Varie, 7 marzo 2002
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Wojtyla Karol
• Wadowice (Polonia) 18 maggio 1920, Roma 2 aprile 2005. Papa Giovanni Paolo II, fu eletto Il 16 ottobre 1978 all’ottavo scrutinio. Durante la guerra lavorò come operaio in una cava e in una fabbrica chimica per evitare di combattere con i nazisti. In quegli anni fondò un teatro clandestino di resistenza culturale. Nel 1942 iniziò gli studi in preparazione al sacerdozio. Ordinato ecclesiastico a Cracovia nel novembre 1946, la sua nomina a vescovo risale al 1958 e nel 1964 assunse la carica di Arcivescovo di Cracovia. Paolo VI lo creò Cardinale il 26 giugno 1967. «Anticapitalista e antiprogressista, fu però fatto papa proprio dai cardinali ”liberi” dei paesi ricchi. Dopo sei scrutinii andati a vuoto in un testa a testa tra i candidati italiani Giuseppe Siri e Giovanni Benelli, a lanciare il cardinale polacco furono l’austriaco Franz Koenig e l’olandese Bernhard Alfrink, subito appoggiatti dai porporati nordamericani e tedeschi e, per l’Italia, dal supernovatore Michele Pellegrino. Altri due scrutinii ed era fatta. Votano per lui 99 cardinali su 111. Alle 19.35 di lunedì 16 ottobre 1978 il neoeletto si affaccia alla loggia di San Pietro e dice: ”Io ho avuto paura di ricevere questa nomina”» (Sandro Magister, ”L’Espresso” 22/10/1998). «Era il 16 ottobre 1978, qualche ora prima della fumata bianca, quando il Primate di Polonia Stefan Wyszynski gli si avvicinò e disse: ”Se ti scelgono come Papa, ti prego, non rifiutare”. Wyszynski avvertiva evidentemente che stava per compiersi un fatto eccezionale nella storia della Chiesa. Sentiva che il Cardinale da lui protetto, Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, allora soltanto cinquantottenne, sarebbe stato il primo non italiano elevato al pontificato dopo 455 anni. E così fu. Giovanni Paolo II quel giorno divenne il primo Papa polacco e slavo. La slavità sarà una delle caratteristiche destinate a lasciare un segno profondo e peculiare nella storia della Chiesa cattolica novecentesca, dell’Europa, in particolare dell’Europa comunista e del mondo. Sui venticinque anni del dirompente pontificato di Karol Wojtyla, uno dei più lunghi dopo quello di Pio IX, è stato detto quasi tutto e il contrario di tutto. Si è parlato del potente impulso missionario, mediatico, universalistico, dato da questo Papa comunicatore alla restaurazione e alla diffusione della cristianità nei cinque continenti. Si è polemizzato con la reimposizione dei dogmi più conservatori della Chiesa, la quale però, tramite encicliche e messaggi dello stesso Wojtyla, chiedeva contemporaneamente perdono alla ripudiate confessioni scismatiche e ai grandi eretici da Giordano Bruno a Galileo. Ma forse non si è prestata la dovuta attenzione storica e culturale al grande impatto che il Papa ha prodotto sul mondo slavo e in particolare sulla nazione polacca da cui egli stesso proviene. ”La Polonia - ripeteva insieme col Cardinale Wyszynski - è stanca di essere il Cristo delle nazioni”. E proprio dalla sua Polonia, epicentro con Solidarnosc e con Walesa di un terremoto epocale, doveva iniziare nel segno della Madonna Nera quel grande sisma destinato a far crollare l’impero comunista nella sua duplice versione, sovietica ed eurasiatica da un lato, centroeuropea dall’altro. Per comprendere più a fondo, prima ancora del Pontefice, il ”robusto montanaro” di Wadowice bisogna risalire infatti alla sua matrice etnica e geografica. Figlio di padre polacco e madre ucraina, egli si presenta, al Vaticano e al mondo, con una sua intensa e poliedrica slavità che scientemente e orgogliosamente traboccherà in una sorta di fiume ecumenico dove non si riuscirà quasi più a distinguere con nettezza la linea di demarcazione tra cattolicità d’Occidente e ortodossia d’Oriente, tra san Benedetto e i santi Cirillo e Metodio. La coincidenza millenaria fra slavità e cristianità sembra molto più importante, per Wojtyla, che la formale e sofistica dissidenza scismatica tra Roma e Bisanzio. Indubbiamente egli si erge a difensore d’urto della slavità cattolica polacca minacciata dal comunismo, così come, dopo il crollo del Muro, si ergerà a protettore della cattolicità degli sloveni e dei croati minacciati dallo sciovinismo serbo: qui, egli mostrerà di essere uomo di pace ma non un pacifista retorico, e infatti giustificherà il diritto dei cattolici slavi aggrediti, e perfino dei musulmani di Bosnia, alla guerra di difesa contro l’aggressore. Questo però non impedirà a Wojtyla di riconsiderare il popolo slavo nel suo complesso, dalla Mitteleuropa postcomunista agli Urali, come un nuovo popolo eletto, erede del popolo d’Israele, strumento divino della rievangelizzazione dell’intera Europa inquinata dagli aspetti deteriori della secolarizzazione e dall’edonismo consumistico. Nella visione di una seconda evangelizzazione europea, nuovamente in marcia dall’Oriente, il pastore di Cracovia si unisce in un dialogo a più voci con i grandi mistici, poeti e profeti polacchi e russi, da Brodzinski a Mickiewicz, da Dostoevskij fino a Solzenicyn. Non a caso le severe esortazioni morali che, nella fase d’inquinamento ultracapitalistico dopo il comunismo, Wojtyla rivolge ai polacchi, hanno quasi lo stesso contenuto e lo stesso timbro d’allarme dei messaggi che Solzenicyn lancia ai russi. L’idea visionaria che la cristianità slava, salvando se stessa, dovrà nel contempo salvare e nobilitare ”l’Europa dello spirito”, non è certamente nuova. Quel che è nuovo è il tono postmoderno di Giovanni Paolo II, tono a suo modo militante e paneuropeo, simile all’appello e alle speranze messianiche già echeggiati nelle parole e