Varie, 8 marzo 2002
ARPE Matteo
ARPE Matteo Milano 3 novembre del 1964. Banchiere. Ex amministratore delegato di Capitalia (dal luglio 2003 al maggio 2007). Nel novembre 2011 condannato a 3 anni e sette mesi per bancarotta nell’ambito del processo per la vendita delle acque minerali siciliane Ciappiazzi alla Parmalat (gennaio 2002) • «Il più giovane banchiere italiano mai arrivato al timone di un grande colosso del credito […] si è laureato in Economia aziendale alla Bocconi nel 1987 per entrare immediatamente in Mediobanca, dove da capo dell´area finanza ha seguito, tra l´altro, la “madre di tutte le Opa”, la scalata a Telecom di Roberto Colaninno. Lasciata Piazzetta Cuccia nel 2000, è diventato membro del comitato esecutivo del gruppo Lehman Brothers con la responsabilità dell´attività di strategic equity. Ma nell´ottobre 2001 è tornato in Italia, diventando prima amministratore delegato e direttore generale del Mediocredito Centrale (oggi Mcc) e poi (il 16 maggio 2002) direttore generale di Capitalia, la Holding di controllo di tutto il gruppo messo insieme da Geronzi, operativa dal 1 luglio 2002» (Fabio Massimo Signoretti, “la Repubblica” 23/7/2003) • «[...] laurea alla Bocconi, voce suadente e occhi azzurri [...] Ma chi è Arpe? [...] Alla scuola del potere finanziario - quello duro - è professionalmente nato e cresciuto. È stato enfant prodige quando due mesi dopo la laurea in Bocconi entra a Mediobanca e quando “a 33 anni lo stesso Enrico Cuccia mi volle a capo del servizio finanziario di Mediobanca”. Non dura troppo, perché già due anni dopo, in rotta di collisione con l’allora amministratore delegato Vincenzo Maranghi sbatte la porta e si trasferisce a Londra per Lehman Brothers. Il biglietto di ritorno è per Roma, chiamato da Cesare Geronzi. Di quella Mediobanca gli è rimasta un’allergia profonda per ogni tentativo di attribuirgli schieramenti politici. “Sono un tecnico, un manager che non considera questa definizione come riduttiva”, ha detto [...] Fuori dalla politica anche se - o forse proprio perché - il destino ha voluto che a portarlo a Roma fosse Cesare Geronzi, il banchiere politico per eccellenza. Qualche tempo fa è arrivato addirittura a spedire una garbata lettera di contestazione a Panorama che lo aveva inserito in un elenco di banchieri attribuendogli sostanzialmente l’etichetta di bipartisan. Nemmeno quella. “Non faccio vita sociale, piuttosto vado a mangiare una pizza con i miei collaboratori che sono miei amici - ha raccontato -. E poi sono un grande frequentatore di Blockbuster”. Un’immagine quasi monacale che non sfugge alla retorica del manager in prima linea e si nutre di una ricca anedottica: dall’orario 8.20-22.30 alle poche settimane di vacanze strappate lungo l’anno: sei giorni a sciare per Natale, in estate la barca o a Capalbio in casa affittata, assieme ai due figli che appena può va a trovare. [...] come ha sbattuto la porta in Mediobanca, quando ha considerato che era tempo di uscirne, così non ha esitato a sbattere la porta di Capitalia per tenere fuori chi considerava ospite non invitato. “Penso di essere un animale - ha detto ai suoi - che difficilmente si può far chiamare da qualcuno dicendo quello che deve fare”» (Francesco Manacorda, “La Stampa” 14/3/2006) • Mentre era a piazzetta Cuccia ha lavorato a quattro grandi privatizzazioni (Telecom Italia, Banca di Roma, Bnl, Enel) e a due Opa di grande livello (Olivetti su Telecom, Milano Centrale su Unim). «Ma aveva accumulato troppo potere. E l’amministratore delegato, Vincenzo Maranghi, lo costrinse alle dimissioni nel dicembre 1999». Tra il maggio 2000 e il settembre 2001 ha lavorato per Lehman Brothers. (“L’Espresso”, 18/10/2001) • «Un “moderno uomo Mediobanca”: un misto tra uno “sfacciato banchiere della City ed uno scaltro dirigente di Mediobanca”. Il quotidiano britannico “Financial Times” lo descrive così» (“Corriere