Varie, 14 marzo 2002
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Mcgrady Tracy
• Lamar Bartown (Stati Uniti) 24 maggio 1979. Giocatore di basket. Dal 2010 ai New York Knicks. soprannominato «The big sleep» (la grande dormita) per la sua faccia un po’ sorniona. E per una sua proverbiale frase sulle sue lunghe dormite (13-14 ore). Sin da piccolo preferisce il basket al football, al contrario dei suoi amici. Si iscrive all’Auburndale High School dove si fa notare subito per le sue magie. Di qui subito il trasferimento nell’Accademia di Mount Zion Chiristian a Durham nel Nord della Carolina. Ancora una grande stagione con 27.5 punti di media a partita. Che gli valsero l’elezione come «Giocatore dell’anno» da ”Usa Today”. Il passaggio nella Nba fu difficile, era il 1997 e venne ingaggiato da Toronto. Durante la seconda stagione riesce a dare il meglio di sè, nonostante un infortunio. Passa poi a Orlando e nel 2004 ai Rockets • «Per il momento non ha ancora inciso un disco di musica rap, non va in giro piegato in due da un’orgia di catene d’oro e neppure possiede una pistola o ha carichi pendenti con la giustizia. Insomma, per l’Nba del momento, Tracy McGrady è un giocatore atipico: la cosa che lo eccita mostruosamente è il canestro avversario. Il pallone che s’infila nella retina è l’unica forma di droga che si concede. E a perdere il cervello, è chi gli sta di fronte [...] Un talento puro. E una forza della natura. Ma niente bizzarrie, nessun lato eccentrico. Soltanto palate di canestri. E chi se lo ricorda, nella rurale Auburndale, la cittadina della Florida dov’è cresciuto, non si stupisce. Tracy McGrady, da sempre soltanto ”T-Mac” per tutti, come la sigla di un panino farcito, segnava 23 punti di media già al primo anno di scuola superiore, con il corredo di 12 rimbalzi. Ancora poco, per permettergli una carriera da Division I, la serie A del basket scolastico. Un futuro, va detto, che neppure gli interessava: ”Ho sempre sognato di diventare un campione di baseball. Non mi andava a genio rinchiudermi in una palestra. Da noi in Florida la mazza è la prima cosa che impari a usare”. Fu quando accettò un invito a un camp nel New Jersey, che il mondo si accorse di lui. Fece una schiacciata spiccando il salto a circa dieci minuti di bicicletta dal canestro. ”Usa Today” lo elesse migliore promessa del Paese. Poi giocò un anno nella castigatissima scuola di Mount Zion, in North Carolina; continuò a volare ogni sera, con orari e statistiche rispettate con precisione svizzera: 27.5 punti, 8.7 rimbalzi, 7.7 assist e quasi 3 palle rubate a partita. La prestigiosa Università del Kentucky lo avrebbe preso senza pensarci, ma uno così era già pronto per la Nba. Era il 1997. Per l’ennesima volta, si sentì sparare la tipica frase: ”Ecco il nuovo Michael Jordan”. Be’, in quel caso deve essere arrivata all’orecchio del diretto interessato. Jerry Krause, general manager dei Chicago Bulls supercampioni, aveva già pronto il contratto per il ragazzo. Unica clausola: spedire Pippen, 32enne, a Vancouver. Jordan mandò tutto per aria: senza l’amico Pippen, lui si sarebbe ritirato. McGrady andò a Toronto e, finiti Jordan e Pippen, i Bulls non sono più esistiti. Amen. Dal 2004, dopo una parentesi agrodolce a Orlando, T-Mac è a Houston, star degli ambiziosi Rockets di Yao Ming. [...]» (Riccardo Romani, ”Corriere della Sera” 11/12/2004). « cugino di Vince Carter, l’asso dei Toronto Raptors, il giocatore più spettacolare del Dream Team americano ai Giochi di Sydney, l’uomo che in una partita volò letteralmente sopra la testa del francese Frédéric Weis e scaraventò la palla nel canestro. Nessuno stupore, allora, se Tracy Lamar McGrady ha a sua volta il culto della schiacciata: questione, evidentemente, di sangue e di cromosomi. Lo chiamavano, a scelta, ”pumpkinhead” (testa di zucca: eufemismo?) o ”The Big Sleep”, il grande sonno: marchi in negativo perché quando era in Canada, a fianco di Carter, pareva incapace di esplodere. Soprannome comunque incauto, data la potenzialità illimitata di T-Mac. Era solo una questione di tempo, per i tifosi. E lui, probabilmente, doveva giusto allontanarsi dall’inevitabile cono d’ombra dell’ingombrante parente: lo sta facendo, sempre meglio, con gli Orlando Magic, la cui maglia indossa dal 2000. […] Ma chi è questo ragazzo che ha un debole per Janet Jackson (’Kobe Bryant l’ha rifiutata? Ma com’è possibile...”), che ama il jet-skiing, le auto a quattro ruote motrici e che va per paludi a osservare gli alligatori? Innanzitutto è anche un potenziale asso del baseball. Se la cava bene come pitcher e non fa mistero di puntare a quel traguardo che proprio Jordan ha inseguito invano: diventare una stella del parquet e del diamante. ”Sì, è vero: adoro il baseball e se mi capiterà l’occasione non mi tirerò indietro. Mi considero pronto per i New York Yankees...”