negli scritti degli slavofili russi. Infine nuovissimo, storicamente eccitante e straordinario, è che tale appello salvifico si levi addirittura dalla Prima Roma cattolica invece che dalla Terza Roma ortodossa. Sono le vie imperscrutabili del Dio un po’ hegeliano che Giovanni Paolo II conosce bene come filosofo, come teologo e, soprattutto, come politico missionario e carismatico. La stessa Roma cattolica subirà comunque l’urto innovativo e dinamico di un Papa anticonformista, che soffre e si divincola fra le strettoie burocratiche della Curia italianizzata e gerarchizzata. Con la sua imprevedibile mobilità, la sua spregiudicatezza antiprotocollare, egli infliggerà duri colpi alla piramide curiale del Vaticano. Papa più di missione che non di governo, Giovanni Paolo II non si curerà molto della Curia romana e dei suoi meccanismi, preferendo delegare ai collaboratori la gestione di questa ”macchina” di antichissima e pietrificata tradizione. [...] lo tortura certamente il pensiero di non essere riuscito a portare a termine il massimo obiettivo della sua milizia apostolica: la riconciliazione di Roma cattolica con Mosca ortodossa. Il sogno della fine del grande scisma, devastante soprattutto per il mondo slavo (come si è visto nei reiterati scontri tra russi e polacchi e tra croati e serbi), resterà ancora per molto tempo un sogno nobile ma non coronato dalla realtà. Il grande slavo renderà la sua anima a Dio con la gioia di essere riuscito a spingersi fino a Kiev, e col rimpianto di non essere riuscito ad officiare accanto al Patriarca Alessio il servizio divino nella Cattedrale di San Basilio a Mosca» (Enzo Bettiza, ”La Stampa” 11/10/2003). «Fu eletto perché non aveva la faccia da prete. Si salvò perché la pallottola di un killer tiratore scelto fu misteriosamente deviata. E´ il pontefice che ha reinventato il papato. Karol Wojtyla, al venticinquesimo anno di regno, è il terzo papa più longevo in duemila anni di cristianesimo. Nessuno, tranne il profetico cardinal Wyszynski, poteva mai immaginare che avrebbe condotto la Chiesa nel terzo millennio. Nessuno, soprattutto, avrebbe creduto che questo papa scelto perché vescovo, venuto dalla Polonia, estraneo ai labirinti della Curia, avrebbe rifondato il papato dandogli una proiezione planetaria che mai aveva avuto. Wojtyla ha intuito la globalizzazione quando ancora il termine non era moneta corrente. Ha capito che il destino di un Papa e la sorte della Chiesa cattolica si potevano giocare soltanto raggiungendo una visibilità planetaria. I suoi cento e più viaggi, che lo hanno portato in ogni angolo del mondo, sono stati l´espressione di una lucida strategia. Tolta la frenesia del circo mediatico, che lo ha seguito in crescendo, è rimasta l´opera di un tessitore instancabile che ha trasferito ”il Papa di Roma” e la sua potenza simbolica in ogni stadio, piazza, aeroporto delle nazioni dove si è presentato. Convinto che il suo pulpito non poteva più essere una scrivania vaticana, è andato lui stesso a incontrare nei cinque continenti i diseredati e gli intellettuali, i politici e la gioventù, i fedeli cattolici e i seguaci delle altre religioni. Il Papa romano in visita al patriarca buddista di Bangkok, in meditazione nella moschea di Damasco, in preghiera davanti al Muro del Pianto, dinanzi alla tomba di Gandhi o contornato dagli indiani d´America è l´immagine di chi si slancia verso il mondo perché ha molto da dire, perché si sente "dentro" il mondo e capace di pronunciare parole che toccano i contemporanei. Certamente ha suscitato - e non poteva essere altrimenti - critiche, dissensi, contestazioni, però anno dopo anno si è imposto come interlocutore. Divorzio e contraccezione sono le sue battaglie perse, non reggono i suoi veti contro le leggi sull´aborto o le coppie di fatto né il ripudio dell´omosessualità né l´esclusione delle donne dal sacerdozio. Eppure in una società affascinata dal pensiero debole Giovanni Paolo II ha portato caparbiamente il discorso sui valori e le relazioni, sulla fede e la ragione, sul fine ultimo delle strutture politiche ed economiche. Il fatto stesso che si sia ipotizzato per lui il Nobel, il più laico dei premi, è segno di quanto la sua persona si sia radicata sulla scena contemporanea. Giovanni Paolo II ha trasformato il papato. Prima di lui, i romani pontefici erano capi della Chiesa cattolica, al massimo personalità eminenti del mondo cristiano. Con Karol Wojtyla il Papa di Roma è diventato portavoce dei diritti umani, ”coscienza dell´umanità allo stato puro”, ha detto poeticamente il cardinale Roger Etchegaray, superando le frontiere geografiche, politiche e culturali. Infinite sono le volte in cui nei suoi viaggi e interventi ha dato voce ai disperati della terra, all´anelito di sviluppo delle nazioni povere, ai diritti dei deboli nelle società opulente, al senso di responsabilità che deve animare chi ha più potere politico ed economico. E´ lui che oggi, di fronte alle tentazioni di onnipotenza dell´unica superpotenza rimasta, difende il principio che il mondo va considerato una ”comunità di nazioni” con regole ed istanze di arbitraggio condivise e non un´arena di gladiatori. Avvocato della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II ha difeso e difende i diritti anche di quella famiglia speciale che sono le nazioni e gli stati. Ieri nella lotta contro il partito-padrone di stampo sovietico, oggi nel contrastare il capitalismo selvaggio diffusosi dopo il crollo del Muro. La sua credibilità ha una radice precisa. Il misticismo e l´intensa preghiera. Chi lo ha visto pregare da vicino non dimenticherà mai il suo trasfigurarsi nella ricerca intima del suo Dio. Nella stagione