Varie, 7 marzo 2002
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Woodward Bob
• Geneva (Stati Uniti) 26 marzo 1943. Giornalista. È stato per decenni la firma più celebre del Washington Post . Divenne noto nel 1974 per aver portato alla luce, con Carl Bernstein, lo scandalo Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente Nixon. Lo scoop gli valse il premio Pulitzer. La storia, trasposta sul grande schermo, è stata interpretata da Dustin Hoffman e Robert Redford nel film «Tutti gli uomini del presidente», regia di Alan J. Pakula, ispirato all’omonimo libro di Woodward e Bernstein. Woodward ha scritto 9 bestseller, di cui 5 tradotti in italiano: «La guerra di Bush» (2003), Piano d’attacco (2004) «La talpa del Watergate. Finalmente le rivelazioni di ’Gola Profonda’» (2005), «John Belushi» (2006), «Le verità negate» (2007) • «[...] il giornalista più leggendario e meglio pagato del mondo, è stato costretto a fare un imbarazzante e pubblico mea culpa per aver taciuto per oltre due anni il suo ruolo da protagonista nel Ciagate. “Mi scuso perché avrei dovuto informare il mio direttore molto prima. Cercavo di proteggere la fonte ed è mia abitudine tenere segreti”, ha dichiarato [...] Trent’anni dopo lo scoop che ha cambiato il volto del giornalismo mondiale, Woodward è accusato di insabbiamento, opportunismo, collusione col potere, mercenarismo da un’America che lo ha condannato in coro come il simbolo più sconcertante della crisi profonda che affligge i media. Il suo crimine? L’aver sparlato a destra e a manca dell’inchiesta sul Ciagate (“una perdita di tempo”, “uno sbaglio”) e del magistrato incaricato Patrick Fitzgerald (“un mastino cerca- rifiuti”, “vergognoso”), senza prendersi la briga di rivelare di essere stato lui il primo giornalista ad aver appreso da un alto funzionario dell’amministrazione Bush la vera identità della 007 della Cia Valerie Plame. [...] Perché mai Woodward pregò il collega Walter Pincus, che stava indagando sul Ciagate, di tenerlo fuori dall’inchiesta di cui sapeva più degli altri e prima degli altri? “La conversazione sulla Plame avvenne nell’ambito di una serie d’interviste con tre funzionari dell’amministrazione Bush per il mio libro Piano di Attacco e in vista di un nuovo libro sul secondo mandato di Bush in uscita nel 2006”, si giustifica Woodward, confermando l’accusa rivoltagli dai colleghi di non dare i suoi scoop al giornale per tenerseli e pubblicarli nei suoi libri. L’ammissione ha scatenato la rivolta in redazione. “Questa è la conseguenza inevitabile quando un’istituzione permette ad un individuo di diventare più importante dell’istituzione stessa”, punta il dito in un memorandum interno Jonathan Yardley, una delle firme di punta del Post. “Woodward sta proteggendo l’amministrazione Bush”, gli fa eco Howard Kurtz, un’altra star del giornale. Ancora più caustiche le altre testate. “È demoralizzante vedere la metamorfosi di Woodward, da solido giornalista investigativo a molle servo dei potenti”, accusa Rory O’Connor, direttrice del Tg di Nbc. Sul New York Times Eric Boehlert afferma che “Bob Woodward ormai è diventato uno stenografo dell’amministrazione Bush”. L’unico a difenderlo è Carl Bernstein, che ha definito “vergognoso” mettere in dubbio l’integrità dell’amico. “Basta guardare il suo curriculum vitae per vedere che è il più illustre giornalista del nostro tempo”, ha detto Bernstein. Ma i nuovi sviluppi cambiano gli scenari dello scandalo e secondo il Wall Street Journal “l’inchiesta di Fitzgerald riceve un nuovo impeto dalla deposizione di Woodward”, chiamato in causa proprio dalla sua gola profonda, interpellata anch’essa dal Pm ma di cui non si conosce ancora l’identità. [...]» (Alessandra Farkas, “Corriere della Sera” 18/11/2005) • «Nel 1972 ha portato alla luce, insieme a Carl Bernstein, il primo grande scandalo pubblico della politica americana, il Watergate, provocando le dimissioni di Richard Nixon, nell’agosto del ’74. [...] etichetta di “giornalista investigativo più potente del pianeta” [...] “Sono un semplice reporter che cerca di scoprire la verità certo: Carl Bernstein e io abbiamo dato il via a un nuovo tipo di giornalismo che ha provocato un’indagine congressuale, la nomina di un procuratore speciale e le dimissioni di Nixon. Ma spetta agli