14 marzo 2002
Tags : Dan O’Brien
OBrien Dan
• . Nato a Portland (Stati Uniti) il 18 luglio 1966. Decathleta. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta 1996. «Lui, in realtà, non si era mai ritirato. Non ufficialmente, almeno. Solo che ha passato gli ultimi quattro anni a curarsi quelle maledette piante dei piedi attraversate da fasci di nervi rosicchiati dall’usura. Per questo qualcuno aveva detto: non lo si vede più in giro, ha smesso, proprio un peccato, ciao e amen. Invece, una volta guarito, una volta rimesse a posto le sfortunate e preziose estremità, e riequilibrata la tradizionale testa matta dopo quattro anni di vuoto agonistico, Dan O’Brien ha raccolto i suoi fedeli e ha chiesto loro di trasmettere il verbo al mondo dell’atletica: tornerà a gareggiare il 5 maggio, a 35 anni, per abbattere il muro dei 9.000 punti nel decathlon, per tornare ad essere il re della prova più massacrante e spettacolare: dieci gare in una, due giorni in apnea da mattina a sera, spesso tra l’indifferenza del pubblico, ovunque tranne che in quelle nicchie di elezione che rispondono al nome di Goetzis, in Austria, Talence, in Francia, o Walnut, California. Dan O’Brien, americano mezzosangue, colorato ma non troppo, bello: in due parole l’atleta globale, l’uomo che avrebbe spaccato il mondo se solo avesse avuto più testa, più raziocinio, o semplicemente più fortuna. Il 27 giugno 1992, un sabato, Dan O’Brien mancò la qualificazione ai Giochi olimpici di Barcellona in maniera a dir poco rocambolesca: collezionò tre nulli nell’asta, l’ottava prova del programma, entrando in gara a 4,90. Per far parte della squadra olimpica gli sarebbe bastato saltare la ridicola misura di 2,79. Aveva già dato forfeit a Seul per un infortunio, e non andare a Barcellona fu una autentica disgrazia: per lui, perché il più forte atleta globale del momento non riusciva a raggiungere il sogno della carriera; ma anche per lo sponsor, una nota azienda di abbigliamento sportivo che aveva investito trenta miliardi di lire (15 milioni e mezzo di euro) sulle performance del ”povero” Dan. In un altro paio di occasioni il Superman americano aveva fallito proprio sul più bello la grande impresa: nel ’94, nel giro di un mese, arrivò a un piccolo passo dal record mondiale, inciampando però nell’ultima, scivolosissima prova, i 1500, tre giri e mezzo di pista sui quali si sono sciolti i sogni di mille e mille decathleti. Ma O’Brien il suo record mondiale lo aveva già in tasca, perchè qualche settimana dopo il fallimento ai Trials olimpici, il 6 settembre, una domenica, l’americano aveva dimostrato di essere il più forte, il più solido, il più continuo superatleta del mondo. Quel record ottenuto a Talence, il covo francese delle prove multiple, 8.891 punti che sembravano una quota irraggiungibile, rappresentò in effetti il muro contro il quale per anni si schiantarono gli specialisti delle dieci gare: sarebbe durato 2.639 giorni, fino al 5 luglio 1999, quando il ceko Tomas Dvorak, autentico dominatore tra fine e inizio secolo, aggiunse una manciata di punti, fermandosi a 8.994, al record di SuperDan, il quale, nel frattempo, aveva messo in saccoccia un titolo olimpico ad Atlanta ’96 e tre mondiali. E’ un piccolo mondo antico, quello dei decathleti: cavalieri senza paura che di affrontano in duelli all’ultimo colpo, passandosi l’un l’altro il bastone del comando, come davanti a una grande torta in grado di saziare tutti. Lo sport dell’atletica, fatto di emozioni ma regolato dai numeri, vive di barriere superate, di muri perforati: Dan sognava fin dai primi anni ’90 di poter arrivare alla quota di 9.000 punti, l’Everest della specialità. Prima di lui, soltanto grandi e indiscussi atleti avevano segnato il loro nome nei libri di storia dello sport. Con la tabella di oggi (che resiste dal 1985: fissa i criteri per l’assegnazione dei punteggi per ciascuna delle prove) si può stabilire che Jim Thorpe, il pellerossa che un sondaggio degli anni ’50 considerò