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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

ZACCHERONI Alberto

ZACCHERONI Alberto Meldola (Cesena e Forlì) 1 aprile 1953. Allenatore di calcio. Dall’agosto 2010 ct del Giappone, che nel gennaio 2011 ha condotto al successo nella coppa d’Asia. Lanciato dall’Udinese, nel 1998/1999 passò al Milan vincendo immediatamente lo scudetto con una memorabile rimonta (da-7 a +1) ai danni della Lazio. Esonerato nel 2000/2001 dopo l’eliminazione dalla Champions League, nel 2001/2002 subentrò a Dino Zoff sulla panchina della Lazio ma a fine anno, mancata la qualificazione in Champions League e con sulla coscienza un derby perso per 5-1, non fu confermato. Nel 2003/2004 allenò l’Inter (dopo Cuper, prima di Mancini). Dalla 22ª giornata fino alla fine del campionato 2009/2010 sulla panchina della Juventus (in sostituzione dell’esonerato Ciro Ferrara, fece addirittura peggio chiudendo il campionato al 7° posto). Ha allenato anche Torino, Bologna, Venezia, Cosenza • «“Quando avevo 14 anni chiudevo gli occhi e mi immaginavo a San Siro. Dentro quello stadio, giocatore, con la gente che mi guardava e mi chiamava. Lo sognavo quando giocavo nel Meldola, in prima categoria. Io a San Siro, tutte le sere, prima di addormentarmi. Chiudevo gli occhi e correvo come un matto. La realtà era diversa”. La realtà è la pensione Ambrosiana a Cesenatico. Adamo Zaccheroni, il papà, è tifoso dell’Inter di Giorgio Ghezzi. “Quarantacinque camere, durante la stagione si lavorava ma era dura”. Alberto con i suoi a tavola mangia sì e no dieci volte. “Mi mettevano una bistecca fra due piatti, io andavo al campo sportivo a stomaco vuoto e pensavo solo a giocare e la bistecca restava lì sino a sera...”. Il piccolo Zac è bravino, lo chiamano a Bologna, Allievi. Poi torna a Cesenatico in serie D e si ammala: adenopatia ilare, la stessa malattia di Roberto Bettega. “Solo che lui è tornato a giocare”, dice Alberto. Il calcio gli piace, gli affidano i pulcini dell’Ad Novas. Un piccolo salto: allievi del Cesenatico, due anni e una stagione in C2 con deroga, sempre con i ragazzi. “Poi mi chiamavano in prima squadra. Partivo dal settore e subentravo all’allenatore esonerato. È successo a Cesenatico, a San Lazzaro, a Riccione. I giovani sono sempre stati il mio punto di riferimento”. Nel settembre del 1992, a Venezia, dice: “Mi piacerebbe tornare a occuparmi di vivai”. Invece parte per Bologna ma lo cacciano subito. Lì subisce una grande delusione: dodici partite, licenziato. Si trasferisce a Cosenza e “fa molto bene”. Parte con un pesante handicap (meno 9 punti) ma risale con il gioco: incanta gli addetti ai lavori. Va a Udine e fa nascere l’Udinese di Zac. Straordinaria, con le ali, la difesa a tre e la torre. Spettacolare ed europea. Al suo secondo anno di A, al Delle Alpi, travolge con i suoi attaccanti e il suo gioco la Juve campione d’Europa in carica e vicinissima alla scudetto. Alla terza stagione friulana vince la Panchina d’oro. Impresa strepitosa per il tecnico di una provinciale. Nella primavera del 1998, alle undici di sera, entra negli uffici di Massimo Moratti, zona San Babila. Colloquio amabile, stretta di mano. Vale, si dirà, una firma. Massimo Moratti ha già deciso il cambio: via Gigi Simoni, in panchina Alberto Zaccheroni. Il 6 maggio 1998, a Parigi, l’Inter vince la coppa Uefa contro la Lazio. Gigi Simoni rimane. Moratti telefona a Zac, sciolgono il patto. Alberto confesserà: “Era imbarazzante per me e per lui”. Non è più l’allenatore dell’Udinese, non sarà quello dell’Inter e rischia di stare fermo. Ma il Milan di Capello crolla a Roma (5-0) e Galliani lo cattura: subito la firma. Sandro Mazzola cerca di far saltare l’operazione. Non è più possibile. Zac va al Milan e vince subito lo scudetto, Moratti gli telefona: “Caro Zaccheroni, mi dispiace ma sono contento per lei. Complimenti”. Zac sospira: “Eh, io sono stato per tre mesi l’allenatore dell’Inter”. Poi