della Sera” 9/3/2002) • «È un rottweiler. Guai a incontrarlo come avversario sul proprio cammino. Chi lo ha incrociato, sa che con Arpe è difficile spuntarla, soprattutto quando si tratta di affari. Prende di petto l’antagonista e non molla la presa. Finché quello non ha scampo. E lui può celebrare con la sua frase preferita: “The game is over”, il gioco è chiuso. [...] Lo stile muscolare di Arpe ha creato a volte qualche imbarazzo. Come quando, dopo il collocamento di Astaldi in Borsa, lui voleva per il Mediocredito tutte le commissioni, lasciando a secco gli altri global coordinators Interbanca e Commerzbank. Poco mancò che si arrivasse alle mani. E Astaldi dovette riconoscere un’extra-ricompensa per la banca di Matteo. L’abitudine a non darla vinta l’ha avuta da sempre. Quando era al liceo, lo scientifico Paolo Frisi di Monza, in terza fu rimandato a settembre con un cinque in italiano. Preferì non presentarsi all’esame di riparazione e recuperò l’anno in una scuola privata. [...] Prendiamo il suo team. Nuovo di zecca, e scelto al meglio. Uomini portati via a Goldman, all’Imi, a McKinsey, a Mediobanca, a Credit Suisse First Boston. Con qualche cognome molto riconoscibile, come quello di Francesco Masera, figlio di Rainer, il capo di SanPaolo Imi, o di Giuseppina Baffi, figlia dell’ex governatore Paolo. “Non ci sono mercenari, qui. Sono venuti tutti rinunciando a una bella fetta dello stipendio”, si vanta Arpe. Anche lui, rispetto all’ultimo incarico alla Lehman Brothers, dice di aver rinunciato al 50 per cento dei guadagni. Nella banca d’affari americana lo avevano accolto dopo l’uscita da Mediobanca, costruendogli un incarico su misura: quello di capo dell’attività di strategic equity in Europa. Un incarico importante, che venne letto come un modo per rinverdire i fasti della leggendaria opa Olivetti-Telecom, su cui Lehman aveva lavorato con gli uomini di Maranghi. Durò quanto è durato Colaninno padrone di Telecom. Il sodalizio con l’uomo che segnava l’ascesa di una nuova imprenditoria sotto l’egida della banca d’affari di palazzo Chigi, finì con il nuovo passaggio di mano di Telecom a Marco Tronchetti Provera. A Lehman, dicono le male lingue, qualcuno dopo la sua uscita brindò. Ma Arpe aveva un altro sodalizio da utilizzare. Cesare Geronzi era suo estimatore dai tempi di Cuccia, e lo portò a Roma. Lui lascia moglie e due figli nella villa di Monza per la sua prima destinazione, la palazzina del Mediocredito: fa subito costruire una palestra (ora sta facendo costruire anche un asilo per i dipendenti del gruppo) e si mette al lavoro. E poiché al suo talento non è mancato anche un bel pizzico di fortuna, Matteo si ritrova presto sulla sua strada un altro protettore, Giorgio Brambilla, amministratore delegato della Banca di Roma. Brambilla era una conoscenza di famiglia e di vacanze: passate da tutti a Bonassola, in Liguria. Il banchiere più navigato prende sotto l’ala il giovanotto e lo porta sotto di sé, alla direzione generale. Arpe è un vulcano di attività. Quando Brambilla muore, la strada è spianata per prendere il suo posto. Manca solo il colpo finale: mettere insieme il patto di sindacato che dia a Geronzi la sicurezza di continuare a governare alla presidenza. Lui si dà da fare. Alfio Marchini è suo amico (sodale di calcetto e pizze insieme agli altri due moschettieri, Nino Tronchetti e un rampollo Colaiacovo, cementieri in quel di Gubbio), e non si tira indietro. Poi c’è Pierluigi Toti, ancora Colaninno... Il gioco è fatto. E Arpe diventa l’amministratore delegato di banca più giovane d’Italia. Ma, ambizioso com’è, non si fermerà qui» (Paola Pilati, “L’espresso” 5/2/2004) • Tra i suoi grandi rivali il direttore generale di Mediobanca Alberto Nagel: «[...] sono nati nello stesso vaso e cresciuti nella stessa terra. Si sono formati alla scuola di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi. Laureati