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 2002  marzo 14 Giovedì calendario

LaBarbera Arnaldo

• Lecce 1942, Verona 12 settembre 2002. Ex direttore centrale della Polizia di Prevenzione (Ucigos) rimosso dal ministro dell’Interno Claudio Scajola dopo il G8 e vice direttore del Cesis (la struttura che coordina Sisde e Sismi. Superpoliziotto, guidò la squadra creata per indagare sugli omicidi di Falcone e Borsellino. Piglio da «duro», entra in polizia nel ’72 dopo un incontro con il commissario Luigi Calabresi. Il primo incarico è a Venezia, dove nel ’76 passa a guidare la Squadra mobile. Dalla Laguna si muove per un breve periodo nell’agosto ’85, inviato a Palermo con compiti riorganizzativi. Nel capoluogo siciliano torna, da capo della Mobile, nel 1988. Nel ’94, sempre a Palermo, gli viene affidata la Questura. La lascia nel febbraio ’97, quando passa a quella di Napoli. Nel ’99 diventa questore di Roma. Incarico ricoperto fino alla promozione a numero uno dell’Ucigos (’Corriere della Sera” 13/9/2002). «La fama di ”duro” non è frutto dell’immaginario collettivo e basta [...] Così lo descrivono quelli che lo conobbero quando dirigeva la squadra mobile di Venezia. Era l’inizio dei favolosi Anni Ottanta e già Felice Maniero imperversava e si accingeva a smettere gli abiti di bandito romantico per indossare quelli di ”mafioso del Brenta” offertigli dal clan dei siciliani insediati in Veneto. L’Arnaldo non dava tregua alla ”Primula” del Nord-Est. La battaglia fu lunga e incerta: si interruppe quando Parisi, allora capo della polizia, lo inviò a Palermo sulla scia del terremoto istituzionale seguito alla tragica estate del 1985 quando vennero assassinati i commissari Cassarà e Montana e quando la squadra mobile deflagrò sotto i colpi della terribile morte di un fermato, Salvatore Marino, ucciso da un interrogatorio troppo violento. La Barbera arrivò a Palermo, si fermò per qualche settimana ma poi tornò a Venezia. L’appuntamento era solo rinviato: da Roma arrivò l’ordine di andarsi a sedere sulla scomoda poltrona che era stata di Boris Giuliano. Una prova non facile, per il nuovo dirigente che, da un lato, deve rianimare la lotta alla mafia in fase di stallo per la mattanza precedente e, dall’altro, ricostruire una squadra mobile distrutta dalla vicenda Marino e dal conseguente ”repulisti” che l’allora ministro Scalfaro portò avanti con grande determinazione. Palermo conobbe il ”metodo La Barbera”. Stava sedici ore in ufficio e aveva rifiutato l’idea di una casa vera, asserragliandosi a due passi dalla questura, in un albergo non particolarmente confortevole. Gli stessi ritmi chiedeva ai collaboratori, giovani che andavano formando una squadra. Tutto con l’assistenza romana del ”gruppe De Gennaro, Manganelli, Pansa”. Il destina penserà a rafforzare la fama di ”duro”, nata anche da certi approcci disinvolti con delinquenti che in passato non avevano ben conosciuto la risolutezza poliziesca. Accadde un pomeriggio in un fitness center. Entrarono due rapinatori armati ed affrontarono il proprietario, il quale – per dissuaderli – li avvertì che in una sala c’era il capo della squadra mobile. Quelli, per nulla intimiditi, risposero: ”Bene, cominciamo da lui”. Calcolo sbagliato, perché La Barbera non si fece trovare impreparato. Era armato anche lui e sparò cinque colpi uccidendo uno dei banditi. L’altro lo affrontò con la pistola scarica e riuscì a tramortirlo colpendolo col calcio dell’arma. Nessuno ha mai sentito dalla sua bocca il racconto di quel pomeriggio. Solo qualche mugugno imbarazzato e il ”no” alla proposta di accettare una scorta armata. Già, la scorta. La rifiuterà anche dopo alcune operazioni niente male come