappolati e condannati alla deportazione nei campi di concentramento. Billy e Judy riuscirono a raggiungere Parigi, e da lì il Messico, e infine gli Stati Uniti. All’inizio fu una vita difficile, e il matrimonio ne risentì subito. Nel 1948 la coppia divorziò, e l’anno dopo Billy si sposò con Audrey Young, un’attrice incontrata agli studios della Paramount: le comprò un anello finto a una bancarella, e si sposarono con una piccola cerimonia privata. Da allora non si sono mai più separati. […] Nessuno era più americano di lui, eppure era nato a Sucha, Austria (oggi Polonia), nel 1906, in pieno crepuscolo mitteleuropeo. Nessuno salvo forse Lubitsch, per cui non a caso lavorò come sceneggiatore, era più bravo nella commedia. Eppure il regista di gioielli purissimi come A qualcuno piace caldo e Quando la moglie è in vacanza sapeva fare praticamente tutto, come tutti i grandi di Hollywood. Difatti ci ha lasciato almeno un caposaldo del ”noir” (La fiamma del peccato); incantevoli commedie sentimentali come Arianna e Sabrina (solo apparentemente sentimentali); e capolavori fuori da ogni schema come Viale del tramonto, un melodramma costruito come un noir che resta forse il più coraggioso autoritratto mai tentato da Hollywood. Per non parlare di lavori che oggi diremmo ”di denuncia” come L’asso nella manica, padre di tutti i film sulle aberrazioni dei media. Che prima di passare alla storia scioccò l’America e costò al suo autore il primo e non ultimo voltafaccia del suo suscettibile paese d’adozione. Perché quell’austriaco che non si perdeva una partita di baseball ma dopo tanti anni strascicava ancora le parole come un suddito di Francesco Giuseppe, era fatto così. Lavorava ”dentro” la fabbrica dei sogni, e lo sapeva. Seguiva tutte le regole, praticava tutti i generi, usava sempre i divi più famosi e pagati del momento. Ma se aveva qualcosa di traverso non lo mandava a dire. Se lo poteva permettere, per capacità artistiche e per storia personale. Ebreo di famiglia benestante, nel 1926 si era trasferito a Berlino per fuggirne nel 1933, dopo l’incendio del Reichstag. Nel frattempo però aveva fatto di tutto: il giornalista, il ballerino, il gigolò, lo sceneggiatore (di un altro film che farà storia: Menschen am Sonntag di Robert Siodmak). E in futuro se ne sarebbe ricordato se portano la sua firma almeno due grandi film sul giornalismo, il già citato L’asso nella manica e l’irresistibile Prima pagina (che peraltro deriva da una commedia anni 20 di Ben Hecht portata più volte sullo schermo). Ma soprattutto Wilder, che nelle redazioni berlinesi mise anche a segno diversi scoop (celebri le interviste a Freud, Schnitzler e Richard Strauss), aveva maturato un bagaglio di esperienze e un senso d’osservazione che negli anni americani ne avrebbero fatto un impareggiabile costruttore di storie. Dopo un breve passaggio a Parigi (dove nel 1933 firma la sua prima e non trascurabile co-regia: Mauvaise graine, cioè Amore che redime) Wilder approda infatti negli Stati Uniti seguendo come tanti prima e dopo di lui la classica rotta Vienna - Berlino - Hollywood. Per il momento si chiama ancora Billie, non Billy. Ma nel giro di pochi anni americanizza nome, abitudini e sguardo. Portando in dote a Hollywood il suo patrimonio più squisitamente europeo, e cioè la cultura (è già un raffinato collezionista d’arte), la leggerezza, il gioco delle identità e dei travestimenti. Insieme all’acre consapevolezza dell’immigrato che, per quanto perfettamente integrato, resta consapevole delle regole del gioco, regole del tutto naturali dunque invisibili per molti americani, e all’occorrenza le smonta senza riguardi. E’ questo gusto irriverente e molto viennese che ritroviamo già nelle sue prime sceneggiature per Lubitsch, (Ninotchka e L’ottava moglie di Barbablù), per Hawks (Colpo di fulmine) e per Mitchell Leisen (La signora di mezzanotte, La porta d’oro). Ed è quello stesso gusto che lo porta a debuttare nel ’42 con una commedia davvero maliziosa, Frutto proibito, che vede il maggiore Ray Milland innamorarsi di una Ginger Rogers travestita da bambina, con conseguenti turbamenti e sensi di colpa nel rispettabile militare costretto dalle circostanze a scortare quella mocciosa inspiegabilmente sexy. Il buongiorno si vede dal mattino e si capisce già che Wilder non sarà tenero con i tabù e le ipocrisie del suo nuovo paese. Si tratti di passare al setaccio le spietatezze di Hollywood come farà nel tardo e controverso Fedora, oltre che in Viale del tramonto, o le aberrazioni della trionfante società di massa (L’appartamento ma anche, in chiave più leggera, Quando la moglie è in vacanza), Wilder prenderà a bersaglio tutti miti e le contraddizioni dell’America del’900. Il sesso, il successo, la carriera, i media, l’identità stessa, rovesciata e sovvertita in tutti i modi in quel capolavoro di commedia ”en travesti” che è A qualcuno piace caldo. Ma anche il dissidio insanabile fra America e Europa si ritrova al centro di molti dei suoi film, da Scandalo internazionale a Arianna e Sabrina, da Un, due, tre a Cosa è successo tra tuo padre e mia madre?, dove gli americani vengono regolarmente trasformati, talvolta migliorati dall’incontro quasi sempre traumatico con il modo di vivere europeo. Tutti, invariabilmente, disegnati con quel tratto netto e rotondo che era forse la sua caratteristica più peculiare. Quasi che quell’austriaco dallo sguardo caustico fosse una specie di Norman Rockwell rovesciato, un cantore dell’America profonda che dietro il bozzetto lasciava indovinare voragini di disagio personale o sociale. Ed ecco una galleria di personaggi indimenticabili: Ray Milland alcolizzato in Giorni perduti, Barbara Stanwyck dark lady definitiva in La fiamma del peccato, Shirley McLaine prostituta parigina di Irma la dolce, naturalmente Jack Lemmon e Tony Curtis travestiti in A qualcuno piace caldo. Ancora Lemmon impiegato innamorato e frustrato ne L’appartamento. Per non parlare di Marilyn Monroe, che trovò in Wilder forse il suo regista migliore, prima in Quando la moglie è in vacanza, poi nell’inarrivabile A qualcuno piace caldo. E si potrebbe continuare con James Cagney manager gangsteristico in Uno, due, tre. Con Gloria Swanson, Buster Keaton e Stroheim pietrificati, icone di se stessi, in Viale del tramonto, e via discorrendo. In questi mesi si è detto è ripetuto che il nuovo millennio è cominciato davvero con l’11 settembre» (Fabio Ferzetti, ”Il Messaggero” 29/3/2002).