Varie, 14 marzo 2002
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Morin Edgar
• Parigi (Francia) 8 luglio 1921. Sociologo. Filosofo. Grande intellettuale del Novecento, erede diretto dello scetticismo di Montaigne e dell’enciclopedismo illuminista. stato partigiano nella resistenza francese, sociologo e filosofo, storico e geografo, appassionato di cinema, di microfisica, ecologia, poesia e politica • «Non sono tra quelli che si sono costruiti una carriera, ma tra quelli che hanno vissuto una vita», così inizia uno dei suoi libri più avvincenti, I miei demoni. «Una vita spesa a studiare le trasformazioni della società, guarda con preoccupazione, ma non senza qualche motivo di speranza, il mondo in cui viviamo. [...] Da molti anni, infatti, opere come La conoscenza della conoscenza, Il metodo o L’identità umana vengono lette e apprezzate in tutto il mondo per la loro capacità di analisi che non esita a rimettere in discussione le proprie certezze, rifiuta i compartimenti stagni dello specialismo e fa dell’autocritica uno strumento essenziale per arginare le false illusioni e gli errori della conoscenza. Tale atteggiamento intellettuale è per Morin irrinunciabile, specie di fronte a un mondo che ha un urgente bisogno di trasformazioni radicali, pena la propria autodistruzione: ”Quando un sistema non è più in grado di affrontare e risolvere i problemi vitali della collettività, le alternative sono solo due: o crolla o si trasforma. Oggi siamo in questa situazione, visto che gli arsenali nucleari, il degrado progressivo dell’ecosistema, lo sperpero delle risorse naturali, gli squilibri, le intolleranze e le crescenti disuguaglianze tra le diverse parti del pianeta creano una situazione drammatica, dove la possibilità dell’autodistruzione diventa molto concreta”. Tuttavia l’autore dei Miei demoni non vuole lasciarsi andare al pessimismo. Anche perché è convinto che i periodi di crisi non siano solo gravidi di pericoli, ma anche di nuove possibilità: ”La crisi può favorire la metamorfosi del sistema, in direzione di una società-mondo più ricca e complessa, una società più umana e giusta, capace di far fronte alla sfide del futuro» (Fabio Gambaro, ”la Repubblica” 28/1/2004). «I marrani sono quei singolari ebrei o ex ebrei che comparvero in seguito all’espulsione degli israeliti decretata dalla monarchia di Spagna, nel 1492. Uno di loro, un certo Catalan [...] verso il 1550, nel Languedoc, faceva circoncidere di nascosto i figli maschi, simpatizzava apertamente con i protestanti perseguitati e faceva celebrare messe in onore della Vergine per sistemare le squallide faccende di quel buono a nulla che era suo figlio. Anche il sociologo Edgar Morin [...] è un marrano, sebbene abbastanza diverso dal signor Catalan del XVI secolo. Morin, mai dimentico delle proprie origini ebraiche, s’immerge con delizia nelle altre grandi culture del nostro tempo, cugine vicine o talvolta lontane del giudaismo. per questo e per molte altre ragioni che egli resta, a tutti gli effetti, un personaggio del Rinascimento. La sua famiglia, sefardita di Salonicco, greco-ottomana, aveva radici spagnole e italiane; e si piccava, a ragione, di francofonia, che durante la Belle Epoque era molto diffusa nei Balcani. La Spagna, con Cervantes che mescola immaginario e realtà nella persona di Don Chisciotte, con Las Casas, apostolo degli Indiani e della pluralità delle etnie, con lo scettico Montaigne, egli stesso di discendenza iberica da parte di madre, è per il nostro autore una fonte di ispirazione inesauribile. All’epoca della resistenza di Tolosa alla Germania (1940-1944), Morin era al tempo stesso comunista e gollista, pur essendo consapevole della complessità di quegli anni di piombo; complessità che impedisce qualsiasi manicheismo che dipinga la realtà in bianco e nero oppure in bianco e rosso, in adesione a Vichy o alla Resistenza. Il figlio degli ebrei di Salonicco è il primo a sapere