dell´indifferenza ha mostrato che la fede è qualcosa di vivo, che interpella l´esistenza, e non un residuo del passato. Anche da chi non è praticante o segue altre fedi Karol Wojtyla è percepito come ”uomo di Dio”. Per questo ha potuto lanciarsi in imprese con cui nessun pontefice romano si era mai misurato. Il solenne mea culpa pronunciato in San Pietro nell´anno giubilare, atto di penitenza per gli errori e gli orrori commessi dalla Chiesa cattolica nei secoli. E le grandiose assemblee di preghiera ad Assisi con i capi delle più varie religioni. Su suo impulso risuona oggi un nuovo comandamento, che rovescia i fondamentalismi: uccidere in nome di Dio, pretendere di abusare del suo nome per seminare morte e violenza, è un peccato e una bestemmia. ”Non morirò del tutto”, ha confidato serenamente agl´intimi [...] citando un´ode di Orazio. Pochi sanno che il poema ha un incipit fulminante: ”Ho eretto un monumento più durevole del bronzo...”. La zampata d´orgoglio di un pontefice già diventato storia» (Marco Politi, ”la Repubblica” 13/10/2003). «Wojtyla campione dell´anticomunismo ed eversore dell´impero sovietico. Wojtyla critico del capitalismo, icona del pacifismo, contraddittore della superpotenza americana. La stessa persona, lo stesso papa, due incarnazioni geopolitiche apparentemente opposte. Eppure, a ben guardare, nella parabola geopolitica di Giovanni Paolo II c´è più coerenza di quanta se ne possa subito percepire. La coerenza di chi vuole essere capito dal di dentro, non dal di fuori. Consapevole dei privilegi e dei limiti di un potere spiritualmente pervasivo quanto mondanamente irresponsabile. Il primo Wojtyla coincide con la crisi terminale dell´Unione Sovietica e con l´avvento alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan. Due uomini profondamente diversi, ma uniti nella convinzione che il comunismo sia intrinsecamente fragilizzato dal ripudio della dimensione trascendente che è in ognuno, prima che da errori e orrori del sistema. A Washington e a Roma si issa quasi contemporaneamente, negli anni Ottanta, il vessillo della riscossa. Non si tratta di contenere il comunismo, ora si può rovesciarlo. C´è molto di religioso e di apocalittico nell´anticomunismo di Reagan, convinto di potere e dovere convertire i sudditi di Mosca alla "vera fede" – quella nei valori americani/universali di libertà e democrazia. E c´è molto di geopolitico e di strategico, oltre che di profondamente patriottico, nel sostegno – coordinato con gli americani - del papa polacco a Solidarnosc e ai movimenti che nell´Est si apprestano a dare l´ultima spallata al fatiscente edificio imperialcomunista. Per consentire così all´Europa di "respirare con i suoi due polmoni", come ama ripetere Giovanni Paolo II. Sino a poco tempo fa, pareva che nei libri di storia questo papa fosse destinato ad essere classificato come il liquidatore dell´impero sovietico, il liberatore della Polonia e degli altri paesi oppressi dal tallone sovietico. Forse si è esagerato il suo ruolo nell´abbattimento del Muro, frutto dell´effetto combinato dell´offensiva reaganiana e delle pulsioni suicide dei vertici sovietici - oltre che dell´inettitudine di Gorbaciov, partito per riformare l´Urss e ridotto a presiedere al suo smantellamento. Ma senza il papa polacco, il processo sarebbe stato meno tumultuoso e non esibirebbe lo stigma di un cambiamento d´epoca non solo geopolitico ma anche spirituale. Contrariamente alle aspettative di molti, il secondo Wojtyla non si è pero assoggettato al compito di benedire la bandiera dei vincitori. Per lui, la caduta del comunismo era appunto un evento anzitutto spirituale. Non comportava l´adesione al modello di vita americano, tantomeno l´esaltazione del capitalismo trionfante. La sconfitta dell´Est non doveva ridursi a vittoria dell´Ovest. L´idea di una sola superpotenza, capace di dettare i suoi voleri e la sua cifra esistenziale al resto del mondo, non poteva essere accettata dal capo della Chiesa cattolica, dunque universale. In termini geopolitici, questo approccio si traduceva nel rifiuto di costruire nuovi Muri, persino più divisivi del Muro di Berlino. Stavolta non contro il comunismo, ma contro l´islam. L´11 settembre ha misurato la distanza fra America e Chiesa romana nella visione del mondo. Mentre il presidente degli Stati Uniti attingeva alla retorica della crociata contro il terrorismo islamico, il papa di Roma evitava ogni riferimento allo "scontro di civiltà". Anzi, si preoccupava di mostrare la propria avversione per la teoria della guerra preventiva e per la pratica della guerra all´Iraq; non ultimo, per il tono clericale con cui a Bush è capitato di propagandarla. Di papa ne basta uno. Molti in Vaticano sono convinti che lo scandalo degli abusi sessuali compiuti da preti americani sia una perfida risposta della leadership Usa alle critiche di Wojtyla, che in questi anni hanno investito le scelte politiche e morali della superpotenza a stelle e strisce. Sicuramente non è così. Ma la reciproca incomprensione e diffidenza fra Casa Bianca e Chiesa cattolica resterà il lascito geopolitico più controverso di questo papato. Controverso persino nello stesso corpo ecclesiastico. Il giorno in cui a San Pietro abiterà un uomo meno carismatico, questa ed altre crepe che incrinano la facciata di Santa Romana Chiesa appariranno nella loro profondità. Così forse scopriremo nell´irripetibile antimodernità di Wojtyla il filo rosso del suo papato» (Lucio Caracciolo, ”la Repubblica” 12/10/2003). «Quando Stalin a Potsdam, 1945, pronunciò la sua famosa battuta (ammesso che l´abbia davvero pronunciata): ”Quante Divisioni ha il Papa?”, poté contare su una vasta e