Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  marzo 07 Giovedì calendario

Yassin Ahmed

• Ashkelon (Israele) 1 gennaio 1929 (così sul passaporto, ma la data è molto controversa, lui diceva di essere del 1938), Gaza (Israele) 22 marzo 2004 (assassinato dagli israeliani) • «Non era solo il fondatore del Movimento di resistenza islamica (Harakat al Muqawama al-Islamiyya), il cui acronimo, Hamas, significa in lingua araba ”fervore”, ma anche il suo leader spirituale. E proprio di quel fervore religioso Yassin era il custode più severo. Profugo della prima ora, Yassin ha respirato l´islam politico sin dalla tormentata infanzia a Gaza, segnata dall´esodo forzato dalla Palestina e dall´incidente che, nel 1952 mentre giocava sulla spiaggia di Gaza, lo renderà paraplegico. Yassin troverà conforto nella religione. Negli anni Sessanta diventa prima docente di materie islamiche, poi, dopo la guerra dei Sei giorni, uno dei predicatori più popolari. Nel 1968 è il referente palestinese dei Fratelli Musulmani nell´area. Sotto la sua guida il gruppo espande la sua influenza: la Fratellanza acquisisce anche il controllo del Wafq, il Fondo islamico; ottenendo così il controllo dell´Università islamica di Gaza e delle moschee della Striscia. Tra il 1967 e il 1987, il ventennio di occupazione che precede l´Intifada, il peso di Yassin cresce sotto lo sguardo calcolato di coloro che ieri lo hanno eliminato: gli israeliani. Preoccupato dall´egemonia nazionalista dell´Olp tra i palestinesi, e in particolare di quella di Fatah, il gruppo di Arafat, Israele lascia prosperare l´Associazione islamica dello sceicco. La sua attività religiosa non impensierisce troppo. La propensione del gruppo a operare nel sociale è vista dalle autorità militari come forma di concorrenza politica nei confronti di Fatah, al cui leader Yasser Arafat, Yassin è legato da un´amicizia nata durante gli studi al Cairo all´inizio degli anni Sessanta. Yassin traccia anche il profilo ideale del militante della futura Hamas: deve avere uno stile di vita improntato alla moralità islamica, contrapposto a quello ”corrotto” delle classi abbienti, laiche e occidentalizzate, simpatizzanti dell´Olp. Un discorso che permette all´organizzazione di veicolare tra i poveri un´idea di popolo che sublima le differenze sociali attraverso l´etica religiosa dell´islam. Sotto la guida dello sceicco di Gaza, la Fratellanza palestinese si muove secondo i canoni neotradizionalisti: reislamizzazione dell´individuo, rifiuto degli stili di vita laici, aiuto alla popolazione attraverso le strutture del welfare religioso finanziato generosamente dalle monarchie del Golfo. La Fratellanza mette così al servizio della popolazione non solo risorse spirituali ma anche sociali: gestisce, oltre a ospedali, asili, scuole, biblioteche, associazioni sportive. Il welfare islamista permette al gruppo di Yassin di entrare in contatto con centinaia di migliaia di persone, accumulando un capitale di stima che tornerà utile quando la Fratellanza si darà un´organizzazione politica e militare. Un processo avviato nel 1983, quando Yassin ordina alla Fratellanza di costituire una branca segreta nella prospettiva di preparare la lotta armata. Ma lo Shin Bet scoprirà l´arsenale dell´organizzazione nella moschea in cui predica lo sceicco, che sarà arrestato nel 1984 e condannato a tredici anni di carcere. Sarà rilasciato l´anno successivo nell´ambito di una trattativa fra Israele e il gruppo palestinese di Ahmed Jibril. Nell´estate del 1987, pochi mesi prima dell´Intifada, Yassin dà il via libera alla ricostituzione del ramo clandestino. Allo scoccare dell´Intifada, Hamas sarà pronta a dare forma a una rivolta spontanea che sorprende soprattutto l´Olp. Nuovamente arrestato nel 1989 e condannato all´ergastolo per aver ordinato l´uccisione di soldati israeliani, verrà rilasciato nel 1997 in cambio della liberazione di due spie israeliane arrestate in Giordania. E´ Yassin che fa inserire nella Carta di Hamas lo slogan dei Fratelli Musulmani: ”Il Profeta è l´esempio, il Corano è la nostra costituzione, il jihad un dovere di ognuno”. L´obiettivo strategico di Hamas è la nascita di uno Stato islamico nel territorio tra ”il fiume e il mare”, tra il Giordano e il Mediterraneo. Rappresentazione geopolitica che implica la cancellazione