e ad ammettere che la Spagna di Franco e anche l’Italia di Mussolini, almeno per un certo tempo, hanno avuto nei confronti degli israeliti un atteggiamento fortemente in contrasto con quello del nazismo ”giudeocida” della stessa epoca. Il primo libro di Morin, Allemagne année zéro (la Germania del 1945), che evoca un grande film del neorealismo italiano, è decisamente contrario allo spirito antiteutonico o germanofobo dei comunisti del primo dopoguerra. La sua seconda opera, L’homme devant la mort, è un soggetto molto originale per quei tempi. Alla Biblioteca nazionale di Parigi (1946) la parola morte non figurava nemmeno nello ”schedario delle materie”. Né il sole né la morte si possono guardare in faccia, diceva già La Rochefoucauld, che aggiungeva a mezza voce: buoni matrimoni ce ne sono, ma deliziosi no. Edgar Morin segnalava l’inevitabile orrore umano nei confronti della morte, per sottolineare nel contempo il paradosso in virtù del quale tante persone sono capaci di rischiare la propria vita, di donarla, per salvare la patria, i diritti dell’uomo o semplicemente la loro famiglia. Soprattutto, Morin era affascinato dall’immagine del ”Doppio”, quell’icona di sé, immateriale, incorruttibile, che sopravvive al trapasso e al personaggio deceduto. Per esempio, è il ”Doppio” del morto assassinato che, aggirandosi nei dintorni del villaggio, costringe la famiglia sopravvissuta, durante una vendetta còrsa, a continuare con le vendette sanguinose sulla famiglia nemica finché il caro Scomparso, finalmente sazio di sangue, non dà il segnale dell’armistizio. Il dopo-morte rinvia, tutto sommato, all’immensa mitologia dell’immaginario, che nell’opera di Morin resterà o diventerà un punto centrale. Ce ne rendiamo conto ancora meglio in altri lavori successivi: Il Cinema o l’Uomo immaginario , Le Stars e Lo spirito del tempo. Attraverso le star, Morin accede a quell’enorme parte del simbolismo e dell’anti-materialismo che ossessiona la nostra vita quotidiana, quella dei giovani in particolare, oggi affamati di musica pop e di giochi elettronici. Più in generale, egli si interessa alle riflessioni sulla cultura di massa, che include televisioni e riviste, vacanze e tempo libero. Pensatori come Marcuse, Adorno, Lucien Goldman, vedevano in questa cultura un tentativo di abbruttimento popolare e nazionale che impediva ai lavoratori di capire che la rivoluzione socialista fosse indispensabile. Al contrario, per Morin e qualche altro (Alain Touraine in particolare), Hollywood, come Cinecittà, ha saputo fare una sapiente sintesi fra un sistema industriale di produzioni filmiche e tutta una serie di atti d’immaginazione folle, altamente artistici. Dopotutto, Faulkner fu chiamato in California per fare cinema. Anche la violenza (cinematografica) risponde più o meno alle esigenze di catarsi che il teatro europeo si è proposto dopo Eschilo e Sofocle. Simultaneamente Morin fu, negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei grandi demolitori dell’ideologia staliniana, attirando così su di sé certi rancori che gli fanno onore. Con uno dei suoi migliori libri, Autocritica , l’ex comunista, invece di prendersela con i leader del bolscevismo o del post-bolscevismo (Zdanov, Thorez, Togliatti...), se la prende con le proprie turpitudini. Si sforza di scendere dentro se stesso e di porsi la domanda: perché mi sono convertito al Partito comunista francese nel 1941, quando già sapevo tutto delle ignominie sovietiche? E perché mi sono ”sconvertitoc” fin dall’inizio degli anni Cinquanta? Con questo libro e con la rivista Arguments , Morin è servito da esempio a una generazione di intellettuali, più o meno giovani, che grazie a lui e ai suoi simili evitarono, in seguito, la trappola delle strutture trotzkiste: esse li avrebbero fatti ricadere senza rimedio nei ghiacciai dell’ideologia pura e dura, dove si sono congelate tante anime belle del XX secolo. Mentre il trotzkismo in Francia