consolidata ammirazione. Che la ragione stia dalla parte della forza, e che la forza, quando sia schiacciante, faccia a meno della ragione, era un luogo comune del pensiero politico, e Stalin l´aveva solo spinto allo stremo. Lungi dal sollevare lo scandalo che merita il cinismo, il motto suscitava l´entusiasmo degli stalinisti (e l´invidia degli antistalinisti) che si compiacevano di disporre del più immane numero di Divisioni che la storia avesse conosciuto, e dell´arguzia del Capo. Il Papa era un facile zimbello, e con lui l´idea che una qualunque ragione possa valere senza la forza. Senza quel sarcasmo tracotante (e peraltro in tempi in cui il Papa assoldava i suoi battaglioni) Machiavelli aveva sentenziato che sempre ”tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno”. La bravata di Stalin avrebbe fatto i conti con la superiorità militare dell´America – nei giorni di Potsdam esplodeva la bomba a Los Alamos, e subito dopo a Hiroshima e Nagasaki - ma restava come il motto essenziale, pur vinti i fascismi, di una concezione del mondo fondata sulla venerazione della forza e sul culto dell´apparato. La mostruosa approvazione che bravi comunisti di tutto il mondo continuarono a devolvere ai carri armati sovietici mandati a schiacciare i popoli fratelli aveva lì la sua radice. Tutto ciò è durato fino a Giovanni Paolo II. Con lui sono successe – per la prima volta - due cose. Che un profeta disarmato ha vinto. E che l´ammirazione per la forza è stata mortificata. (Era successo al Mahatma Gandhi, con lo straordinario acquisto dell´indipendenza dell´India, ma al costo spaventoso del milione di morti e dei milioni di profughi nella divisione fra hindu e musulmani). Questo è, a qualunque fede religiosa o irreligiosa si appartenga, il bilancio indiscutibile della prima parte del pontificato di Karol Wojtyla. Bastarono i nove giorni del giugno 1979 polacco – la data del suo primo viaggio da Papa - ad annunciare e anticipare il 1989 berlinese. Furono gli anni del Papa giovane, atletico, agonistico. E, all´inizio, misconosciuto. I capi dell´impero sovietico, e gli stessi capi polacchi, non seppero immaginare che cosa stesse per investirli: in passato si erano addirittura figurati di trovare nel vescovo Wojtyla una figura più distratta e malleabile che non il vecchio e intransigente Wyszynski. C´è un bell´aneddoto (ce ne sono a bizzeffe) su Wojtyla, già cardinale, fermato sui Tatra dalle guardie mentre sciava. Il poliziotto: ”Stupido, ti rendi conto a chi hai rubato i documenti? Starai al fresco per un bel po´”. ”Ma sono davvero io”. ”Un cardinale che scia? Mi prendi per scemo?”. Il Cremlino delle Divisioni e i sottocapi del regime di Varsavia si comportarono poi più o meno con la stessa incredulità delle guardie di frontiera. Un Papa non butta giù la cortina di ferro: mi prendi per scemo? Del resto, anche qui da noi non mancarono i sarcasmi su quanti sci avesse il Papa... Una volta che gli chiesero se fosse sconveniente sciare, rispose: sciare male sì. Anche fare politica male. Giovanni Paolo II ha avuto dalla sua, oltre alla tempra personale, due circostanze decisive: di essere nato nel 1920, e di essere nato in Polonia. Si stenta ad ammettere fino a che punto la Polonia sia stata l´incrocio fatale della storia del Novecento, dalla guerra patriottica contro l´Urss del 1920 che segnò la fine dell´esportazione della rivoluzione bolscevica, all´occupazione nazista a quella sovietica, da Auschwitz a Solidarnosc – e fino alla propaggine di quella storia nella tragedia israelo-palestinese. Di quella vicenda, protratta fin dentro il nuovo millennio e le sue nuove guerre, Wojtyla è stato testimone e protagonista singolarissimo. Della Polonia spaccata fra polacchi cattolici e polacchi ebrei. Di Auschwitz. Di Varsavia insorta e distrutta dai nazisti mentre l´Armata rossa segnava il passo sull´altra sponda della Vistola. Delle Divisioni del Patto di Varsavia. Dei piani quinquennali. Quando in buona parte del mondo si pensava che essere di sinistra volesse dire aver fede nei piani quinquennali, nella pianificazione socialista, o in subordine in qualche programmazione democratica, il vescovo Wojtyla predicava ”il programma eterno tracciato da Dio”. L´unico programma, diceva, è il Vangelo. Prediche, appunto, cose dell´altro mondo. Volete mettere il Vangelo con i piani quinquennali? Anche solo per frequentare il Vangelo, sotto l´occupazione nazista tanti preti polacchi avevano operato in clandestinità. Il cardinale Wyszynski aveva il suo nome di battaglia: "Suor Cecilia"... Sotto il regime comunista, continuarono a operare in clandestinità, e magari ad andare in galera. Era, rispetto alla sinistra occidentale, il mondo alla rovescia. Alla periferia di Cracovia era stata costruita una grande città operaia, Nowa Huta: l´unica pianificata senza chiese. Se la presero, la chiesa. La costruirono su una pietra donata dalla tomba di San Pietro, ci aggiunsero un frammento di roccia lunare donato da un astronauta americano. Il Crocefìsso però lo fabbricarono in acciaio gli operai delle acciaierie Lenin. Tutto andava alla rovescia. Da noi essere di sinistra voleva dire contrapporre alla carità la solidarietà. Là, quando arrivarono gli operai dei cantieri di Danzica, avevano la Madonna nera di Jasna Gora all´occhiello e si chiamavano Solidarnosc. La sinistra che da noi aborriva il comunismo sovietico come una spietata dittatura e un infame tradimento della speranza rivoluzionaria si era rassegnata a disperare della possibilità di rovesciare la sua potenza repressiva. La stessa diplomazia vaticana – la Ostpolitik di Paolo VI, Casaroli e Silvestrini - era orientata dalla persuasione che la