dello Stato di Israele dal Medioriente. Hamas ritiene che la Palestina sia un ”bene religioso” indisponibile per ”l´entità sionista” e consacrato alle future generazioni musulmane sino al Giorno del Giudizio. Qualsiasi cessione di territorio, o la sua divisione, si configura così come violazione della volontà divina. La resistenza contro ”l´invasore sionista” viene considerata dovere individuale per ogni musulmano e deve essere praticata con ogni mezzo. Yassin aveva il profilo di leader dalle posizioni ”moderate”, disponibile a tregue e convergenze tattiche con rivali e nemici; ma la sua determinazione nel combattere Israele anche con il terrore non è mai venuta meno. Il leader spirituale di Hamas che, a causa della prigionia e dei malanni fisici, lascerà progressivamente spazio alla leadership politica palese e clandestina di Hamas, eserciterà un ruolo decisivo nel legittimare il terrorismo. Senza una sua fatwa la trasformazione del cosiddetto ”martirio” suicida in jihad non sarebbe mai avvenuta. Dopo Oslo decine di militanti di Hamas andranno a morire ”sulla via di Dio” nelle strade di Israele, con il suo avallo religioso» (Renzo Guolo, ”la Repubblica” 23/3/2004). «Ai suoi seguaci aveva raccomandato di ”immergersi”. Di fare i ”sottomarini”, di scendere nella più completa clandestinità per evitare i raid israeliani. Ma lui, lo sceicco Ahmed Yassin, fondatore e guida di Hamas, stranamente non lo ha fatto. [...] E all’uscita della moschea Sabra di Gaza ha trovato la morte che cercava. Da ”shahid”, da martire. ”Non c’è cosa più grande”, amava ripetere con la voce flebile. La sua fine è in linea con lo spirito del suo movimento. morto come qualsiasi altro militante. Caso raro per i dirigenti dei gruppi estremisti che, da quando è iniziata l’intifada, nell’ottobre 2001, preferiscono mandare i figli degli altri ad ammazzare e farsi ammazzare. Rimarrà storica la velenosa battuta di un capo della Jihad a commento di una sparata di Arafat. ”Voglio morire da martire” proclamava da Ramallah il raìs e il suo rivale gli rispose: ”Bene, è giunto il momento che tu indossi una cintura esplosiva, fatti saltare”. Yassin sapeva di essere stato marcato, di essere entrato nella realtà sospesa dei bersagli viventi, detti anche ”i morti che camminano”. Gli israeliani, imitando gli americani in Iraq, hanno creato il loro mazzo di carte dei ricercati: lo sceicco era l’asso di cuori. [...] era sfuggito a un primo tentativo condotto con una bomba gigantesca sganciata da un caccia F16. Una vicenda che non l’ha intimorito ma che piuttosto ha ingigantito la sua immagine tra i fedeli. Yassin ha continuato a manovrare sulla scena palestinese conquistando punti. [...] combinava pragmatismo e asprezza. Diceva di essere pronto a fermare gli attacchi se Israele si fosse ritirato da Gaza, ma al tempo stesso lasciava carta bianca alle Brigate Ezzedine Al Kassam nell’inviare gli attentatori suicidi. Voleva creare un’’armata popolare” e coltivava l’apparato segreto guidato da Mohammed Deif, altro bersaglio perenne di Israele. Manovrando con grande abilità, mai sfiorato dalle accuse di corruzione che pesano sulle altre fazioni, tenendo testa a Israele, Yassin è riuscito a portare dalla sua parte diverse piccole fazioni. Erano nell’area del Fatah e sono passate in quella di Hamas. Sono cresciute le azioni in comune con le Brigate Al Aqsa, anche queste costola ribelle del partito di Arafat. Mediatore esperto, ha fatto da coagulo per le diverse anime di Hamas, ha tenuto insieme i capi dell’interno (Rantissi, Zahar) e quelli della diaspora. Un carisma riconosciutogli anche dagli israeliani. Mika, ex agente dello Shin Bet (servizio segreto interno), lo ha conosciuto da vicino avendolo interrogato per ore in carcere all’inizio degli anni ”80: ”La cosa che ti colpiva era la differenza tra la forza interiore che emanava e il suo fisico malato. Era glaciale, deciso, si capiva che era un leader. Ma soprattutto mostrava una resistenza mentale non comune. Viveva in un mondo tutto suo dove il pensiero chiave era la lotta contro Israele”. [...] Presto nasceranno le Brigate Yassin e forse non solo nei territori palestinesi. Sarà un nome per firmare nuove stragi, reclutare altre bombe umane, dimostrare che la determinazione del singolo è più forte di un carro armato» (Guido Olimpio, ”Corriere