riprende quota (il 10 per cento degli elettori non è poco), sarebbe bene che quelle lezioni salutari fossero di nuovo ascoltate da una certa gioventù e che, se necessario, le fossero inculcate con una pedagogia... ancora da scoprire. Nello stesso periodo, in un villaggio bretone di nome Plouzevet, Morin si lanciava nello studio, molto «americano» nel miglior senso del termine, della sociologia di una piccola comunità agricola: modernizzazione delle tecniche ai tempi del gollismo trionfatore, scomparsa del piccolo esercente e dei bistrot, installazione del comfort domestico, ruolo delle bretoni, che da donne sempliciotte diventano agenti segreti della modernità. In questo contesto, ecco il Maggio 1968. In un primo momento, Morin non è stato, non sempre, sufficientemente sensibile, lo diventerà in seguito, con il nuovo irrigidimento di un certo dogmatismo di sinistra, che comunque egli denuncerà qualche anno dopo. Tuttavia, accoglie subito con favore la liberazione (o cosiddetta liberazione?) dei costumi. Ed anche la forza massiccia dell’evento Sessantotto, che nessuno aveva previsto. Vero è che più tardi nessuno prevedrà in anticipo certi episodi chiave, anch’essi più che mai evenemenziali, come la caduta del comunismo e poi l’11 Settembre. Con Il metodo , Morin tenta di riconciliare le scienze del cosmo, quelle della vita e quelle delle società umane. A prima vista, si poteva credere che questo nuovo metodologo avesse una visione delle cose alla Teilhard de Chardin. Dopo il big bang, l’universo, autodeterminato, autofinalizzato, si lancia verso la complessità, verso la produzione della vita, dell’uomo, del pensiero. Le costanti fisiche più essenziali del cosmo erano state sapientemente regolate fin dall’inizio da qualche ingegnere invisibile (Dio). Questo doveva permettere, in seguito, l’emergere di livelli superiori e complessi e l’affiorare di una totalità pan-cosmica (panteista?) universale che, grazie alla coscienza umana finalmente apparsa, riusciva a considerarsi una sorta di specchio tramite scienze e tecniche d’avanguardia come l’astronomia, l’esplorazione dello spazio, etc. In realtà Morin non condivide necessariamente l’ottimismo beato che una o due generazioni fa era tipico di un Teilhard de Chardin. Il progresso, secondo lui, è sempre marginale, mai centrale: la materia visibile è minoritaria rispetto alla materia «nera»; la vita e il pensiero stesso sulle sue basi cerebrali rappresentano soltanto una parcella infinitamente minuscola del Grande Tutto, la biosfera terrestre è solo un’infima pellicola sulla superficie del pianeta Terra, e la Terra se ne infischia altamente, nelle sue ardenti profondità, di quel che accade in superficie. Età di ferro planetaria, mondializzazione che bisognerà tentare di addomesticare a vantaggio di una umanità contraddittoria; infatti l’«homo demens», che si chiami Hitler o Saddam, è sempre in riserva per il futuro e pronto a riapparire. Morin non è al riparo dalla disperazione, sfumata però da un certo gusto per la felicità. Pessimista sulla fine dei tempi, egli si augura che l’umanità, fra qualche milione (?) di anni, conosca una fine che non sia quella della zattera della Medusa, ma piuttosto quella del Titanic la cui orchestra suonerà fino all’ultimo, fino al momento del naufragio, quelle sinfonie d’amore, di poesia e di saggezza sulle quali Morin, nel 1997, ha pubblicato uno dei suoi libri migliori. Infatti la saggezza è anche rifiuto dell’odio; quel rifiuto che un cardinale ha recentemente raccomandato agli italiani in occasione della morte violenta dei soldati di Nassiriya. Piuttosto che alle vendette che non si placano nemmeno trent’anni dopo il massacro, Morin si appassiona, per esempio, all’iniziativa della figlia di Aldo Moro che rende visita in prigione agli assassini del padre, per riuscire un giorno o l’altro a perdonarli, per renderli migliori» (Emmanuel Le Roy Ladurie, ”Corriere della Sera” 28/1/2004).