altri giudicare l’impatto del nostro lavoro [...] Al liceo fui assunto come spazzino part time dallo studio legale di mio padre avvocato. Fu lì che, spolverando i dossier, realizzai per la prima volta che anche in una piccola cittadina conservatrice come Wheaton, in Illinois, la gente era piena zeppa di segreti. Capii che ciò che si vede in superficie non è quasi mai reale e bisogna scavare sotto per conoscere la verità [...] All’università sognavo di fare lo scrittore. Ma dopo aver scritto il mio primo, pietoso romanzo autobiografico, tutti mi consigliarono di desistere. Quando entrai in marina, alla fine degli anni 60, diventai un patito della cronaca, che seguivo con passione dai quotidiani. [...] nessuno può immaginare quante donne ho deluso in vita mia, perché quando finalmente mi hanno incontrato hanno realizzato che non ero bello e aitante come Robert Redford” [...]» (“Corriere della Sera” 21/8/2004) • «Nel 1970, quando prestavo servizio come sottotenente di vascello nella Marina ed ero assegnato all’Ammiraglio Thomas H. Moorer, capo delle operazioni navali, talvolta facevo da corriere per consegnare documenti alla Casa Bianca. Una sera fui mandato a consegnare un pacchetto nel piano inferiore dell’Ala Ovest della Casa Bianca. Accanto alla Sala Operativa lì situata si trovava una piccola area d’attesa. Di solito occorreva una lunga attesa prima che la persona giusta venisse fuori e firmasse per il materiale ricevuto, qualche volta un’ora o anche più. Dopo che ebbi atteso per un po’ venne a sedersi accanto a me un uomo alto, dai capelli grigi perfettamente pettinati. Indossava un abito scuro, una camicia bianca e una cravatta dai colori tenui. Doveva essere di 25-30 anni più vecchio di me e aveva con sé quello che mi parve uno schedario o una cartella porta-documenti. Sembrava una persona piuttosto distinta, sfoggiava un’aria di sicurezza calcolata e aveva l’atteggiamento calmo di chi è abituato a impartire ordini sapendo di essere obbedito all’istante. Direi che stava studiando molto attentamente la situazione. Non c’era nulla di evidente nella sua attenzione, eppure i suoi occhi si spostavano di continuo, in una sorta di sorveglianza raffinata. Dopo qualche minuto mi presentai: “Sottotenente Bob Woodward” dissi, avendo la cura di far seguire un deferente “Sir”. “Mark Felt” rispose. Iniziai a parlargli di me, gli raccontai che quello era il mio ultimo anno nella Marina e che stavo consegnando documenti provenienti dall’ufficio dell’Ammiraglio Moorer. Felt non ebbe fretta alcuna di spiegarmi alcunché di sé o di dirmi per quale ragione si trovasse lì. Felt ed io eravamo come due passeggeri seduti uno accanto all’altro su un lungo volo aereo, senza nessun posto particolare dove andare e nient’altro da fare se non rassegnarci a perdere tempo. Non mostrò alcun interesse a cominciare una conversazione, mentre io ero fermamente deciso a riuscirci. Alla fine feci in modo da carpirgli la notizia che era un vicedirettore dell’Fbi, responsabile della divisione ispezioni, un posto importante, sotto il direttore J. Edgar Hoover. Questo voleva dire che egli era a capo di squadre di agenti che si recavano nei vari uffici dell’Fbi per accertarsi che stessero rispettando le procedure ed espletando gli ordini di Hoover. Più tardi venni a sapere che quella era chiamata la goon squad, la “squadra dei picchiatori”. Nell’agosto 1970 fui ufficialmente congedato dalla Marina. Mi ero abbonato al “Washington Post”, che sapevo essere diretto da un direttore brillante che faceva lavorare sodo, che si chiamava Ben Bradlee. Da come si occupavano delle notizie emergevano un accanimento e un’incisività che mi piacevano. Mi pareva adeguato ai tempi, appropriato a quella che era la sensazione generale delle condizioni in cui versava il mondo. Più della scuola di legge. Forse il giornalismo era qualcosa cui avrei potuto dedicarmi. Durante la mia lotta e la mia ricerca di un futuro avevo inviato al Post una lettera chiedendo un posto di lavoro come giornalista. In qualche modo - non ricordo esattamente come - Harry Rosenfeld, direttore dell’area metropolitana acconsentì a ricevermi. Mi guardò attraverso gli occhiali con un certo sbigottimento: perché, si andava chiedendo, volevo diventare un giornalista? Non avevo nessuna