della Sera” 23/3/2004). «La data di nascita è incerta: il 1922 o il 1936. A 12 anni giocando a pallone si ruppe la spina dorsale. Israele lo arrestò condannandolo all’ergastolo ma poi lo liberò. Viveva in una casa modesta con 11 figli. Ci sono figure cui la storia sembra aver assegnato già nel loro aspetto fisico il destino al quale le chiama. Può essere la grande storia o anche la piccola - Gandhi e Rasputin, per esempio, oppure un John Charles, un John Lennon - e però poi sempre le loro biografie confermano che una sorta di metafisica fatalità è parsa dettare l’imprint genetico delle loro distinte vicende terrene, disegnandogli il corpo, le fattezze, i muscoli, le barbe, il volto. Per uno di costoro com’era lo sceicco Ahmed Yassin, quella suggestione sembra una norma autentica, una legge confermata nei fatti: se lui doveva essere il capo spirituale di Hamas - cioè della più dura e intransigente delle organizzazioni islamiche che lottano contro lo Stato d’Israele - allora non poteva che essere come tutti l’abbiamo conosciuto nel villaggio globale della tv, simbolo d’una sconfitta che vuole riscattarsi, piccolo, fragile, la lunga barba mistica, semicieco, vestito di panni candidi, tormentato da una vocina appena percepibile, e immobilizzato come un rudere sacrificale in quella sedia a ruote sulla quale veniva trascinato dai suoi adoranti seguaci. Sembrava un vecchio sanpietro musulmano, un antico sanmarco paralitico, un profeta fanatico che però ricuperava dalle forze possenti del cielo il carisma d’una vigoria che quel suo povero corpo disgraziato gli negava. Era in qualche modo, egli stesso, la manifestazione testimoniale del sacrificio alto, dell’impegno assoluto, al quale chiamava il suo popolo di fedeli. Il mondo musulmano d’oggi - lo vediamo tutti nelle sue manifestazioni davanti agli obiettivi impudichi delle telecamere, nelle proteste, nei cortei, nel pianto dei funerali collettivi, nell’esacrazione violenta dell’avversario - è segnato da una forte espressività retorica, dal bisogno di una accentuazione enfatica delle emozioni e dei sentimenti che sembra retaggio d’altri tempi, anche quando vive negli spazi contraddittori della società globalizzata. Yassin era l’eroe perfetto di questa simbologia di massa. E per questo affascinava e incantava la intera ”summa” islamica, dall’Atlantico all’Estremo Oriente. Era nato in un piccolo villaggio che oggi è l’Ashkleon israeliana, forse nel ’22 forse nel ’36, con quella indeterminatezza anagrafica che sempre segna la sorte dei profughi. E in un misero campo profughi dove a 12 anni giocava alla palla con altri bambini palestinesi si ruppe la spina dorsale, trasformandosi in un tetraplegico marchiato a vita. Cominciò gli studi in una università del Cairo (la leggenda dice quella di al-Azhar, naturalmente), affascinato dalla teologia islamica e dagli adepti della Fratellanza Musulmana, ma si trasformò presto in predicatore e in attivista, fondando egli stesso una prima organizzazione di lotta, la ”Gloria dell’Islam”. Alla fine, queste sono storie come tante, nell’universo islamico, storie dove la dottrina e la fede sono fatte anche di miseria, di rabbia, di desiderio di giustizia o di vendetta. Solo che la sua era una storia che quella carrozzella da paralitico, e il tono infiammato dell’ispirazione nell’appello alla lotta contro l’entità sionista, facevano diversa, capace di un forte e radicato consenso popolare. La nascita di Hamas fu così la naturale continuazione di questa fascinazione carismatica, e fu anche una naturale conseguenza che Hamas diventasse subito un ricchissimo contenitore di fondi finanziari destinati a rendere concreta - con un forte impianto di penetrazione sociale - qualla solidarieta nella lotta palestinese che intanto si esprimeva con bombe, attentati, assalti ai coloni, esplosioni kamikaze. Certo, di fronte alla natura tutta ”politica” dell’azione che Arafat e l’Olp andavano conducendo contro Israele, questa lotta che metteva l’Islam, e non la Palestina, sulla punta dei fucili dei feddayin segnalava una mutazione profonda nella guerra che da mezzo secolo si combatte in Terra Santa. E Israele pensò anche tatticamente di servirsene per indebolire la leadership di Arafat; fu però un gioco pericoloso, del quale Tel Aviv ebbe presto a pentirsi, sbattendo