dittatura comunista fosse inespugnabile, e che, con tutto il rispetto per i dissidenti, non si potesse che battersi contro il capitalismo "democratico", per misurarsi poi da lì con la fortezza socialimperialista. Sembra grottesco, ma era così. Se avessimo letto i discorsi del vescovo di Cracovia (lui però leggeva i testi marxisti, quelli del regime e quelli dei dissidenti: nel conclave dal quale venne eletto si era portato una rivista comunista) li avremmo trovati belli o brutti, ma certo fuori del tempo e privi di ogni rilevanza politica. Che rilievo politico ha il pensiero che la libertà debba essere ”vincolata alla bontà”? Alla bontà. Che rilievo politico può avere l´insistenza ossessiva nella esortazione – evangelica, appunto: ”Non abbiate paura”? L´umanità deve imparare a non avere paura. Bisogna nutrire la speranza e la fiducia. Bisogna vivere liberi dalla menzogna e dalla paura. E, quanto ai giovani: ”Abbiate paura soltanto della leggerezza e della pusillanimità». Non che alle nostre sinistre mancassero gli slogan su questa rima ("Lotta dura senza paura"...) ma rischiavano di essere un modo di eludere quell´emozione piuttosto che affrontarla. Può darsi che ci vergognassimo di aver paura. Che rilievo politico può avere l´insistenza sul dono di sé? Prediche, appunto, salvo quando l´educazione al terrorismo suicida riproponga i due modi opposti di pensare all´idea di martirio: il sacrificio di sé contro il sacrificio degli altri. Che festa era più bella del Primo maggio per noi? In Polonia molte persone perbene si rifiutavano di partecipare alle manifestazioni ufficiali e forzate (e per giunta militaresche) del Primo Maggio. E così via. La seconda parte del pontificato di Giovanni Paolo II, segnata dalla ferita, dalla malattia, dalla vecchiezza, sembra percorrere al contrario l´itinerario vittorioso della prima. La debolezza del Papa non è meno agonistica – agone, altra parola ambigua - ma il suo torna a essere l´appello del profeta disarmato e inascoltato dei perdoni e della pace. In tanta parte del mondo terzo il fanatismo religioso e terrorista ha riportato la cristianità a un´epoca di persecuzione e di martirio. Sulla scala del pianeta il primato della forza armata – quella delle Divisioni, il suo equivalente tecnologicamente aggiornato - è sempre più passato dalla parte dell´America. Potrebbe capitare oggi a Bush e ai suoi consiglieri di lasciarsi sfuggire una domanda arrogante come quella: ”Quante Divisioni ha il Papa?”. Ma questa volta il Papa non padroneggia il gioco. Al contrario, sente la speranza sfuggirgli. Anche nella sua Polonia: diventata il più "americano" dei paesi di un´Europa che non accetta di accogliere la propria ascendenza cristiana in un superfluo preambolo. Non voglio essere irriverente, ma se si seguisse fino in fondo l´analogia, ci si aspetterebbe dallo Spirito Santo che scegliesse in un futuro conclave un Papa americano – degli Stati Uniti, intendo. Certo, la chiesa cattolica non è mai stata così debole e screditata negli Usa, ma un Papa giovane forte integerrimo e per così dire "antiamericano" scelto nel clero americano, che emulasse (mutato quasi tutto, lo so) il ruolo del Papa polacco nei confronti dell´impero comunista, sarebbe un vero colpo di scena. So anche che la Provvidenza non segue disegni umani, essendo il nome che i credenti danno all´eterogenesi dei fini, cioè alla deviazione e allo scacco cui sono destinate le nostre intenzioni. Del resto l´America è il paese miracoloso in cui poco fa un uomo si è svegliato da diciannove anni di coma, e ha chiesto una Pepsi. Potrebbe succedere anche in Polonia» (Adriano Sofri, ”la Repubblica” 12/10/2003). «C’è una parola che riappare a intervalli regolari, nel pontificato di Giovanni Paolo II, ed è forse la più misteriosa. E’ stata l’orma che egli ha lasciato sui venticinque anni trascorsi da quando gli furono affidate le chiavi di Pietro. E’ stata la sua promessa, il suo dono, la sua disciplina anche in quest’ultimo scorcio di sacerdozio che è così teso nello sforzo di continuare a esserci, di continuare a patire. La parola è: soglia. Tutto sta a vivere sulla soglia, ha detto [...] nel poema intitolato Trittico Romano. Il primo fu Abramo di Ur, che varcò il limine per andare incontro a Dio e per amarlo più ancora di quanto amasse Isacco, il proprio figlio. Abramo abbandonò le sue terre, fra il Tigri e l’Eufrate, e con lui cominciò tutto: la ricerca nomade del Dio unico, il duro confrontarsi con le sue infinite lontananze, con le sue inattese vicinanze. ”Se oggi percorriamo questi luoghi, da cui, tempo fa, era partito Abramo, dove aveva udito la Voce, dove si era compiuta la promessa, solo perché potessimo fermarci sul limine... per attingere al principio dell’Alleanza” così nel Trittico. Fermarsi sul limine vuol dire scrutare dentro di sé le radici dell’Alleanza: alleanza di Dio con il popolo d’Israele, poi incarnazione in Gesù, poi profezia di Maometto. Fermarsi sul limine è mettersi in attesa, esporsi alla visione e anche al dolore della visione. Il Verbo stesso è soglia, la Bibbia stessa è ”soglia che aspetta una sua immagine, un suo Michelangelo”. Stiamo sulla soglia del Libro, dice ancora il Papa, allo stesso modo in cui sostiamo, ”passando dallo stupore allo stupore”, davanti agli affreschi della Cappella Sistina che raffigurano il Giudizio divino: ”Bisogna che Michelangelo insegni al popolo”. Bisogna ritrovare quella capacità di stupirsi, che è alla base della fede come anche della ragione. Il Papa stesso, con il suo carico di fatica e sofferenza, vive da molto tempo sulla soglia. Questo è il suo modo di durare, che le telecamere scrutano quasi ogni sera, impietose anche quando sono devote. Il Papa è sulla soglia tra l’esistere e lo svanire. Da quel limine contempla le visioni che si fanno bellezza, in Michelangelo. Da quel limine ricorda i versi dell’amato Orazio, guardando il mondo con quella che Pietro Citati chiama la ”sorridente saggezza della Chiesa cattolica”: Non omnis moriar, ha detto ad alcuni amici. Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam - Non morirà tutto di me, e gran parte di quel che sono eviterà la funebre Dea. [...] Forse è un bene che non abbia ricevuto il premio Nobel della pace. Che il suo sostare sull’orlo dell’essere sia così solitario, spoglio di spettacolari riconoscimenti esterni. Ci assomiglia ancora di più, in questa sua solitudine. Ci fa vedere le segrete forze dell’impotenza: ”Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è proprio allora che sono forte” (Paolo , lettera ai Corinzi II, 12: 10). Dice ancora il Pontefice nel Trittico: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius. Tutto è nudo e aperto dinanzi agli occhi di Lui. In questi venticinque anni, il Papa polacco è stato più volte sull’orlo di divenire kathekon del mondo, unico riordinatore e imbavagliatore del male dotato di autorità globale. Non vi è riuscito sempre, e forse è qui la sua grandezza. Non ha riordinato cristianamente il mondo, perché sotto il suo pontificato si è addirittura accentuato il distacco della Chiesa dal potere temporale-politico, e questo nonostante la sua immensa, personale influenza politica. Già Paolo VI e Giovanni XXIII avevano detto che la perdita del potere temporale era stata evento provvidenziale, nella storia della Chiesa: l’aveva costretta a concentrarsi sulle cose dell’anima, sul potere spirituale, e molto più sull’uomo interiore che su quello esteriore. Giovanni Paolo II ha ancor più dilatato questa vocazione relativamente nuova del cristianesimo romano, facendosi pellegrino nel mondo e congedandosi dall’identificazione della Chiesa con le nazioni o con le guerre religiose. Ha dimostrato di essere una lampada di luce per le altre fedi, sia quando visitò Israele sia nelle terre musulmane. L’uomo interiore cui ha dedicato tanta sua cura ha finito col divenire lo spazio laico all’interno del quale cristianesimo, ebraismo e Islam potevano pregare insieme per la pace, a Assisi, sotto lo sguardo d’un Papa romano. Anche la sua opposizione alla guerra americana in Iraq andava in questo senso. In nome di Dio non erano ammesse né guerre, né azioni condotte da nazioni o religioni elette. In nome di Dio si poteva solo dire il mea culpa, per il male arrecato all’uomo interiore. Il Papa che infila un bigliettino nelle fessure petrose del Muro del Pianto, a Gerusalemme, simboleggia questo agire all’insegna della colpa e della giustizia, della responsabilità e della domanda di perdono. Se la guerra in Iraq e la caduta di Saddam sono rimaste un evento politico-strategico, non legato al cristianesimo e non identificabile con le guerre sante che Bin Laden vorrebbe suscitare, è grazie al rifiuto opposto dal Papa a una guerra che poteva esser interpretata come conflitto tra cristianesimo e Islam. Non aveva dissentito sempre, dalle guerre. Negli Anni Novanta, aveva anzi chiesto agli occidentali di fermare militarmente il possibile genocidio dei musulmani di Bosnia: un genocidio cui il cristianesimo ortodosso serbo aveva dato il suo assenso. Una guerra contro le crociate era dunque ammessa, anche e soprattutto quando a minacciare massacri erano i cristiani, mentre radicalmente invise erano le guerre che facevano un uso politico del simbolo della croce. Pur mettendo in guardia contro il nuovo pericolo totalitario rappresentato dal terrorismo, questo Papa ha obiettato quando Bush diede il nome di crociata alla guerra antiterrorista, e si è opposto a quelle sette evangelicali americane che cercano di combinare, in Iraq, gli aiuti umanitari con l’evangelizzazione. La condanna del genocidio dei musulmani ceceni ancora non è venuta: quel popolo continua a sperare nelle parole del Santo Padre. Anche in questo il Papa raccoglie un’eredità dei predecessori e al tempo stesso innova. Si muove sulle orme di Benedetto XV, che definì la prima guerra mondiale un’’inutile strage”, inimicandosi tante Chiese nazionali, e per questa via prende le distanze dalla politica dei singoli Stati e dal progetto di un ordine mondiale istituito dal cristianesimo. E anche quando accetta la beatificazione di Pio XII, non manca di mettere in causa i compromessi col totalitarismo cui il Vaticano acconsentì durante l’ultima guerra. A più riprese questo Papa si è elevato contro il male, in veri salmi imprecatori contro l’odio etnico o quello religioso, contro il crimine di mafia e il crimine di Shoah o del Gulag. E i salmi imprecatori, come ricorda Enzo Bianchi, ”sono sempre un antidoto al gravissimo male dell’indifferenza al male”. Troppo grande è stato il compromesso cristiano con gli Stati nazione, troppo grande la tentazione della Chiesa a divenire il braccio morale delle potenze terrene: da queste tentazioni il Papa si congeda, complicando il trono di Pietro e rendendolo più esaltante. Al centro di tutto, il Papa ha rimesso la persona umana: con le sue impotenze e le sue forze, con la sua coscienza sempre minacciata dai totalitarismi e con la sua auto-nomia, con la legge che l’uomo è chiamato a dare a se stesso. La morale di questo pontefice appare rigida e inflessibile, a molti: soprattutto la morale sessuale. Ma egli sa l’imperfezione dell’uomo, sa che non si può chiedergli l’impossibile. Con la sua insistenza su rigide leggi morali vuol tuttavia indicare una meta ideale, rispetto alla quale misurarsi. Vuol mostrare qual è l’orizzonte