esperienza, zero. Perché, mi chiese, il “Washington Post” avrebbe dovuto assumere qualcuno totalmente privo di esperienza? È talmente da pazzi, disse infine Rosenfeld, che siamo obbligati a provare. Ti concediamo un periodo di prova di due settimane. Dopo due settimane avevo scritto forse una dozzina di articoli o di frammenti di articoli, nessuno dei quali era stato pubblicato né era arrivato nemmeno lontanamente vicino ad esserlo. Anzi, nessuno di essi era stato corretto. Vedi, non sai proprio come si fa, affermò Rosenfeld ponendo pietosamente fine al mio periodo di prova. Ciò nonostante lasciai la redazione più affascinato che mai. Sebbene avessi fallito miseramente il mio periodo di prova - fu un fallimento spettacolare - mi ero reso conto di aver trovato qualcosa che mi piaceva. La sensazione di immediatezza del giornale mi aveva completamente travolto e così accettai un lavoro al “Montgomery Sentinel”, dove Rosenfeld mi aveva detto che avrei potuto imparare a diventare un giornalista. Dissi a mio padre che avevo finito con la scuola di legge e che avevo trovato un lavoro, a circa 115 dollari a settimana, come giornalista di un settimanale del Maryland. “Tu sei pazzo”, sentenziò mio padre, in una dei rari giudizi che abbia mai espresso nei miei confronti. Chiamai anche Mark Felt che, in modo più gentile, mi fece anch’egli capire che riteneva io fossi pazzo. Disse che pensava che i giornali erano troppo superficiali e con la battuta troppo pronta: i giornali non indagavano mai in profondità e raramente arrivavano all’origine e alle cause degli avvenimenti. Beh, ribattei, io invece ero esultante e forse lui avrebbe potuto aiutarmi con qualche storia. Egli non rispose, me lo ricordo bene. Durante tutto l’anno che trascorsi al Sentinel mi tenni in contatto con Felt con telefonate al suo ufficio e a casa. Stavamo diventando amici, se così si può dire. Continuavo a chiedergli consigli. Un weekend andai in macchina fino alla sua casa in Virginia e conobbi sua moglie Audrey. Con un certo qual stupore da parte mia, scoprii che Felt ammirava J. Edgar Hoover. Apprezzava la sua precisione e il modo in cui dirigeva il Bureau, con procedure rigide e il pugno di ferro. Felt mi disse anche di apprezzare che Hoover arrivasse in ufficio tutte le mattine alle 6,30 e tutti sapevano che cosa aspettarsi. La Casa Bianca di Nixon, mi disse, era tutt’altra cosa: le pressioni politiche erano incredibili. Mi disse solo questo, senza entrare in dettagli. Mi pare di ricordare che l’abbia definita “corrotta” e sinistra. Hoover, Felt e la vecchia guardia erano il muro a protezione dell’Fbi, disse. All’epoca, prima del Watergate, l’opinione pubblica sapeva poco, o non sapeva affatto, degli sgambetti e degli spintoni, per non dire dell’enorme astio, che esistevano tra la Casa Bianca di Nixon e l’Fbi di Hoover. Le indagini del Watergate più tardi rivelarono che nel 1970 un giovane assistente della Casa Bianca di nome Tom Charles Huston aveva messo a punto un piano che autorizzava la Cia, l’Fbi e le agenzie dell’intelligence militare a intensificare la sorveglianza elettronica delle “minacce alla sicurezza interna”, autorizzando l’apertura illegale della corrispondenza e togliendo le restrizioni imposte alle irruzioni furtive e alle intrusioni con effrazione per raccogliere informazioni. In un suo appunto top secret, Huston mise in guardia specificando che quel piano era “palesemente illegale”. Nixon inizialmente lo approvò lo stesso. Hoover vi si oppose strenuamente, perché le intercettazioni di nascosto, l’apertura della corrispondenza, le irruzioni nelle abitazioni e negli uffici di chi costituisce una minaccia per la sicurezza interna in linea di massima erano sfera di competenza dell’Fbi, e chiaramente il Bureau non voleva concorrenza alcuna. Quattro giorni dopo, Nixon abrogò il piano di Huston. Felt, uomo molto più colto di quanto la maggior parte delle persone si rendesse conto, più avanti scrisse che considerava Huston “una specie di ‘gauleiter’ della Casa Bianca nei confronti della comunità dell’intelligence”. La parola “gauleiter” non è presente nella maggior parte dei dizionari, ma nell’Encyclopedic Unabridged Dictionary of the English Language del Webster, alto più di una decina di centimetri, tale parola è definita così: “Il leader o il funzionario capo di un distretto politico sotto controllo nazista”. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Felt ritenesse gli uomini di Nixon dei nazisti. In quel periodo egli dovette fermare i tentativi di altri agenti del Bureau volti a “identificare ogni singolo membro di ogni comune di hippy” dell’area di Los Angeles, per esempio, o ad aprire un dossier su ciascun appartenente all’associazione Studenti per una società democratica. Niente di tutto ciò è mai trapelato direttamente nelle nostre conversazioni, ma chiaramente egli era un uomo sotto pressione e le minacce all’integrità e all’indipendenza del Bureau erano concrete e parevano dal suo punto di vista qualcosa di primaria importanza. Il primo luglio 1971, circa un anno prima della morte di Hoover e che scoppiasse il Watergate, Hoover promosse Felt alla terza carica dell’Fbi. Nonostante fosse intimo di Hoover, Clyde Tolson occupava da un punto di vista tecnico il secondo posto più importante del Bureau, ma era malato e molti giorni non si recava al lavoro. Questo stava a significare che non aveva alcun controllo operativo sul Bureau. Così il mio amico divenne il manager ordinario di tutte le questioni dell´Fbi, purché tenesse informati Hoover e Tolson e richiedesse a Hoover l’approvazione per le questioni politiche. In agosto, ad esattamente un anno di distanza dal mio periodo di prova clamorosamente fallito, Rosenfeld decise di assumermi. Il mese successivo iniziai a lavorare per il Post. Nonostante fossi molto impegnato nel mio nuovo posto di lavoro, mi tenni sempre in contatto con Felt, chiamandolo spesso. Egli parlava in modo relativamente libero con me, ma insisteva sempre a dirmi che lui stesso, l’Fbi e il Dipartimento della Giustizia dovevano essere lasciati fuori da qualsiasi cosa io potessi usare indirettamente o passare ad altri. Era intransigente e severo su queste regole e usava una voce insistente e in crescendo per ricordarmele. Io promisi di rispettarle ed egli insistette ancora, dicendo che era cruciale che io stessi molto attento. L’unico modo di essere assolutamente sicuri era quello di non dire a nessuno che ci conoscevamo e che ci parlavamo, o che io conoscevo qualcuno all’Fbi o al Dipartimento della Giustizia. Nessuno. In primavera mi disse in tutta confidenza che l’Fbi era venuta a sapere che il vicepresidente Spiro T. Agnew aveva ricevuto una bustarella di 2.500 dollari in contanti che Agnew aveva chiuso nel cassetto della sua scrivania. Riferii la notizia a Richard Cohen, il redattore capo del Maryland per il Post, senza identificare affatto la fonte. Cohen disse, e più tardi scrisse nel suo libro sull’indagine Agnew, di ritenere “assurda” tale notizia. Trascorsi un giorno intero insieme a un altro giornalista del Post a girare Baltimora in lungo e in largo alla ricerca della persona che si presumeva sapesse della bustarella. Non trovammo nulla. Due anni dopo, l’indagine Agnew rese noto che il vice presidente aveva effettivamente ricevuto la tangente nel suo ufficio. Alle 9.45 del 2 maggio 1972 Felt era nel suo ufficio all’Fbi quando un vicedirettore gli riferì che Hoover era morto a casa propria. Felt rimase sconvolto. Per motivi pratici e contingenti, egli era colui che doveva prenderne il posto al Bureau. Eppure, Felt ben presto dovette provare un’enorme delusione. Nixon nominò L. Patrick Gray III come facente le funzioni di direttore. Gray era un fedelissimo di Nixon da anni e anni. Si era dimesso dalla Marina nel 1960 per lavorare per Nixon quando era candidato durante la campagna elettorale per la presidenza che perse a vantaggio di John F. Kennedy. Da quanto posso ricordare, Felt ne fu annientato, ma fece ad ogni modo buon viso. “Se fossi stato più saggio, me ne sarei andato in pensione” ha poi scritto. Sabato 17 giugno, il responsabile notturno dell’Fbi chiamò Felt a casa. Cinque uomini in giacca e cravatta, con le tasche piene di banconote da cento dollari, con indosso equipaggiamento per intercettazioni e materiale fotografico, erano stati arrestati nel quartiere generale nazionale dei Democratici nell’edificio adibito ad uffici e denominato Watergate intorno alle 2.30 di notte. Alle 8,30 del mattino Felt era nel suo ufficio all’Fbi, alla ricerca di altre informazioni. Intorno alla stessa ora il