Berlusconi lo manda via. Zac, detto il Napoleone di Meldola, non è amato dal presidente che lo considera un “sarto”. Resta nel grande giro, va alla Lazio. L’esperienza è pesante, vive male, è contestato. Ammette errori, resta fermo più di un anno» ( Germano Bovolenta, “La Gazzetta dello Sport” 20/10/2003) • «La leggenda racconta che quandò Berlusconi, allora all’opposizione, si accorse che Alberto Zaccheroni, allora allenatore del Milan, custodiva la tessera di Rifondazione nel portafoglio come un santino, chiamò Galliani e ne chiese il licenziamento. Galliani, solitamente ligio agli ordini del padrone a cui dà ancora del “lei”, nicchiò, cercando la mediazione. “È sul punto di vincere lo scudetto al primo colpo, cacciarlo sarebbe un atto di censura evidente. Un assist per la sinistra”. “Trovi il pretesto - ribattè il multipresidente - uno così inquina l’ambiente”. Grazie a un recupero da fantascienza sulla Lazio (di Vieri, Nedved, Mancini e Nesta) Zaccheroni vinse davvero lo scudetto (con una squadra che l’anno prima Capello aveva lasciato precipitare al decimo posto) ma Berlusconi anzichè incensarne le qualità andò in tv per spiegare che il merito era principalmente suo: “L’ho convinto a far giocare Boban. E gli ho spiegato come”. A quella picconata ne seguirono altre, fino a ubriacare la contabilità. L’inevitabile esonerò arrivò quando il Milan - stagione seguente - fu eliminato dalla Champions e Berlusconi ci tenne ad annunciarne la cacciata in diretta: “Se i miei collaboratori avessero dato ascolto a chi vede lontano, non saremmo arrivati a questo punto. Via questo allenatore, rimetterò le cose a posto”. In realtà Zaccheroni non aveva la tessera di Bertinotti, ma non ha mai smentito di avere simpatie per la parte politica che il presidente del Milan ripugna. È per questo che - nonostante la disponibilità – nell’estate del 2002 (con Berlusconi da un anno premier) gli fu impedito di prendere il posto di Trapattoni sulla panchina azzurra reduce dal disastro Mondiale. Fu contattato sottotraccia, anticipò il verdetto: “Io vengo, ma Berlusconi lo sa?”. L’Italia si tenne Trap, infatti, e Zaccheroni continuò a ricevere lo stipendio dalla Lazio che lo pagava per non lavorare, avendolo sollevato dall’incarico quando ingaggiò Mancini. [...» (Giancarlo Laurenzi, “La Stampa” 20/10/2003) • «Il 3-4-3 è una mia invenzione. Sembrava un gioco complicato, addirittura sbagliato. A Udine non giocavamo su binari fissi, non eravamo semplici, mentre per me il calcio deve essere soprattutto semplice. Ma nacque così, a coppie di giocatori che giocavano vicini. Uno creava lo spazio e uno ci si inseriva. Lo chiamavo il movimento “a virgola”. Una specie di ricciolo […] Avevamo trovato un nostro equilibrio, i giocatori si divertivano a prendere di sorpresa gli avversari. Perché questo è il calcio: sorpresa […] Io giocavo normalmente il 4-4-2. Quando ero in svantaggio, passavo di solito al 4-3-3 di Zeman, ma mi cambiavano tutti i punti di riferimento. Diventava un’altra squadra. Finivo cioè per aggiungere una punta in più quasi per caso, come se naturalmente quando si perde si debba mettere una punta in più. Ma la squadra, l’equilibrio, saltava quasi completamente […] Poi in ritiro, cominciai a mettere il nuovo schema negli allenamenti. Scuotevano tutti la testa, si sentivano vulnerabili. Nelle amichevoli giocavamo un tempo il 4-4-2 e un tempo il 3-4-3. Cambiavamo letteralmente marcia, segnavamo molti gol e creavamo moltissimo, ma i miei non erano ancora convinti.. Dicevano che facevamo gol perché gli avversari erano deboli. Andai avanti con cautela […] Finché un giorno di primavera andammo a Torino contro la Juventus. Lippi aveva strabattuto il Milan di Sacchi la domenica prima a San Siro, 6-1, e aveva vinto in Coppa con l’Ajax a Amsterdam. Dopo venti minuti perdo Genaux, restiamo in dieci. Ordino di giocare un 3-4-2. Vincemmo 3-0 e la nostra vita cambiò» (Mario Sconcerti, “Guerin Sportivo” 23/4/2002).