la cattura del superkiller Peppuccio Lucchese e la scoperta del racket delle estorsioni gestito dal boss Nino Madonia. Dovrà subirla quando in Sicilia irromperà lo stragismo mafioso. Muoiono Falcone e Borsellino e a La Barbera viene affidato (per decisione di De Gennaro) il comando di un gruppo di investigatori che ”dovrà occuparsi di scoprire gli assassini dei giudici palermitani”, La Barbera appare la persona giusta per quell’incarico: l’attacco mafioso contro lo Stato ha raggiunto punte mai sfiorate, c’è la necessità di una risposta di poliziotti generosi, disposti a prendere il fuoco con le mani, senza timori di rimanere scottati. E lui è di quelli che non si è mai tirato indietro. Gira, aggancia delinquenti e li convince a collaborare, non si risparmia e non tollera tentennamenti. Il ”Gruppo-Falcone-Borsellino”, così viene chiamata la squadra, mette insieme risultati non indifferenti [...] L’Arnaldo è tornato a Palermo, da questore, poi è stato chiamato nella Napoli che ogni giorno raccontava la mattanza dei vicoli e le atrocità dei baby-killer. Sempre a coprire le emergenze. Infine ai vertici della polizia. A Genova» (Francesco La Licata, ”La Stampa” 1/8/2001). «Uno ”sbirro di strada” che ha inanellato successi in serie nella lotta contro la criminalità comune, quella organizzata e poi quella mafiosa, grazie alla capacità di agire e di ragionare insieme. Così, il poliziotto diventato questore e prefetto può essere ricordato per come riuscì a sgominare, negli anni Settanta e Ottanta, le bande di rapitori che avevano gettato nel panico il Veneto e l’Emilia Romagna; oppure per come acchiappava i rapinatori al momento del ”colpo”. Azione. Ma anche intelligenza per come scoperchiò la pentola della corruzione nei casinò di quelle zone. Poi passò a occuparsi di mafia, capo della Squadra mobile di Palermo, la città dei veleni dei corvi, nella stagione in cui investigatori e inquirenti venivano fatti fuori con il piombo o con gli schizzi di fango. Lui riuscì a salvarsi da tutte e due le armi ”nemiche”, preoccupandosi di mettere in galera gli uomini d’onore e di rimettere ordine nell’ufficio che era stato chiamato a dirigere. Con la sigaretta perennemente in bocca e un’aria burbera dalla quale potevano uscire sorrisi e battute che non ti aspettavi, per sdrammatizzare un momento difficile o dare l’indicazione giusta per risolvere un caso, rimproverare o ringraziare. I ricordi siciliani possono spaziare dal rapinatore a mano armata freddato con un colpo di pistola da lui che stava facendo la sauna agli arresti di latitanti importanti, tra i quali Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il tritolo che uccise Giovanni Falcone, amico vero di Arnaldo La Barbera che nel frattempo di Palermo era diventato questore. Prima di quella cattura ”zio Arnold” - come lo chiamavano i colleghi che gli volevano bene - aveva partecipato all’indagine sulla strage di Capaci. Un altro successo. Lasciò la Sicilia per Napoli, dove c’era un’altra questura di frontiera da risistemare; anche per questo s’era guadagnato un’altra fama, quella di ”113 della polizia”: davanti a un problema si chiamava La Barbera. Dopo due anni trascorsi a fronteggiare i camorristi, ma anche la piccola criminalità di strada, fu mandato a Roma, per affrontare la sfida del Giubileo. Vinta pure quella. Poi sono ricomparsi i terroristi, e il capo della polizia De Gennaro lo scelse per provare ad acciuffare i nuovi brigatisti. Ma ha avuto poco tempo a disposizione, ”zio Arnold”. Perché a luglio del 2001 è arrivata la brutta storia del G8: e lui come l’altro prefetto Andreassi pagò per colpe ed errori che (semmai) erano anche di altri. Li rimossero dagli incarichi, prima