responsabile delle pagine locali del Post mi chiamò a casa e mi chiese di andare a indagare su un caso alquanto insolito di effrazione. Il primo paragrafo dell’articolo in prima pagina che fu pubblicato sul Post il giorno dopo iniziava così: “Cinque uomini, uno dei quali afferma di essere un ex dipendente della Cia, sono stati arrestati questa notte intorno alle 2,30 nel corso di quello che le autorità credono essere un dettagliato complotto per mettere delle cimici nella sede della Commissione Nazionale dei Democratici”. Il giorno seguente, Carl Bernstein ed io scrivemmo il nostro primo articolo insieme, identificando uno di “coloro che avevano fatto irruzione”, James W. McCord Jr, come il coordinatore della sicurezza alle dipendenze del comitato per la rielezione di Nixon. Lunedì mi misi al lavoro su E. Howard Hunt, il cui numero di telefono era stato trovato nella rubrica di due dei “ladri” di quella notte, seguito da un piccolo appunto, “W. House”, oppure dalla sigla “W.H.”. Quello era il momento in cui una fonte o un amico nelle agenzie investigative del governo sarebbe stato inestimabile. Chiamai Felt all’Fbi e lo raggiunsi tramite il suo segretario. Quella doveva essere la nostra prima chiacchierata sul Watergate. Egli mi ricordò quanto poco gli piacesse ricevere telefonate in ufficio, disse che il caso Watergate si sarebbe “surriscaldato” per motivi che non poteva specificarmi e riappese la cornetta bruscamente. Temporaneamente fui assegnato a scrivere il pezzo del giorno seguente sull’installazione di microspie al Watergate, ma non ero sicuro di avere in mano qualcosa. Carl aveva preso un giorno libero. Alzai la cornetta, composi il numero 456-1414 – che corrispondeva alla Casa Bianca – e chiesi di parlare con Howard Hunt. Al suo interno non ci fu risposta, ma l’operatore gentilmente mi disse che Hunt avrebbe potuto trovarsi nell’ufficio di Charles W. Colson, il consigliere speciale di Nixon. La segretaria di Colson disse che al momento Hunt non c’era, ma che potevo forse trovarlo nella società di pubbliche relazioni nella quale lavorava. Chiamai, trovai Hunt e gli chiesi perché il suo nome si trovava sulla rubrica di due di coloro che avevano fatto irruzione al Watergate. “Dio santo!” esclamò Hunt prima di sbattermi il telefono in faccia. Chiamai il presidente della società di pubbliche relazioni, Robert F. Bennett, che oggi è un senatore repubblicano dello Utah. “Immagino che non sia un segreto per nessuno che Howard è della Cia” rispose Bennett con gentilezza. Io non lo sapevo e un portavoce della Cia mi confermò che Hunt era stato nell’agenzia dal 1949 al 1970. Chiamai nuovamente Felt all’Fbi. Colson, Casa Bianca, Cia, dissi soltanto. Che cosa avevo in mano? Chiunque può avere nella propria rubrica il numero di qualcun altro. Volevo stare molto attento a non accusare nessuno per semplice associazione. Felt mi parve nervoso. Mi disse in via del tutto riservata – il che significava che non avrei potuto usare quell’informazione – che Hunt era il principale sospetto nel caso dell’irruzione nel Watergate per molte altre ragioni, oltre alla presenza del suo nome in due rubriche telefoniche. Pertanto riportare il collegamento tra le due cose non sarebbe stato per forza di cose sbagliato. A luglio Carl si recò a Miami - da dove erano originari quattro di coloro che avevano fatto incursione al Watergate - seguendo la pista dei soldi. Molto ingegnosamente egli rintracciò un procuratore del posto e il suo investigatore capo, che avevano copie di assegni messicani per 89.000 dollari e di un assegno di 25.000 dollari che era andato a finire sul conto di Bernard L. Barker, una delle persone implicate nell’irruzione. Fummo così in grado di stabilire che l’assegno da 25.000 dollari faceva parte dei fondi per la campagna che erano stati dati a Maurice H. Stans, principale raccoglitore di fondi per Nixon, su un campo di golf in Florida. L’articolo del primo agosto su questa storia fu il primo a mettere direttamente in collegamento il denaro della campagna elettorale di Nixon con il Watergate. Cercai di contattare Felt, ma egli non rispose alla mia telefonata. Lo cercai a casa sua in Virginia, ma non ebbi maggior fortuna. Così una sera mi presentai a casa sua a Fairfax. Era una casa residenziale color vaniglia, perfettamente