Varie, 8 marzo 2002
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BENDINI Vasco Bologna 27 febbraio 1922. Pittore • «Ha vissuto a Bologna e a Roma prima di trasferirsi a Parma, due anni or sono
BENDINI Vasco Bologna 27 febbraio 1922. Pittore • «Ha vissuto a Bologna e a Roma prima di trasferirsi a Parma, due anni or sono. […] ”Guidi sì, l’ho avuto davvero per maestro, e poi per amico. All’Accademia, dove lo incontravo ogni giorno, e ogni giorno lo sentivo insegnare, con quella voglia che aveva di trasmettere idee, sapienza. Poi arrivò la guerra, e dall’Accademia se ne andarono proprio tutti; finché rimanemmo da soli, Guidi, il custode Machiavelli e io. Allora mi concesse di lavorare nello studio di pittura, e veniva lì a parlare con me. Nel suo studio no, non ci andavo: per una sorta di pudore, di timidezza, che mi porto dietro anche oggi. Però mi passò quando andai alle prime Biennali del dopoguerra, e vidi che lui (che nel frattempo s’era trasferito là, allontanato da Bologna per un’accusa di complicità col regime) aveva una corte infinita di allievi, tutti a far testine o marine guidiane... Allora ho trovato il coraggio, e un giorno sono andato a Venezia apposta per dirgli che non l’avrei seguito fino a quel punto, che avrei cominciato una strada mia […] Morandi era molto diverso. Ti offriva, come dire, tutto l’armamentario, quasi artigiano, necessario per esprimerti, ma mai una suggestione che potesse istradarti (o forse plagiarti?). Parlava pochissimo, con tutti noi. Il giorno che gli portai la mia prima incisione, mi disse soltanto ”Beh... La prego di rifarla’. Di lui - prima della mia età adulta, quando andai a trovarlo qualche volta ”da pittore’ - ricordo soprattutto un episodio che mi colpì. In aula, entrò un giorno Giovanni Romagnoli, l’altro grande protagonista della pittura bolognese, che all’Accademia insegnava Decorazione, e chiese a Morandi della carta vetrata, che aveva finita. Morandi, sollecito ma muto, viene alla mia cassettina degli attrezzi, cerca, prende un pezzettino già usato, logoro di carta vetrata - ma proprio un pezzettino - e glielo porge. Io mi sono sentito morire: mi pareva che gli avesse fatto un insulto. Invece ci aveva forse silenziosamente insegnato ancora una volta un rispetto ultimo per le cose, fin le più piccole cose che servono alla pittura […] Conoscevo qualche francese: Estève, Singier, Bissière, che però erano post-cubisti, non veramente astratti. Mi sentivo d’altronde lontano dalle polemiche furiose fra astratto e figurativo: come stessero ”altrove’, come ”altrove’, per me, è sempre rimasta la politica. Poi vennero le Biennali di Venezia, del ”48 e del ”50, dalle quali trassi, più che informazioni, un grande senso della libertà possibile e necessaria a chi volesse essere artista; una consapevolezza del rischio che si poteva e si doveva correre, e dei risultati grandi che si potevano ottenere. In quegli anni scoprii anche Huizinga, soprattutto La crisi della civiltà, e trassi da quel libro indicazioni analoghe: più di tutto, seppi quanto era grande l’isolamento in cui vivevo […] Pallucchini mi aveva ammesso alla mia prima Biennale, nel ”56: alla quale, su suo consiglio, mandai tre quadri più tradizionali di quelli che mi piacevano davvero (ho poi saputo che l’hanno fatto tutti, di essere compiacenti con le giurie, da Monet e Renoir in avanti...). E credo che fosse stato proprio lui, con Volpe, tre anni prima, a presentarmi a Francesco Arcangeli. Non avevo molto a che spartire, in fondo, col suo ”ultimo naturalismo’: ma Arcangeli fu con me, per lunghi anni, sempre generosissimo. E ricordo di lui una cosa, un atteggiamento raro: la passione con cui guardava il quadro, con cui ci tornava, quasi testardamente, fino a darsi ragione di ogni colpo di pennello, di ogni scelta che lo sottendeva. E poi la modestia: una volta attendevo da lui il testo per una mostra, lui stava già male, ma mi disse che poteva arrivare fino ad una certa panchina in piazza Santo Stefano, se lo avessi raggiunto là... E là me lo diede: ancora un po’ dubbioso, come scontento, dicendo che, se avessi ritenuto più utile una firma più nuova, non mi dovevo peritare a sostituirlo, quel testo. Non ne ho trovati altri, così”» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 27/2/2002).