Varie, 7 marzo 2002
ZEVI Tullia
ZEVI Tullia Milano 2 febbraio 1919, Roma 22 gennaio 2011. Giornalista. Fu a lungo presidente delle Comunità ebraiche italiane (1983-1998) • «[...] “Mio padre, Giuseppe Calabi, milanese anche se portava un cognome che viene da Halabi e che dovrebbe indicare la nostra città d’origine, Aleppo, era avvocato di grandi aziende. Impegnato politicamente, amico di Toscanini e frequentatore della libreria Baldini e Castoldi, si poteva definire un repubblicano antifascista, laico e quasi certamente massone. Mia madre, Maria Bassani, ferrarese, teneva di più alle tradizioni. Ho frequentato scuole pubbliche e vivevo, da bambina, seguendo le regole dell’ortodossia materna. Il venerdì sera si cucinava, il sabato si restava in casa, facevamo parte di un circolo segreto invisibile. In generale, gli ebrei italiani sono ortodossi. I ghetti erano stati chiusi, in fondo, soltanto nel 1870. Era normale pensare che ci si dovesse sposare fra di noi, diciamo che i matrimoni misti erano rarissimi, praticamente inesistenti”. Con le leggi razziali, la famiglia Calabi si sente in pericolo e sceglie l’espatrio: “Ricordo come fosse ieri quel giorno d’estate del 1938 in cui mio padre ci raggiunse in Svizzera, dove eravamo in villeggiatura, e ci disse: qui vogliono farci fare la fine del topo, non si torna più a Milano. Sentii la casa cadermi addosso, partimmo per Parigi, mettemmo in salvo qualche mobile e qualche simbolo sì... una menorah (candeliere a sette luci, ndr) cui sono legatissima, che era sempre stata in casa, nascondemmo tutto in Francia e riuscimmo ad imbarcarci per l’America con l’Ile de France, l’ultima nave in partenza da Le Havre, insieme alle vedove e ai figli dei fratelli Rosselli, trucidati nel 1937”. L’arrivo nel continente nuovo, le nuove scuole, le nuove amicizie, accendono nella giovane Tullia le naturali curiosità dell’adolescenza. “Negli Stati Uniti in principio, cercavo di conquistare un po’ di libertà, ma i miei genitori erano severissimi: le buone abitudini, mi dicevano, sono l’unica cosa che ci siamo potuti portare fin qui. Mi sposai con Bruno Zevi (grande architetto e storico dell’architettura scomparso nel 2000, ndr), il padre dei miei figli Luca e Ada, un ebreo di una famiglia emigrata in Palestina, molto ligi alle prescrizioni. E dunque la cerimonia fu celebrata alla sinagoga spagnola che è nel cuore di New York, vicino a Central Park, nel 1940: matrimonio religioso in piena regola, anche se il vestito costava pochi dollari. Quando ti strappano dalle radici e sei costretto a lasciare la tua terra, l’identità diventa fortissima”. [...] dopo la separazione dal marito, è venuta ad abitare nel cuore del Ghetto di Roma. [...] “non ho mai ostentato la fede, non porto stelle di David al collo, la nostra generazione era sì legata al passato ma cercava di integrarsi nella società civile in modo davvero laico. I miei figli sono andati alle scuole Montessori, poi nei licei e nelle università statali. I miei nipoti, e in generale altri loro coetanei, sono molto più osservanti di quanto fossimo noi. La pulsione identitaria, sfidata e costantemente messa alla prova dagli attacchi ideologici e terroristici, in loro è dirompente”. La sua lunga esperienza di dialogo fra diversi le ha insegnato a resistere alla tentazione di voler prevalere sugli altri. “Noi ebrei abbiamo un dovere: ricordare il nostro passato di servitù, quando siamo stati schiavi in Egitto, ci aiuta a tutelare i valori delle libertà. Anche quelle altrui, anche quelle di chi ci minaccia, anche quelle di chi ci fa paura”. [...]» (Barbara Palombelli, “Corriere della Sera” 30/10/2006) • «Quando fui eletta, il rabbino capo di Roma Elio Toaff si oppose: sosteneva che essendo io una giornalista c’era il rischio che facessi prevalere la mia professione sulla segretezza di certi temi che la nuova carica mi avrebbe portato a trattare. Mi sottoposero a un lunlungo interrogatorio per vagliare la mia affidabilità. Non credo che un uomo, giornalista, avrebbe dovuto affrontare un simile esame […] Ricordo ancora il consiglio che mi diede una vecchia giornalista svedese quando, a 23 anni, andai a seguire per l’agenzia “Religious news service” il Processo di Norimberga: “Non chiedere mai permesso a nessuno”. E nella religione ebraica si dice: “Se non c’è un uomo, fatti uomo”. E’ un concetto che può essere interpretato in molti modi, io ho nteriorizzato la la parità. Però l’idea di aver bisogno di un puntello maschile è ancora forte in molte donne. E non si capisce perché: siamo molto più coraggiose, col parto rischiamo la vita, ma non stiamo mica a ripetere che fa tanto male. Diffido di una storia fatta con le spade e i monumenti equestri, questo bisogno di eroismo nasconde una grande paura» (“Il Venerdì”, 2/3/2001).