ordinata, con tutto al suo posto. Il suo modo di fare mi innervosì. Mi disse: niente più telefonate, niente più visite a casa, niente a cielo aperto. Allora non sapevo che durante il primo periodo di Felt all’Fbi, durante la seconda guerra mondiale, egli era stato assegnato a lavorare al ramo principale della Sezione Spionaggio. Felt aveva imparato moltissimo sulle spie tedesche e sul loro modo di procedere e dopo la guerra aveva trascorso molti anni a tenere sotto sorveglianza dei sospetti agenti sovietici. E così quell’estate, nella sua casa in Virginia, Felt mi disse che se dovevamo parlare ciò doveva avvenire soltanto faccia a faccia, senza che nessuno potesse vederci. Io risposi che per me andava bene qualsiasi cosa. Lui proseguì dicendo che avevamo bisogno di un sistema programmato di prenotifica, un cambiamento nei nostri reciproci ambienti o un segnale convenuto a cui nessun altro potesse dare alcuna importanza né un significato. Io non sapevo neppure di che cosa stesse parlando. Lui disse: se tieni le tende del tuo appartamento chiuse, aprile e questo potrebbe essere un segnale per me. Io potrei controllare ogni giorno o farle tenere sotto controllo, e se fossero aperte potremmo incontrarci quella notte stessa, in un luogo prefissato. Talvolta mi piace far entrare la luce in casa, gli risposi. Ci occorreva un altro segnale, proseguì, uno che egli potesse regolarmente tener sott’occhio nel mio appartamento. Ma non mi spiegò quale potesse essere questo segnale. Sentendomi sotto pressione io gli dissi che avevo una piccola bandierina rossa di stoffa, di circa 80 centimetri quadrati, quelle che di solito usano i camion per indicare i carichi sporgenti o i veicoli lunghi. L’aveva trovata una mia ragazza per strada e l’aveva ficcata in un vaso da fiori vuoto, collocato sul balcone del mio appartamento. Così Felt e io concordammo che se avessi avuto necessità urgente di incontrarlo, avrei spostato il vaso, che di solito si trovava davanti, accanto alla ringhiera, verso il retro del balcone. Incontrarlo sarebbe stato un evento molto importante e raro, aggiunse poi in modo intransigente. Infine decise che a quel segnale convenuto ci saremmo incontrati quella stessa notte alle due al livello inferiore di un garage sotterraneo proprio sopra il Key Bridge di Rosslyn. Felt mi disse che dovevo seguire delle rigorose tecniche anti-pedinamento. Come uscivo dal mio appartamento? Uscivo, percorrevo il corridoio e prendevo l’ascensore. Che porta direttamente all’ingresso? Sì. C’erano delle scale di servizio che portavano al mio appartamento? Sì. Bene, allora usa quelle quando dobbiamo incontrarci. Portano alla strada sul retro? Sì. Bene, prendila, e non usare la tua macchina. Prendi un taxi a parecchi isolati dall’albergo dove si trovano taxi fino a dopo mezzanotte, fatti fermare da qualche parte e prendi un altro taxi per arrivare a Rosslyn. Chiedi di non farti scendere direttamente al parcheggio del garage. Cammina per qualche isolato e se ti accorgi di essere seguito non scendere nel garage. Se non ti farai vedere io capirò. Tutto quello che mi andava dicendo mi sembrava una paternale. La chiave di tutto stava nel calcolare il tempo necessario per arrivare all’appuntamento in orario, una o due ore. Sii paziente e tranquillo. Abbi fede nei nostri accordi. Non ci sarà nessun luogo o ora di ripiego per un altro incontro. Se entrambi non ci presentiamo all’appuntamento, l’appuntamento salta. Felt mi disse che se avesse avuto qualcosa per me mi avrebbe fatto avere un messaggio. Mi pose molte domande sulle mie abitudini di tutti i giorni, volle sapere che tipo di appartamento avevo, com’era la mia cassetta delle lettere e così via. Il Post era consegnato direttamente fuori dalla mia porta d’ingresso. Avevo un abbonamento al New York Times. Alcune persone del mio condominio vicino a Dupont Circe ricevevano il Times. Le copie erano lasciate nell’ingresso, con sopra segnato il numero dell’appartamento - il mio era il numero 617 - ed era scritto a chiare cifre sul risvolto di ciascun giornale con il pennarello. Felt mi disse che se ci fosse stato qualcosa di importante sarebbe riuscito ad arrivare alla mia copia del New York Times, ma in che modo non l’ho mai saputo. L’indicazione della pagina 20 sarebbe stata circondata