in galera (con una condanna all’ergastolo) lo sceicco che predicava il Jihad. Lo liberò, di nuovo con un calcolo sbagliato, in uno scambio di prigionieri, nel ’97; e da quel giorno l’inferno si insediò per sempre nei campi profughi che affollano disperati la terra arida della striscia di Gaza. La casa dello sceicco, nel quartiere di Sabra, diventò una sorta di santuario affollato di questuanti, metà centrale terroristica e metà banca etica. Erano tre piccole stanze perdute nei vicoli del campo profughi, dove lo sceicco viveva in una miseria esemplare con la moglie Halima e 11 figli, un palestinese tra milioni di palestinesi. Un giorno, parlando per conto del padre a Ramallah, negli uffici bianchi di Hamas, il figlio Abed mi disse: ”La volontà di Allah vince sempre. Noi siamo solo gli strumenti di quella volontà”. Lo sceicco ne è stato uno strumento certamente efficace, guadagnando alla sua causa fedeli e militanti numerosi quanto un vero esercito. Li riceveva nella prima stanza, subito dopo la porta d’ingresso (e subito dopo l’accurata perquisizione delle sue barbute guardie del corpo): stava semisteso su un materasso, con una leggera coperta addosso, e pile alte di libri attorno a lui. Con la sua vocina tenue impartiva ordini e consigli, giudizi e sentenze (disse anche che l’attentato dell’11 settembre era ”opera del Mossad”); ma soprattutto impartiva quello che lui chiamava la volontà di Allah. E per quella volontà, si diceva sicuro della propria vita. ”Un fedele non può avere paura, muore quando vuole Dio”. Il governo d’Israele glie l’aveva giurata. ”E’ un ”Ben Mavet’, un condannato a morte”, aveva detto di lui il viceministro della Difesa, Zeev Boim. E a settembre 2003 lo avevano quasi centrato, distruggendo con una bomba da mezza tonnellata la casa dalla quale era appena uscito. ”Ci vuole pazienza - aveva reagito lo sceicco - Bisogna saper aspettare: Israele scomparirà nel 2025”» (Mimmo Candito, ”La Stampa” 23/3/2004). «Vocina che dice in genere cose terribili e commina condanne a morte per ebrei e americani […] è per così dire un uomo di fede e di dottrina […] Biancovestito, malatissimo alle gambe, agli occhi, alla trachea, vive quasi in miseria in una stradina di Gaza, circondato dai suoi uomini che lo proteggono dalla folla adorante, è diventato un simbolo per tutto il popolo palestinese negli anni in cui l’Intifada è diventata l’Intifada di Al Aqsa, gli anni nei quali si sono fusi scontro territoriale e guerra di religione. Ha benedetto mille volte i terroristi suicidi, prima ancora di Arafat ha fatto degli shahid il simbolo della nuova guerra palestinese, ha condotto sulle sue orme l’epica palestinese, che era costituita di una ideologia completamente diversa, misto di progressismo e terzomondismo, sapore della lotta di liberazione nazionale che ha costituito il cemento dell’Olp di Arafat e dell’Intifada degli anni ’80. Solo più avanti, sotto la forte influenza di Yassin, l’ideologia si è traformata in immagini di martiri suicidi in volo verso il paradiso fra le rovine fumanti del mondo ebraico. Lo sceicco, arrestato varie volte e condannato all’ergastolo nel 1989 per rapimenti e omicidi di soldati israliani, uscì di carcere al tempo della gestione di Netanyahu nel settembre del ”97, in pieno processo di pace, con i buoni uffici del re Hussein di Giordania. Israele pensò allora che il paraplegico uscito dalla detenzione non avrebbe rappresentato un terribile pericolo, e comunque che la pace fosse avviata: l’errore fu letale. Immediatamente lo sceicco si avventurò in un energetico viaggio in tutto il mondo arabo, raccogliendo fondi e consensi deliranti, osannato da una folla che gli dette, e dette ad Arafat, il segno di quanto il mondo arabo tenesse poco al processo di pace, e molto all’identità islamica. Al ritorno di Yassin, dopo che negli anni precedenti Arafat aveva tentato di indebolire Hamas fino a farlo morire, mettendone anche molti militanti in prigione, il raíss ricostruì con Yassin un’amicizia testimoniata da molte prese di posizioni pubbliche. Il risultato fu la legittimazione dell’organizzazione, che aumentò le sue risorse economiche e incrementò la sua strategia terroristica, e la progressiva saldatura dei suoi legami con l’Autonomia palestinese con autentici patti di unità nazionale» (’La Stampa” 28/6/2003).