Varie, 7 marzo 2002
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Zanardi Alessandro
• Bologna 23 ottobre 1966. Pilota. Ha gareggiato per 4 anni in F1 dal ”91 al ”94 (con Jordan, Minardi e Lotus), poi si è trasferito in America, dove ha vinto nel ”97 e nel ”98 il campionato Cart. Nel ”99 in F1 alla Williams. Poi, nella formula Cart, il 15 settembre 2002 l’incidente al Lausitzring, in cui ha perso le gambe. «Ogni pilota, quando siede nell’abitacolo, è consapevole dei rischi che affronta. Ma credo che questo aspetto, peraltro ingigantito ad arte da organizzatori e media, non sia l’elettrizzante ragione che ti spinge a schiacciare l’acceleratore a tavoletta. Spesso, nel corso della carriera, mi sono trovato di fronte a interlocutori che mi hanno posto questa domanda. Io credo che l’unica molla in grado di innescare quel meccanismo sia la passione, l’amore per sensazioni che solo percorrendo una curva a velocità folle riesci a provare […] Il pilota pensa che non toccherà mai a lui. A me è toccato. E non passa giornata in cui non provi un po’ d’invidia per chi corre, gioca a tennis o scia su un manto di neve» (’Sportweek” 9/3/2002). «’...però, Zanardi da Castel Maggiore!” è la frase simbolo di tanti momenti della mia carriera e della mia vita. quella che esclamavo, dentro di me, quando mi ritrovavo su un podio - dai kart alla F.3000, alle gare americane - dopo aver vinto una corsa difficilissima. Oppure appena dopo un sorpasso impossibile, come quello famoso di Laguna Seca. Insomma, quando riuscivo a raggiungere traguardi che, sulla carta, erano quasi vietati. Perché, a dispetto del mio essere un po’ esibizionista e quasi sbruffone, ho sempre covato l’insicurezza tipica di chi parte da origini umili e da un piccolo paese, Castel Maggiore appunto. Vedevo i traguardi da raggiungere e i rivali da sfidare come qualcosa di imbattibile. stata la mia fortuna. Temendo di non essere il migliore, ho sempre rispettato tutti e mi sono preparato più del necessario. Coltivando quella forza d’animo che - dopo Berlino - mi ha fatto vincere la corsa più difficile. […] A tredici giri dalla fine ero in testa. Mancava l’ultimo rifornimento che il ritmo elevatissimo aveva reso necessario per tutti. Uno splash & go, come si dice in gergo, una spruzzata di benzina per finire e via. Ripartendo velocissimo, con i ragazzi del team che mi spingevano con gli occhi e con la voce, ero sicuro di essermi messo dietro anche l’ultimo ostacolo. Ho imboccato l’uscita della corsia dei box, che corre parallela al tracciato, pensando: ” fatta!”. Per qualche motivo a metà di quella striscia di asfalto, irregolare e sconnessa, la macchina si è girata. Ho attraversato un pezzo di prato e sono finito in pista, cercando di controllare la monoposto in testacoda, mentre il gruppo arrivava a 340 chilometri orari. Poi, improvvisamente, è sceso il buio. Capii qualcosa. Fu un attimo. Una parte della macchina rimase con me, l’altra se ne andò con una parte di me. Non so se mi resi conto di qualcosa, non me lo ricordo. Ma, riguardando le immagini, si capisce che tentai di fare quello che solitamente si fa dopo un incidente con poche conseguenze, poco cruento. Cercai di aprirmi la visiera del casco, tentai di slacciarmi le cinture nei pochi attimi di lucidità seguiti alla botta che per me, francamente, non deve essere stata molto intensa. Se la macchina avesse resistito avrei preso una sventola mostruosa, soprattutto per la decelerazione che il mio corpo avrebbe dovuto sopportare. Invece la monoposto cedette di schianto, un colpo secco: io quasi non sentii l’energia dell’impatto, ne assorbii poco o niente, tanto che il casco non aveva nemmeno un segno. Devo aver realizzato qualcosa solo quando, a un certo punto, guardai davanti: non c’era più la macchina e nemmeno le mie gambe. Prima di perdere i sensi, comunque, qualcosa devo aver capito. Di tanto in tanto se mi sforzo - non so se sia la mia immaginazione o solo alcuni ricordi spezzati - affiora qualche immagine. Un giorno forse la scena tornerà del tutto. Non sono spaventato, non può procurarmi più male di quanto abbia già fatto. Intorno all’elicottero avevano fatto un cordone per impedire a chiunque di avvicinarsi. Solo due persone riuscirono a oltrepassarlo: padre Phil, il padre spirituale della Cart, che raccogliendo dell’olio dal motore della mia macchina mi diede l’estrema unzione, e Daniela. Non volevano lasciarla passare ma lei, spingendo come una disperata, riuscì ad avvicinarsi. Nessuno ebbe il coraggio di dirle: ”No, non si può”. Mi baciò e mi disse: ”Amore resisti! Tieni duro, ce la farai. Io non posso venire con te in elicottero ma ti seguo subito in macchina. Arrivo il prima possibile, tu non mollare”. Vicino a lei restò sempre Ashley Judd, la moglie di Dario Franchitti, che è una nota attrice statunitense. Ashley restò molto impressionata da una scena che, nei mesi seguenti, ci raccontò varie volte. Qualcosa che, secondo lei, ebbe del sovrannaturale. C’era un uomo tedesco, molto robusto, che guardava la scena senza muoversi. Quando Daniela venne a baciarmi prendendomi la mano e dicendomi di resistere, quest’uomo cominciò a urlare nel silenzio generale. Tutti erano zitti, impotenti di fronte a quanto stava accadendo, e lui con una voce fortissima gridò: ”Gli stai dando una nuova vita: lui vivrà, lui vivrà!”. ”Sarò stata anche suggestionata”, raccontò poi Ashley, ”ma quell’uomo si è illuminato di luce e io, in quel momento, gli ho creduto. Ho pensato davvero che ce l’avresti fatta”» (’La Gazzetta dello Sport” 18/7/2003). Nell’ottobre 2003 il ritorno alle gare, a Monza nell’Europeo Turismo. «In tutta onestà, le mie vere soddisfazioni sono quelle di mettermi le gambe al mattino e togliermele quando è finita la giornata. Cosa che molte volte capita all’una o alle due del mattino. [...] Quando mi presentai il primo giorno al centro ortopedico, i medici mi fecero vedere una persona amputata delle gambe all’altezza della coscia che secondo loro camminava bene. Io, lo confesso, mi dissi: càspita. Poi quando cominciai a sentire quanto le persone mediamente riuscivano a portare le protesi durante la giornata, mi demoralizzai un po’. Adesso non credo di essere l’unico al mondo che fa quello che faccio. Però, sicuramente, il 90 per cento delle persone nelle mie condizioni non camminano, usano le protesi per una questione estetica: andare al ristorante su una sedia a rotelle senza gambe è brutto. Io invece sono riuscito a tornare a una vita assolutamente normale, questa è la grandissima conquista» (Nestore Morosini, ”Corriere della Sera” 25/9/2003).