Varie, 7 marzo 2002
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Zeffirelli Gianfranco
• Firenze 12 febbraio 1923. Regista. Si è imposto per le sue spettacolari regie nel teatro di prosa e in quello lirico. Conosciuto e apprezzato nel mondo per i molti film girati, tra gli altri Camping (1957), La bisbetica domata (1967), Romeo e Giulietta (1968), Gesù di Nazareth (1977), La traviata (1983), Otello (1986), Il giovane Toscanini (1988), Amleto (1990), Storia di una capinera (1994), Jane Eyre (1995), Un tè con Mussolini (1999) • «Un’infanzia dolorosa vissuta nella Firenze del fascismo tra i cappelli di paglia e il tè di alcune squisite ma perfide nobildonne inglesi […] Si nasceva balilla, si diventava avanguardisti e infine giovani fascisti. Però le marce e i discorsi che ascoltavo dall’altoparlante sotto le finestre del centralissimo atelier di mia madre mi annoiavano da morire. Avevo meno di sei anni: quando sono stato in grado di capire, la mia avversione alla violenza della dittatura è stata una presa di coscienza […] I figli illegittimi in quegli anni avevano una lettera secondo l’ordine alfabetico. Quando venne il mio turno toccava alla zeta, e giacché mia madre amava l’aria degli Zeffiretti di Mozart in Così fan tutte, scelse proprio quel cognome. Fu il caso a decidere per Zeffirelli: l’impiegato dell’anagrafe infatti dimenticò di apporre i trattini sulle t. Ma il destino mi ha fatto un altro grande regalo: l’incontro con le adorabili, e insieme terribili, lady che, alla morte di mia madre, quando avevo appena sei anni, si sono occupate di me e della mia educazione. Sono loro che mi hanno insegnato a vivere» (Laura Delli Colli, ”Panorama” 25/3/1999). «Per via della mia franchezza ho sempre suscitato un certo fastidio al conformismo politico e culturale italiano. Dico quello che penso e sono spesso stato confermato dalla Storia. Come il mio anticomunismo viscerale. […] Certamente non sono ateo. So che c’è un’entità superiore che cerco attraverso gli anni di definire, che è sempre più presente. L’idea che Dio non esista è inaccettabile […] Bisogna abituarsi ad accettare il nostro destino mortale. Viviamo come se fossimo eterni, come se la morte non ci toccasse. Andiamo ai funerali degli amici, dei parenti, con quell’atteggiamento distaccato come a dire ”poverino, è toccata a lui”. Non pensando che un giorno toccherà a noi. Quando vado a un funerale penso al mio funerale […] Non mi è pesato l’ostracismo in patria, perché comunque non ha danneggiato la mia carriera. Mi ha indispettito perché è un ostracismo ideologico. E’ stato manovrato dal possesso della cultura operato dai comunisti in questi ultimi cinquanta anni. Siccome non ho mai nascosto quello che pensavo di loro e di Stalin, allora venivo messo al bando» (Gigi Marzullo, ”Sette” n. 15/1999). «Nel mio lavoro è implicita l’esigenza del comunicare. Non puoi andare a letto con qualcuno pensando ad altro, e fare cinema vuole dire proprio questo: fare l’amore con il pubblico. La pressione arriva dall’immensità della macchina: ogni film è come muovere un esercito. Per questo ho sempre sognato di fare film piccoli, agili e improvvisi, e forse un po’ mi è riuscito con un Un tè con Mussolini, dove ho rivisitato la mia adolescenza e l’orrendo periodo del fascismo […] In tutti i miei film ci sono parti di me. Io sono stato Mercuzio, Giulietta e Romeo. Sono stato Amleto, la Caterina della Bisbetica domata e il personaggio di Jeremy Irons in Callas Forever. In fondo ogni regista non fa che raccontare se stesso. Visconti diventava tutti i suoi personaggi, anche i pescatori di Acitrezza […] Tullio Serafin mi ha fatto capire che per fare una buona regia lirica bisogna servire il compositore, e non creare, come accade oggi, spettacoli in cui i registi si compiacciono solo di se stessi. Si mette in scena Verdi, o Gounod, o Berg, e tutte le produzioni sono uguali, vi riconosci il regista e non l’autore. La cantante bistrata, le luci psichedeliche, il seno nudo, gli specchi sberluccicanti... Tanto per sbalordire il pubblico, che diventa sempre più estraniato dalla lirica […] Giorgio La Pira mi ha impresso svolte fondamentali. Veniva a giocare con noi ragazzi dai Frati di San Marco, a Firenze. Nel ”43, quando dovevamo arruolarci per Salò, ci disse: andate in montagna a fare la Resistenza, ma rammentate che fascismo, comunismo e nazismo sono la stessa cosa […] Per 40 anni, anche quand’era molto politicamente scorretto (oggi essere anticomunisti non fa più notizia), ho messo a rischio la mia carriera dicendo quello che pensavo contro i vari Maselli & Company. Sono stato espulso dalla Società Autori Italiani, 97 voti contro 105, perché avevo attaccato in un’intervista l’omologazione politica del cinema nazionale. Fellini si defilò, Suso Cecchi D’Amico fu tra i pochi che votarono a mio favore. E per fortuna nel frattempo trionfavo all’estero. Se fosse stato per gli italiani, a quest’ora languirei all’ospizio» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 11/2/2003). «’La mia colpa è aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni? Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo” e qui gli uomini di casa Zeffirelli accelerano il ritmo di pulitura dei suoi sette cani, ”però, insomma, proprio comunista no. Ricordo quando giravamo La terra trema. Vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 1947 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che uso tuttora, Hammam bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno dopo. Poi il ”comunista’ Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo. [...] Non dico abbia sparso il sale per convenienza. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba. La responsabilità è pure di Coco Chanel. Visconti era partito per Parigi con i suoi cavalli. Il campione non conquistò Longchamps, ma il padrone, bellissimo, affascinante, conquistò Parigi. Coco Chanel se ne invaghì, visse con lui una storia molto accesa, e gli parlava di continuo di Léon Blum e del Front Populaire. Importante fu anche l’influenza di Jean Renoir, comunistissimo, che volle Visconti come assistente e lo introdusse al cinema, lui che era cresciuto nel palazzo di famiglia con teatro di corte. Prima di rendere omaggio al moloch comunista, pescato da Antonello Trombadori, Luchino ha avuto la fase fascistoide e quella mistica. Il suo tratto decadente ha sempre convissuto con quello populista, il Gattopardo con Rocco e i suoi fratelli, il Ludwig con La terra trema; la sua personalità si affacciava su mondi che erano entrambi dentro di lui. Altri invece hanno obbedito al Minculpop comunista per opportunismo. Prenda Picasso: miliardario mascalzone, avido, senza nessun riguardo per gli umili, ha accumulato una fortuna senza mai fare beneficenza in vita sua. Eppure, bastava spargere il sale per vedersi spalancare tutto, occasioni di lavoro, sostegno della critica, spazio sui giornali. Ed è ancora così”. Davvero resiste l’egemonia della sinistra nella cultura? ”Certo. Il Minculpop non è mai finito. Prenda me. Non mi piace fare vittimismo, ma insomma quest’anno sono stato a far conoscere agli inglesi Pirandello come avevo già fatto con Eduardo, ho sbalordito Londra, eppure in Italia non se n’è occupato nessuno. La mia autobiografia è tradotta in 12 lingue, in America dove pure non è ancora morto il politicamente corretto ha avuto 3 edizioni, ma in Italia non trova un editore. Quindici anni fa portai a Venezia Il giovane Toscanini. Non sarà stato uno dei miei film migliori, però non attesero neppure di vederlo, cominciarono a rumoreggiare appena sullo schermo apparve il mio nome. Continuarono per tutto il tempo. Alle 3 di notte, mentre ero solo in camera, distrutto dalla rabbia, davanti a una bottiglia di whisky, ricevetti una telefonata. Una voce amica che mi diceva: ”Mi vergogno di essere italiano. Dobbiamo salvarli da loro stessi, perché non sanno quello che si fanno’. Era Silvio Berlusconi. Solo una volta ebbi un coro di consensi. Fu quando girai Un tè con Mussolini. Il complimento migliore venne da Tullio Kezich, che lo definì il film più antifascista della storia del cinema”. Marcello Veneziani invece trovò caricaturale il personaggio di Mussolini. ”Ma quella era una favola. Il Duce visto con gli occhi di un ragazzo, come ce lo volevano far vedere. Il resto, però, è vero”. la storia della sua infanzia e della sua formazione, a cominciare dal nome. ”Zeffirelli non esiste. Se l’è inventato mia madre, Alaide Cipriani. Io sono un figlio dell’amore. Mio padre si chiamava Cursi ed era sposato con un’altra donna, quando mi riconobbe ero già grande. Mamma aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di moda in piazza della Repubblica. La mia nascita fu uno scandalo per tutta Firenze. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni. Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, impersonata nel film da Cher, che saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Mary invece mi iniziò alla democrazia. Gli altri miei maestri furono padre Coiro, priore di San Marco, e un professore di diritto romano che frequentava il convento, Giorgio La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti uguali, ma il comunismo è più pericoloso. Ricordo La Pira rimproverare il priore: ”Perché citi Marx? C’è già tutto nel Vangelo!’. Poi fu l’ora della Resistenza. ”Andai in montagna da cattolico liberale e rischiai di essere ammazzato dai comunisti. Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia”. Zeffirelli non è tra coloro che ritengono chiusa la ferita della guerra civile e finita la guerra fredda. ”Siamo ancora lì. Non sono cambiati. Hanno distrutto il partito socialista. Impediscono all’Italia di diventare una democrazia normale, dove si confrontino liberali e laburisti. Alimentano l’oscenità e la stupidità dei no global, finti ribelli figli di veri ricchi; la penso come Pasolini, un altro che aveva sparso il sale ma fu sempre molto carino con me, grande amico e grande scrittore, anche se non grande regista. Ho difeso Oriana Fallaci quando attaccò il Forum di Firenze, ho condiviso la rabbia e l’orgoglio con cui reagì alla grande minaccia del nostro tempo, l’integralismo islamico. Berlusconi è stato messo in croce per aver giustamente rivendicato i valori della civiltà occidentale. Lo sento spesso, è un uomo di straordinaria lealtà verso gli amici. Gli altri sono ancora impregnati della cultura staliniana dell’odio. Non vede quanto sono modesti i loro registi? Benigni me lo ricordo trent’anni fa: faceva i numeri ai tavoli dei ristoranti romani, almeno quelli gli venivano bene. Non ricordo invece un suo film riuscito, tranne forse Johnny Stecchino. Di Moretti non saprei dire, nessuno dei suoi film mi è passato oltre le cornee”. Dei colleghi non parla sempre bene, ma riconosce che tra grandi non ci si ama. ”Tutti hanno sparso il sale, persino De Filippo e De Sica, che di comunista non avevano nulla. Io sono un miracolo. Se avessero potuto mi avrebbero fatto sparire. Mi ha salvato l’estero. [...] No, non lavorerò più alla Scala, finché ci sarà Muti, un uomo ubriaco di se stesso. [...] Ho incontrato Maria Callas e madre Teresa, Jeremy Irons e padre Pio. Sono stato senatore» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 9/12/2003).