Varie, 15 marzo 2002
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Riley Pat
• New York (Stati Uniti) 20 marzo 1945. Allenatore di basket. Ha vinto cinque titoli Nba: quattro con i Los Angeles Lakers (1982, 1985, 1987, 1988), uno con i Miami Heat (2006) • «L’attore Lorenzo Lamas fece affiggere la seguente massima sui muri di Los Angeles: “It is not what you feel, is the way you look”. Non conta cosa senti, conta quello che sembri. Un successone. Quando Pat Riley consumava le suole sul parterre cestistico più celebre del globo, guidando in quella stessa città una squadra mostruosa verso quattro titoli, nei negozi di Rodeo Drive non si trovava più neppure una camicia bianca Giorgio Armani. “Apparire” alla Pat Riley era lo sport nazionale. Ovvio che dovendo allenare gente come Jabbar e Magic Johnson, in molti pensavano che Riley fosse lì per questioni cosmetiche. Un bell’uomo, ben vestito, che non si scompone mai e che sa parlare. Ha vinto tutto, ha vinto sempre. Le sue squadre, dopo i Lakers, sono state New York e Miami. Sempre protagonista. Lo insegue la fama di duro, di maniaco. Una volta Danilovic, suo giocatore con Miami, disse: “È pazzo. Ci sveglia alle cinque di mattina per mostrarci il video della sconfitta della sera prima. Ho le lacrime per la fatica. Accetti la sua filosofia, oppure vai via di testa”. Danilovic andò via di testa. E tornò in Europa. Ma così Pat Riley s’è tolto di dosso l’etichetta da “uomo Vogue”. Ed è anche il motivo per cui decine di aziende in ogni campo si contendono i suoi celebri “discorsi” per motivare impiegati apatici. Lo pagano 40mila dollari ad arringa. Foto ricordo inclusa. Oggi però non vince più. Per la prima volta in carriera guida una squadra con un record negativo; per la prima volta, salvo un miracolo, niente playoff. Questa è Miami oggi. E i critici di Riley dicono (non vedevano l’ora) che a 56 anni è finito. Che dovrebbe farsi da parte. Pat, che non è saggio quanto il guru Phil Jackson, oppone pillole di sano pragmatismo: “Dov’è il problema? Cosa sono 200 giorni da perdente, contro 7200 giorni da vincente? Ci può stare”. […] “Ho allenato una generazione formidabile di campioni nel loro momento di culmine. Allora il denaro non influiva così tanto nei rapporti tra una società e i giocatori. Forse c’era più passione genuina. Oggi c’è più atletismo. Ma questo è un mercato e va preso com’è. Una cosa è certa: i professionisti veri, vanno in campo col desiderio di vincere, a prescindere dallo stipendio”» (Riccardo Romani, “Corriere della Sera” 25/2/2002).