da un cerchio e nella parte inferiore della pagina avrei visto disegnate le lancette di un orologio per indicarmi l’ora alla quale ci saremmo incontrati quella notte, presumibilmente alle 2, sempre nello stesso parcheggio di Rosslyn. Felt disse che il nostro rapporto si basava su un accordo di fiducia: non avrei dovuto metterne a conoscenza nessuno, né parlarne ad altri. In che modo avrebbe potuto tenere quotidianamente sotto osservazione il mio balcone per me è un mistero ancora adesso. In quell’area c´erano anche delle ambasciate. L’ambasciata irachena era proprio in fondo alla strada e congetturai che l’Fbi la tenesse sotto controllo o avesse delle postazioni d’ascolto nei paraggi. È possibile che Felt abbia chiesto agli agenti del controspionaggio di riferirgli con regolarità la posizione della mia bandiera e del vaso da fiori? Mi pare altamente improbabile, anche se non del tutto impossibile. Nel corso di questa come di altre conversazioni, io in qualche modo mi scusai più volte di assillarlo così e di essere un tale tormento, ma gli spiegai che non sapevamo dove altro sbattere la testa. Carl ed io eravamo riusciti a entrare in possesso di un elenco di tutti coloro che avevano lavorato per il comitato di rielezione di Nixon e ce ne andavamo frequentemente in giro di notte a bussare alle porte di queste persone per cercare di intervistarle. Spiegai a Felt che ci stavano sbattendo la porta in faccia molto frequentemente e che stavamo osservando molti sguardi terrorizzati. Mi sentivo frustrato. Felt rispose che non dovevo preoccuparmi se gli stavo addosso. Anche a lui era toccato andare in giro per le strade a intervistare la gente. L’Fbi, come la stampa, doveva anch’essa fare affidamento sulla collaborazione volontaria della gente. Molti volevano aiutare l’Fbi, ma l’Fbi conosceva molto bene anche i secchi rifiuti. Felt forse tollerava la mia aggressività e il mio approccio perché quando era più giovane era andata anche per lui così. Un giorno si era fatto strada fino a riuscire ad intervistare Hoover e a illustrargli tutti i suoi progetti ambiziosi di diventare un agente speciale responsabile di un dipartimento dell’Fbi. Il suo fu un messaggio alquanto insolito, che mi incoraggiò con simpatia. Con una storia così stuzzicante, complicata, concorrenziale e dirompente come il Watergate ci furono poco tempo e poca propensione ad analizzare le ragioni che spingevano le nostre fonti a parlare. Ciò che contava era se l’informazione era stata verificata e se era esatta. Nuotavamo, vivevamo tra le cateratte: non c’era tempo di chiedere perché fossero disposti a parlare o se dovevano tirare acqua al loro mulino. Io fui grato di ogni pizzico di informazione, ogni conferma o aiuto che Felt mi diede mentre Carl ed io stavamo cercando di comprendere la idra dalle molte teste del Watergate. A causa della sua posizione, teoricamente al vertice della principale agenzia investigativa, le sue parole e i suoi consigli avevano un’autorità immensa, talora perfino sconcertante. Il peso delle sue parole, l’autenticità e la sua moderazione erano forse più importanti della sua motivazione, se mai ne aveva una. Fu soltanto dopo che Nixon ebbe dato le dimissioni che io iniziai a chiedermi perché Felt avesse parlato, visto che parlare comportava dei rischi enormi per lui e per l’Fbi. Se fosse venuto alla luce prima il suo nome, Felt non sarebbe stato un eroe. Da un punto di vista tecnico era illegale parlare di informazioni riservate al Grand jury o dei file dell’Fbi. O quanto meno avrebbe potuto essere fatto passare come illegale. Felt credeva di proteggere il Bureau, trovando un modo, per quanto clandestino fosse, per convogliare alcune informazioni provenienti dalle indagini o dagli archivi dell’Fbi all’opinione pubblica, in modo tale che potesse costituirsi una pressione politica e pubblica che alla fine obbligasse Nixon e i suoi uomini a rispondere delle loro azioni. Non provava altro che disprezzo per la Casa Bianca di Nixon e per i loro tentativi di manipolare il Bureau per ragioni politiche. La giovane pattuglia di stacanovisti della Casa Bianca, esemplificata al meglio da John W. Dean III, gli stava odiosa. Il modo in cui riveriva Hoover e le rigide procedure del Bureau avevano reso la nomina di Gray a direttore dell’Fbi