. Nell’attesa, la certezza per lui si chiama pallacanestro. Sotto forma di quattrini [...] Salutista, maniacale nel curare l’alimentazione, e questo in contrapposizione alla fidanzata (’Clerenda uscirebbe ogni sera a cena: io non sono per nulla d’accordo”), sta creando solide basi per una lunga carriera. ”Se non sei pronto ora, non lo sarai nemmeno domani: il lavoro fisico è più del cinquanta per cento del successo di un cestista”. In campo sa fare tutto. Atleticamente devastante, tiene per mano la squadra come se fosse un veterano. Coinvolge i compagni, in difesa è in grado di giocare contro chiunque; in attacco gli manca giusto un tiro ”suo”, ma compensa con l’agonismo e l’esuberanza. [...] ”Io voglio vincere tutto: mi sto impegnando per diventare il più forte possibile come giocatore e come persona”. Il secondo obiettivo l’ha già raggiunto. In silenzio e con naturalezza, ha accettato di prendersi cura della trentottenne matrigna Jaclyn, ammalata di tumore, e del figlio ora sedicenne che la donna ha avuto dal padre del cestista, Tracy McGrady senior. ”Ho voluto fare sì che papà avesse la mente sgombra dai problemi. Quanto a Jaclyn, desidero che sia in grado di ricevere il massimo dell’assistenza” spiega per le vie brevi Tracy jr. [...]» (Flavio Vanetti, ”Corriere della Sera” 11/3/2002). «Prendersi delle responsabilità è un po’ la storia della sua giovane vita. Quando era al primo anno di liceo lo buttarono fuori dalla squadra perché era l’unico ad alzare la voce e ribellarsi alle angherie dell’allenatore. Così non fu facile mettersi in mostra. Quando a 17 anni si trovò in Florida, vicino a casa, in uno di quei camp estivi per ragazzini, dove ai bordi del parquet sono schierati gli scout delle università di mezza America con i lapis in mano pronti a cambiarti il futuro se finisci su uno dei loro taccuini, lui non era neppure nella lista dei migliori cinquecento. Doveva farsi notare. Allora chiese di poter marcare Lamar Odom, uno dei campioncini del gruppo. Lo scrutarono con sospetto. Non gli fece toccar palla. Si accorsero di lui. Lo mandarono per l’ultimo anno di liceo in una famosa scuola privata, la Mount Zion Academy in North Carolina alla corte di Joel Hopkins, che chiamano anche il Bobby Knight dei neri. Per capire, non un tipo facile e con il pallino della disciplina. Proprio ciò su cui Tracy il ribelle doveva lavorare sodo. Il rapporto fu difficile, Hopkins, capito il carattere riottoso del suo allievo, non perdeva occasione per stuzziccarlo. Finì a botte. Hopkins tentò di strozzarlo, McGrady reagì e agguantò l’allenatore. Rotolarono per terra, fin quando Hopkins disse: ”Basta, finiamola. M a non hai capito che ti voglio bene come a un figlio. E faccio tutto questo perché hai talento e non voglio che tu finisca male”. Fu la svolta: McGrady era diventato un uomo e un giocatore inarrestabile. Hopkins disse: ” il miglior giocatore di tutto il North Carolina e includo anche i giocatori degli Charlotte Hornets”. Con un commento così era come essersi messo in tasca un’assicurazione sulla vita. Allora decise di saltare il college e presentarsi con quella sua faccia tosta da saputello al draft del ”97: lo prese Toronto, 9ª scelta assoluta. ”Ero certo di essere pronto per la Nba: ho sempre avuto una tremenda fiducia nei miei mezzi”. Avete capito, McGrady non è un modesto. E gli piace farlo pesare anche sugli avversari in campo, mentre gioca. Si chiama ”trash talking”, letteralmente ”parlare spazzatura”. Insomma è l’arte del provocare e dello sfottere. Dice: ”Lo faccio solo per puro divertimento. Non voglio certo ferire i sentimenti degli altri giocatori”. Dice di essere convinto un giorno di poter riuscire a viaggiare con una media di una tripla-doppia a partita: sarebbe un’impresa. Spiega che lui sarebbe l’uomo su cui punterebbe sempre per ricostruire una squadra da zero. [...]» (’La Gazzetta dello Sport” 9/2/2003).