il più grande atleta di sempre, fu il primo a superare quota 6.000, ai Giochi di Stoccolma del 1912: l’anno dopo Wa-Tho-Huck, Sentiero lucente, questo il nome indiano di Thorpe, venne privato con l’accusa di professionismo dei due ori vinti nel pentathlon e nel decathlon: si era mantenuto incassando 70 dollari al mese per giocare a baseball. Passarono 22 anni prima che qualcuno superasse quota 7.000 (Hans Heinrich Sievert, tedesco), e ce ne vollero altri ventisette per approdare agli 8.000 (Phil Mulkey, americano). SuperDan ha bordeggiato per anni intorno alla successiva, fatidica quota, ma è stato nel suo periodo di assenza che un altro inossidabile atleta globale, il ceko Roman Sebrle, ha oltrepassato il limite dei 9.000 punti: è successo a Goetzis, Austria, il 27 maggio 2001. Prima di Dan, a galleggiare nel mare degli 8.000 era stato l’inglese Daley Thompson, quello che odiava Carl Lewis e girava con una maglietta con la scritta: ”L’atleta numero due al mondo è gay”. Adesso tocca a O’Brien riprendere il filo del discorso: a 35 anni, inattivo negli ultimi quattro (ultima vera gara ai Goodwill Games del ’98, dove prese l’argento alle spalle di Huffins), non sarà facile per lui lucidare di nuovo i muscoli, ma la programmazione rigida di questo scorcio di carriera depone a favore della sua serietà. Dopo il 5 maggio, quando farà la ricomparsa al Mt Sac Relays di Walnut, un classico dell’atletica californiana, si sposterà a Eugene, in Oregon, per il meeting del 26 maggio, e quindi a Stanford il 21 giugno, per i Campionati americani. Sarà più forte di prima? Sarà davvero in grado di arrivare e superare la soglia dei 9.000 punti? Bisognerebbe sistemare qualche particolare tecnico, tanto per cominciare. Secondo i tecnici, Dan ha sempre avuto problemi con il salto con l’asta e con i 1.500: della fallimentare campagna per l’Olimpiade di Barcellona abbiamo detto, mentre le due volte che fallì il record nel ’94 fu proprio la gara di mezzofondo veloce a tradirlo. una specie di tallone d’Achille che che accomuna tutti i superman del decathlon, la cui struttura (si parla di atleti di 1,85-1,90 per 85-90 chili) rende particolarmente faticoso il movimento e il ritmo della corsa prolungata. certo che i tentativi di O’Brien susciteranno antichi entusiasmi nell’opinione pubblica americana. Il personaggio, che attraversò come un tornado tutta la prima metà degli anni ’90, diventando uno dei personaggi sportivi più popolari e ricchi degli Stati Uniti, porta addosso le tracce di una vita avventurosa, trascorsa per tanti anni sul filo del rasoio, incerta se oltrepassare i limiti della convenzione sociale oppure rimanere in qualche modo ancorata a una parvenza di legalità. Nato orfanello, madre finlandese e padre di colore, spariti entrambi dopo sei mesi dal lieto evento, Dan fu adottato da una coppia di Klamath Falls, nell’Oregon. La famiglia non conosceva barriere razziali: Dan ebbe per fratelli acquisiti un messicano, due coreani, un pellerossa, un indiano. Per strada li indicavano a dito: ”Ecco i piccoli orfanelli”. Il piccolo O’Brien poteva finire male e in un paio di occasioni fu sul punto di sbandare: alcol e spinelli, assegni falsi, cattive compagnie, poco studio e quel corpo favoloso, già sperimentato nello sport intorno ai 15 anni, avviato a una lenta autodistruzione. La comparsa di un paio di angeli custodi - il primo si chiamava Larry Hunt, il secondo, più incisivo, Mike Keller - consentì al ragazzo di non uscire di strada: con un paio di calci nel didietro (non solo metaforici) fu ufficialmente inaugurato, nei primi giorni del 1988, il nuovo corso della sua vita. Ora che la parrocchia atletica è pronta a riabbracciarlo, il magnifico trovatello di Portland dovrà vedersela con nuovi e agguerriti avversari: non solo Sebrle primatista del mondo, ma anche l’estone Nool campione olimpico 2000, e poi Dvorak campione mondiale ’97, ’99 e 2001, Macey il britannico e il vichingo Hamalainen. Dan non poteva lasciarli soli».