quanto mai sconvolgente per lui. Felt aveva chiaramente concluso di essere il logico successore di Hoover. E inoltre all’ex cacciatore di spie della seconda guerra mondiale quel gioco piaceva. Sospetto in cuor mio che egli mi considerasse un suo agente. Fu lui a inculcarmelo: segretezza a tutti i costi, niente chiacchiere, non parlare di lui a nessuno, non far nemmeno lontanamente capire che una simile fonte segreta esisteva. Nel nostro libro, Tutti gli uomini del presidente, Carl e io abbiamo descritto in che modo abbiamo fatto varie congetture su Gola Profonda e sul suo approccio a passarci le informazioni in modo frammentario. Forse lo fece per minimizzare i rischi che correva, o forse perché una o due storie, non importa quanto devastanti, potevano essere attutite dalla Casa Bianca. Forse tutto ciò servì semplicemente a rendere più interessante il gioco. Più probabilmente ancora, arrivammo a concludere, “Gola Profonda sta cercando di proteggere il governo, di indurre un cambiamento nella sua condotta prima che tutto sia perduto”. Ogni qualvolta ho rivolto la domanda direttamente a Felt, egli mi ha dato sempre la stessa risposta: “Devo farlo a modo mio”» (Bob Wooward, “la Repubblica”/“The Washington Post” 3/6/2005). Nel 2005 la sua immagine fu macchiata dal cosiddetto “Ciagate”: «C’era una volta Bob Woodward e c’era una volta la Casa Bianca di George W. Bush. In un solo giorno, a Washington, si consuma la némesi del reporter del Watergate, della più celebrata icona della storia del giornalismo americano, e si ripropone l’incubo che assedia l’Amministrazione: il “Niger-gate”, o “Cia gate”, che dir si voglia. Apparso all’improvviso, Woodward depone [...] nell’inchiesta del procuratore speciale Patrick Fitzgerald su autori e mandanti della vendetta trasversale consumata dalla Casa Bianca su chi (l’ex ambasciatore Joseph Wilson) aveva osato smontare la patacca dell’uranio nigerino venduto a Saddam. Woodward svela di essere stato verosimilmente il primo giornalista di Washington ad apprendere “confidenzialmente”, a metà giugno del 2003, da un’alta fonte dell’Amministrazione diversa da Libby, che Valerie Plame, moglie dell’ex ambasciatore Joseph Wilson, era una agente Cia. Di essere dunque stato per oltre due anni il depositario silenzioso della notizia che doveva punire Wilson e che ora tiene in scacco la Casa Bianca. Woodward giustifica il suo “ritardo” di oltre due anni nel deporre sostenendo di “aver avuto paura di un possibile ordine di testimoniare pena la carcerazione” di Fitzgerald, simile a quello toccato alla Miller e a Mattew Cooper di Time per spingerli a rivelare il nome della loro fonte (Libby). Ammette di aver taciuto il suo coinvolgimento nella vicenda con il direttore del Washington Post e se ne scusa pubblicamente. Spiega di essere stato liberato dal segreto solo dopo che la fonte delle sue informazioni sulla Plame ha deciso di testimoniare. Riconosce di aver provato, nel 2003, a far scrivere, senza successo, la confidenza sulla Plame a un eccellente cronista del Post, Walter Pincus, pregandolo di “tenerlo fuori dalla storia” (Pincus, interpellato, osserva che nei ricordi di Woodward “deve esserci qualche confusione”). La deposizione di Woodward non modifica di un millimetro il guaio in cui è finito Libby, perché l’ex capo di gabinetto deve rispondere per aver mentito al Grand Jury e averne ostacolato l’accertamento della verità. Ma, al contrario, trascina nella polvere lo stesso Woodward [...] la stampa americana celebra il “funerale” professionale di Bob Woodward. [...] aveva definito l’inchiesta di Fitzgerald “un risibile incidente” e il suo procuratore speciale “una disgrazia”, un “cane cerca-rifiuti”. Tacendo a tutti un dettaglio decisivo: che di quell’inchiesta lui, Woodward, custodiva un segreto importante e ne proteggeva con il suo silenzio la fonte. Senza eccezioni, dunque, dal Los Angeles Times, al New York Times, allo stesso Washington Post si saluta ora “un mito del giornalismo che si sgonfia”. Nelle redazioni, come nelle università dove si insegna giornalismo. “L’uomo che aveva affondato la Casa Bianca è diventato uno stenografo della Casa Bianca”, dice Erich Boehlert, autore di un libro [...] sui rapporti tra Amministrazione e media» (Carlo Bonini, “la Repubblica” 18/11/2005).