del dover essere, anche quando non si raggiunge la perfezione etica. Possiamo legiferare sull’aborto, ma dobbiamo sapere che con l’aborto si uccide una vita. Questo deve destare in noi tremore e stupore anziché certezze, perché è in questo stupore che si cela la grandezza dell’uomo. Fin dai tempi di Platone, la filosofia nasce dall’attitudine a meravigliarsi. A non accontentarsi di un mero, indifferente ”esistere e trascorrere”. A vivere sempre e ancora sulla soglia dello stupore, come nei versi di Giovanni Paolo II: Non si stupisce una fiumara scendente, E silenziosamente discendono i boschi Al ritmo del torrente - però un umano si meraviglia. Il varco che un mondo trapassa attraverso l’uomo E’ dello stupore la soglia, (una volta, proprio questo portento fu nominato ”Adamo”.) Ed era solo, col suo stupore, fra le creature senza meraviglia - per le quali esistere e trascorrere era sufficiente. L’uomo, con loro, scorreva sull’onda dello stupore!» (Barbara Spinelli, ”La Stampa” 12/10/2003). «’Non abbiate paura! Spalancate le porte al redentore”. E’ con queste parole che il 16 ottobre 1978 dà inizio al suo pontificato. E’ una fede che si presenta con tutta la forza del suo ministero, annunciata da un uomo di forte preghiera e grande coraggio. Un invito rivolto non solo all’esterno ma anche all’interno della Chiesa. Perché si lasci alle spalle il complesso verso il mondo. Quel complesso che l’aveva portata a trincerarsi dentro le mura vaticane, non tanto per l’espugnazione ”laica e sabauda” della capitale, ma sotto il presunto ”assedio della modernità”. Certo, con la modernità la Chiesa ha fatto i conti, sia con Papa Giovanni che con la sofferta testimonianza di Paolo VI. Ma Giovanni Paolo II è andato oltre […] perché quel ”coraggioso e risoluto pastore”, che ”non ha bisogno di sondare l’opinione pubblica prima di parlare” (così lo definisce il teologo americano Michael Novak), ha impresso col suo pontificato ventennale un’orma tanto profonda da rendere la sua eredità molto pesante […] Certo è che non è mai stato accomodante. Basti pensare alle posizioni assunte nei confronti prima del comunismo e poi del capitalismo, alle encicliche e ai discorsi che riaffermano con coraggio il valore della vita umana, le leggi della natura, del primato della fede che non sminuisce la ragione, di un illuminismo che non sia in contrasto con i valori cristiani […] All’interno del mondo ecclesiastico uno degli aspetti più delicati e discussi del suo pontificato è la richiesta di collegialità. E Ad tuendam fidem, insieme ad Apostulos suos (entrambi del maggio 1998) non hanno fatto altro che esacerbare gli animi. Perché alle conferenze episcopali non viene riconosciuta competenza in materia dottrinale e morale, in quanto si riafferma che il magistero universale appartiene al Papa o ai vescovi in unione al pontefice.[…] Altro punto dolente, che suscita dissensi all’interno della Chiesa e incomprensioni nella società civile, è la limitazione del ruolo dei laici e delle donne nella Chiesa. In particolare è il mondo tedesco, che si confronta costantemente con la Chiesa riformata, a richiedere una ministerialità più diffusa […] Il ”non abbiate paura” del 16 ottobre 1978 significava anche, per i membri della Chiesa, non temete di dire la Verità, anche quando è scomoda, anche quando questa contrasta con il senso comune. Significava non secolarizzatevi, non lasciatevi tentare dal desiderio di ”essere ben accetti al mondo” […] Si levano gli scudi di progressisti e radicali quando, esortando un riesame della 194 e dell’aborto, viene accusato d’intromettersi nella vita politica del Paese. Giovanni Paolo II afferma chiaro e forte, contro aborto ed eutanasia, il diritto alla vita […] Un altro no alto e forte è alle coppie gay. E piovono i dissensi: da parte del mondo laico, che lo reputa reazionario, e da parte dei cattolici che, come Franco Marini, invitano a trovare ”un punto d’equilibrio rispetto alle esigenze che sono nella società”. E non arretrare ”su posizioni vetero-clericali”. […] La politica è forse l’argomento che ha bisogno di meno parole per esemplificare gli opposti e speculari dissensi che, nel tempo, hanno suscitato le sue parole. Ronald Reagan lo salutò e riconobbe come uno dei più potenti attori che contribuirono alla crisi e alla caduta del comunismo. Ma è lo stesso le cui encicliche sociali lasciano ogni volta interdetti i sostenitori di un mercato darwinista che neghi la dignità del lavoratore» (Manuela Pasquini, ”liberal” 22/10/1998). «Che fosse contro il comunismo si sapeva. In patria ne aveva toccato con mano rigori e orrori. Ma del suo anticapitalismo si sapeva meno. E a farlo risaltare è stato proprio il crollo dell’impero sovietico. Di questo crollo si era sempre detto sicuro: solo il quando e il come gli rimanevano misteriosi. Semmai lo colse di sorpresa la rapidità del collasso. Lui non ha mai sopravvalutato il proprio ruolo nell’accelerare quella caduta. La sua convinzione è tuttora che ”il comunismo è caduto da solo, in conseguenza dei suoi errori e dei suoi abusi”. Ma l’evento ha messo a nudo quello che per lui è il vero, grande nemico. Che è il capitalismo occidentale. L’impero di Mammona. Affamatore dei poveri. Devastatore della fede. Nelle sue encicliche sociali, non riconosce mai al capitalismo una positività nativa. Lasciato alla sua natura, il capitalismo è irrimediabilmente malvagio, ”selvaggio”. Diventa accettabile per la Chiesa solo se addomesticato. E, paradossalmente, secondo lui niente c’è di meglio per addomesticarlo se non l’eredità delle ”cose buone realizzate dal comunismo: la lotta contro la disoccupazione, la preoccupazione per i poveri” […] Da