in Bocconi con il massimo dei voti, sono quasi coetanei visto che Arpe è nato nel novembre del 1964 e Nagel nel giugno del 1965. Arpe è entrato in Mediobanca immediatamente dopo la laurea, nel 1987, Nagel quattro anni dopo. La maggiore anzianità di servizio, e soprattutto la stima di Enrico Cuccia che lo considerava suo pupillo, rendevano l’attuale amministratore delegato di Capitalia il predestinato, quello che avrebbe affiancato Vincenzo Maranghi. Non è andata così. Nel 1999 Arpe, già in odore di eresia per il suo atteggiamento molto critico nei confronti del capitalismo famigliare, compie peccato mortale. Forte dei 200 miliardi di lire fatti guadagnare alla società grazie alla consulenza prestata alla razza padana nell’opa Telecom (è nella sua stanza che si contano le adesioni all’offerta di Roberto Colaninno e si festeggia), chiede un avanzamento di grado. Per Maranghi, abituato a dare le promozioni senza che queste venissero richieste, si tratta di un gesto inconcepibile. Su questo rompono. Fu Nagel a diventare direttore generale [...] La poca simpatia dell’uno è ricambiata dall’altro: Nagel giudica un po’ eccessiva la cura di Arpe per se stesso. Ma tolte queste contrapposizioni, frutto di vecchie ruggini e di un differente modo di vedere la vita, rimane il fatto che i due hanno più punti di contatto che differenze. Da Maranghi hanno ereditato una naturale predisposizione al cattivo carattere che rende le loro arrabbiature temute dai collaboratori e quasi mitologiche nelle narrazioni di chi vi assiste; da Cuccia il culto della memoria e della vendetta. Fieri della loro educazione professionale, guardano con atteggiamento altero la quasi totalità dei loro colleghi. In particolare non piacciono loro i ragazzi cresciuti in McKinsey: Corrado Passera, innanzitutto, ma pure Alessandro Profumo (anche se l’ad di Unicredit ai loro occhi si è fatto finalmente banchiere dopo l’acquisizione tutta di mercato di Hvb), Vittorio Colao e Mario Greco. La radicale ortodossia mediobanchesca che li ha forgiati li porta a celare gli indizi riguardo alle loro idee politiche. In guardia dai francesi Pur avendo il pedigree da reazionari, sono stati gli artefici di quella rivoluzione che è stato l’inizio del tramonto del capitalismo famigliare. Nagel ha giocato il ruolo del poliziotto buono, Arpe, temuto per il suo stile negoziale, quello del poliziotto cattivo. Le trattative, in particolare con Cesare Romiti e con Luigi Lucchini, quando entrarono in crisi i rispettivi gruppi, sono state condotte con una durezza al limite della brutalità dagli uomini di Capitalia, che non hanno mollato fino alla resa dei loro avversari. E lo stesso trattamento Arpe lo avrebbe riservato anche agli Agnelli, i quali però anche nei momenti di maggiore difficoltà di Fiat non cedettero all’ipotesi di abbandonare le partecipazioni considerate strategiche, a partire da Rcs, qualora Marchionne avesse fallito. Oggi i due eredi di Cuccia si trovano al centro degli snodi di tutti i più intriganti progetti di integrazione bancaria. Con il dettaglio, non trascurabile, che tutti i dossier finora prospettati li vedrebbero in teoria soccombenti. Finora i due sono riusciti a compiere imprese ritenute difficili. Il primo ha riportato al successo una banca altrimenti votata alla scomparsa. Il secondo ha traghettato Mediobanca nel ventunesimo secolo, tracciandone un profilo nuovo. Arpe e Nagel sono due uomini di potere che non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. Arpe è un abile giocatore (lo ha dimostrato tenendo testa alla personalità di Cesare Geronzi per tutti questi anni), ed è uomo di decisioni rapide. Quando ha saputo che Gerardo Braggiotti guardava al dossier CapIntesa, ha creduto che i francesi si stessero muovendo e ha reagito superando la soglia del due per cento nell’azionariato di Intesa, bloccando i milanesi. [...]» (“Il Foglio” 16/3/2006).