di essere ripescati nei Servizi segreti» (Giovanni Bianconi, ”Corriere della Sera” 13/9/2002). «E’ stato lo sbirro più sbirro di Palermo. Faccia da duro, umore sempre nero, la voce che sembrava un grugnito. E un cuore tenero come tutti quelli che sopra la pelle fanno vedere agli altri solo la pellaccia. Era fatto così quel lupo solitario che ogni tanto si addormentava borbottando su una poltrona del Tribunale, mentre aspettava il procuratore capo in ritardo o crollava a terra in aperta campagna mentre era appostato da tre notti per incastrare un boss, era fatto per non mollare mai la presa. Mai. ”Quando il gioco si fa duro, ricordatevi che i duri non se ne vanno ma restano sempre”, ripeteva a quei ragazzini che diventarono poi i più bravi poliziotti della Sicilia. Diceva così Arnaldo La Barbera. [...] Era agosto, l’anno il 1988. A Punta Raisi scese dall’aereo e salutò con il suo grugnito ”autorità” piccole e grandi. I giornalisti poi non li degnò neanche di uno sguardo. [...] Una sera in quella sua stanza che sembrava il Polo Nord tanto era fredda da aria condizionata sparata al massimo, aprì per la prima volta il cassetto della scrivania. Si fece anche sfuggire un sorriso. E tirò fuori un vecchio ritaglio del ”Gazzetino” di Venezia. Il titolo era a tutta pagina: ”Commissario si traveste da zingaro e incastra rapinatore”. Il commissario era lui, il rapinatore un certo Kocis che - raccontano - benedisse il momento in cui Arnaldo la Barbera lo mollò per farlo portare in carcere. Dopo quel ritaglio esibito quasi con candore cominciò a parlare. E ricordò come era entrato in polizia. Lavorava a Milano in uno studio legale per conto di una società petrolifera, andava a mangiare sempre in una trattoria che era frequentata dal commissario Luigi Calabresi. Diventarono amici. Fu Calabresi a convincerlo a fare il concorso in Polizia. Così molti anni più tardi - dopo gli inseguimenti tra le calli di Venezia - si ritrovò nella solitudine palermitana a vagare dentro una città ostile che stava entrando nella sua stagione più buia. Lui si fidava solo di una mezza dozzina di ragazzi, i suoi ”ragazzi”: Gigi, Guido, Mario, Claudio, tutti poliziotti giovanissimi che in quei mesi e in quegli anni avrebbero sacrificato la loro vita. E solo di lui si fidò per un certo tempo il giudice Falcone. Quando gli fecero l’attentato all’Addaura pretese che la sua scorta fosse formata solo dagli agenti scelti da La Barbera, si fece installare anche una linea diretta con la Squadra Mobile, si consegnò nelle sue mani. Poi le cose andarono come andarono. Ma lo sbirro riuscì a prendere uno dopo l’altro anche gli assassini di Falcone e di Borsellino. Lo sbirro lavorava all’antica. Sangue e sudore. Una certa antipatia per i pentiti non la nascondeva, ma sporco non giocava mai. Diceva quello che pensava e tirava dritto. Con Falcone prima e con Ilda Boccassini poi, uno dei magistrati che stimava molto forse perché era forestiera come lui in un ”contesto” troppo appiccicaticcio come quello siciliano. Con gli altri grandi poliziotti che in quegli anni venivano a Palermo era buon amico ma si sentiva diverso. Da Gianni De Gennaro. Da Antonio Manganelli. Da Alessandro Pansa. Erano più giovani dentro quei tre, erano più moderni diceva, erano poliziotti manager, facevano troppo Fbi. Lui invece era rimasto in fondo lo sbirro che aveva fatto sputare sangue a quel balordo di Kocis che terrorizzava i vecchietti a Venezia. Sempre sbirro. Anche da Questore di Palermo e di Napoli. Poi Questore di Roma. E alla fine a capo dell’Antiterrorismo e vice del Cesis. E alla fine sotto indagine per i fatti dell’irruzione alla Diaz di Genova» (Attilio Bolzoni, ”la Repubblica” 13/9/2002).