studente piaceva alle ragazze. Da prete andava in campeggio con loro. Da papa le bacia, le abbraccia stretto, quando era più prestante ballava assieme a loro. E’ un felicissimo esempio di castità maschile disinibita con l’altro sesso. Ha anche scritto fluviali documenti di elogio del genio femminile. Ma alla prova dei fatti, niente. Non ha concesso un solo briciolo di potere in più alle donne nella Chiesa. Nel suo primo viaggio negli Stati Uniti, Theresa Kane, una suora che era la presidente di tutte le religiose americane, gli chiese pubblicamente di ammettere le donne al sacerdozio. La sua risposta fu un no assoluto. Che di lì in poi ribadì continuamente, con un crescendo di pronunciamenti autoritari. Arrivando addirittura a dichiarare infallibile il suo veto, immodificabile persino dai papi del futuro […] Quando era bambino, un quinto degli abitanti della Polonia erano protestanti e un decimo ebrei. Ebrei erano duemila dei settemila abitanti del suo paese natale Wadowice. Ebrei erano un quarto dei compagni di scuola e alcuni dei suoi amici più intimi […] Le testimonianze convergono nel mostrare che al giovane Wojtyla erano estranei i sentimenti antisemiti diffusi tra i polacchi. Di fatto, diventato papa, farà molto per riappacificare la Chiesa con il giudaismo. Memorabile la sua visita alla Sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986. Il rabbino Elio Toaff e il capo degli israeliti di Roma, Giacomo Saban, gli rinfacciano le malefatte dei papi fino ai ”silenzi” di Pio XII. E lui risponde deplorando ”gli odi e le persecuzioni dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque. Ripeto: da chiunque”. Come accogliesse l’aspro rimprovero. Nel marzo del 1998 pubblica un documento vaticano che riconosce le colpe dei cristiani nello sterminio nazista degli ebrei […] E’ universalmente giudicato uomo di pace. Ma non è mai stato un pacifista. Ha contestato fino all’ultimo che si combattesse la guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein. Anche a costo di trovarsi solo contro tutto l’Occidente […] Ma per la Bosnia ha fatto l’opposto. Ha reclamato a gran voce che l’Occidente intervenisse a ”disarmare l’aggressore” e a imporre una tregua con la forza delle armi […] Come un papa del Medioevo, ha indetto una volta, il 27 ottobre del 1986, una ”tregua di Dio”, chiedendo a tutti gli eserciti in guerra di far tacere le armi per un giorno. Praticamente nessuno gli diede retta […] In tema di natalità ha combattuto e combatte la sua battaglia più strenua. Contro l’ideologia malthusiana dell’Occidente […] L’acme della battaglia l’ha raggiunto in concomitanza con la conferenza sul controllo della natalità indetta dall’Onu nel 1994 al Cairo. Per mesi ha gridato martellante la sua protesta» (Sandro Magister, ”L’Espresso” 22/10/1998). «Con lui sono stati stravolti i criteri storiografici con i quali si è guardato comunemente al papato: non più un pontificato statico, un magistero assiso soltanto su una cattedra romana, ma un pontificato itinerante, un magistero portato sulle strade del mondo, un pontefice immerso vistosamente ed energicamente nella società dei mass media come il più grande personaggio di consumo per l’opinione pubblica mondiale. Così ha percorso la terra in viaggi apostolici frenetici, profeta itinerante dal grido a volte tremendo contro una umanità che egli vedeva in fuga da Dio e da Cristo..... Nessun uomo, in questi tempi, e probabilmente nessun uomo nella storia, è stato tanto applaudito e osannato da masse popolari in tutto il mondo. E nessun uomo, come lui, è andato per il mondo a raccogliere questi applausi e questa esaltazione, immerso nella grande fiera dei mass media, mescolando gesti rituali antichi, gotici, ai gesti nuovi della civiltà delle immagini e del consumo televisivo. Ma non è stato sempre e soltanto un trionfo di consenso. In un secolo di lacerazioni di popoli, di furore scientifico, ma di dubbi spirituali e di tristezze morali, di ossequio al mondano e di disprezzo per il soprannaturale, anch’egli è apparso al mondo con i segni della contraddizione: povero e potente, umile e condannante... E poiché, soprattutto dalle sue radici culturali polacche, portava in sé la concezione di una identità tra cristianesimo e società, si sentiva responsabile della salvezza e del riordino non solo della Chiesa ma anche della società mondiale. Con la stessa passione con cui (all’inizio del pontificato) ha guardato alla sua patria e a tutto l’Est europeo, con la stessa ansia di liberazione, ha mirato però anche all’Occidente, al vecchio mondo cristiano che si andava sempre più scristianizzando. Se all’Est un mondo rigettava Dio, all’Ovest c’era un mondo che pensava di fare a meno di Dio. In un mondo così, non vedeva prospettive per l’umanità. ”Il futuro dell’uomo”, disse una volta, ”non può essere né Mosca né New York”. Per questo ha percorso i continenti con affanno apostolico, per sospingere verso Dio un’umanità dissacrata, ma anche, in una terra continuamente ferita dalla violenza, dalle guerre, dalle ingiustizie, per gridare la pace e la difesa dei diritti umani calpestati. Per raggiungere questo suo intento, per far rientrare Dio nel mondo, perché non fosse spento il senso di Dio sulla terra, cercò non solo di dare spazio agli incontri ecumenici con le altre confessioni cristiane, invocando con una enciclica l’unità dei credenti in Cristo, ma chiamò a raccolta anche le altre religioni: ebrei, musulmani, buddisti, perfino i sacerdoti della foresta africana, come avvenne con i capi religiosi ad Assisi nell’ottobre del 1986» (Domenico del Rio, Karol il grande, Edizioni Paoline 2003). Vedi anche: Luigi Accattoli, ”Sette” n. 40/1998.