Varie, 15 marzo 2002
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Riva Luigi
• Leggiuno (Varese) 7 novembre 1944. Ex calciatore. Con il Cagliari (nel quale ha giocato per tutta la carriera) ha vinto lo scudetto 1969/70, con la nazionale il campionato europeo 1968, vicecampione del mondo nel 1970. Secondo dietro Gianni Rivera nella classifica del pallone d’Oro 1969, terzo dietro Gerd Müller e Bobby Moore nel 1970, sesto nel 1968, tredicesimo nel 1967. il giocatore che ha segnato più gol con la maglia della nazionale italiana: 35. Scrisse Gianni Brera in Il mestiere del calciatore (1972): «Non tocca palla da latino, non ha neppure il destro come dovrebbe un giocatore della sua fama, e però la sua classe ha pochi pochissimi eguali al mondo. [...] Il suo scatto è così imperioso da riuscire travolgente. Il suo dribbling di solo sinistro è tuttavia irresistibile quando viene portato in corsa, al di sopra del ritmo normale. Il suo tiro è fortissimo, sia da fermo sia in corsa, sia a volo. I suoi stacchi sono violenti e insieme coordinati, così da consentirgli incornate straordinariamente efficaci. Riva è intelligente e tuttavia coraggioso fino alla temerarietà» (Massimo Raffaeli, ”il manifesto” 7/11/2004). «Lo chiamavano Rombo di Tuono. Era stato Gianni Brera a soprannominarlo così commentando la partita Inter-Cagliari del 25 ottobre 1970. Sei giorni dopo, a Vienna, veniva falciato dal difensore austriaco Hof. Seconda gamba fratturata, stavolta la destra, stavolta in modo ancor più serio rispetto al crac al perone sinistro del 27 marzo 1967, Italia-Portogallo. Ha dato due gambe alla nazionale. Terzo infortunio il primo febbraio 1976: ”Correvo, avevo Bet al mio fianco. Cercai di compiere una torsione. I tacchetti mi bloccarono il piede al terreno e mi girai solo con l’anca. Avvertii il dolore acuto di quando si rompe qualcosa. Crollai a terra. Mi portarono via in barella. finita, pensai”. Era finita: il terzo grave infortunio stracciò la carriera del più grande attaccante italiano del dopoguerra, il re del gol in nazionale (35 in 42 partite). ”Rottura del capolongo all’adduttore della coscia destra”, la diagnosi del 2 febbraio a Roma, dove fu visitato dal professor Perugia. Il 6 febbraio l’operazione. Perugia disse: ”Tornerà a giocare”. ” vero. Guarii. Dopo un anno ero in grado di scendere in campo, ma ci furono contrasti con il Cagliari. Quando annunciai il ritiro, pensavano che il giorno dopo sarei tornato. Stanno ancora aspettando […] Oggi il mestiere dell’attaccante è molto più facile. Vietato fermare gli attaccanti per la maglia. Proibito il fallo dell’ultimo uomo. Rigori facili” […] Lo avevano chiamato, da ragazzo, ”furcelina”, ”forchettina”. Aveva le spalle larghe per le nuotate nel Lago Maggiore e lo scatto plasmato nelle partitelle dell’oratorio di Leggiuno, ma era magro da far paura. ”Sono figlio della guerra. Dalle mie parti la vita era dura”. Per lui fu durissima. Il padre Ugo, tifoso di Coppi, operaio in una fabbrica, morì in un incidente di lavoro. La madre Edis trovò un posto in una filanda. Fu messo in collegio. Il suo piede sinistro lo portò lontano. A Laveno, nell’estate 1960, il primo ingaggio: abbonamento del pullman e mille lire a punto. Nel 1962 il passaggio al Legnano, serie C, e un ex portiere ungherese, Franz Feher, che con allenamenti durissimi fece esplodere i muscoli. Nel 1963 sbarcò a Cagliari, in B, e cominciò l’avventura lunga tredici campionati, una promozione in A nel 1964 e lo storico scudetto del 1970. Nel 1968 il titolo europeo con l’Italia, nel 1970 il secondo posto ai mondiali messicani (’la maggiore delusione della mia carriera”). rimasto a Cagliari. un totem della Sardegna. Ha fatto scrivere saggi di sociologia applicati al pallone. Si rilassa con il golf. Non è mai tornato in campo ”perché le partite delle vecchie glorie mi mettono una tristezza infinita”» (Stefano Boldrini, ”Corriere della Sera” 1/2/2001). «Vide per la prima volta la Sardegna da un oblò, nell´azzurro che lo teneva lontano e forse protetto dal futuro. ”Stavamo andando a Siviglia con la nazionale juniores, io giocavo nel Legnano e avevo diciotto anni. Il pilota disse che si stava sorvolando la Sardegna, guardai sotto e pensai: questi poveracci stanno peggio di me, che pure arrivo da un paesino. Dopo la partita di ritorno, al Flaminio, il Cagliari mi comprò per trentasette milioni e mezzo. E io decisi: laggiù non ci vado assolutamente!” A quell´epoca, nello sport come per i militari di leva, la Sardegna era una punizione. ”Ai giocatori indisciplinati si diceva ”ti sbatto in Sardegna!’. La Fiorentina lo fece con Albertosi e Brugnera. Andai a vedere com´era Cagliari solo per non dare un dispiacere al presidente del Legnano, il signor Caccia che per me era quasi un padre. Mi accompagnarono lui e mia sorella, arrivammo di notte. Ma se avessi rifiutato, in tempi di vincolo contrattuale sarebbe stato l´addio al calcio. Qualche mese più tardi mi fecero alloggiare in foresteria con gli altri ragazzi del Cagliari, era come stare in collegio, ricordo il primo Natale da solo, a mille chilometri da casa. Pensavo: gioco un campionato qui, il ”63-´64, poi mi trasferisco al nord. Però quel campionato di B lo vincemmo, e il Cagliari rifiutò le offerte dell´Inter e del Bologna. [...] Capii che non me ne sarei andato quando arrivammo secondi, quando ci tolsero lo scudetto con decisioni arbitrali molto discutibili. I compagni venivano da me con discrezione e mi dicevano: Gigi, è stato bello, ma se te ne vai finisce tutto. Capii che sarei rimasto quando si andava in trasferta a Milano, a Torino, e ci chiamavano pecorai. Oppure banditi. Avevamo dalla nostra migliaia di sardi all´estero, in quell´Italia del nord. Non esisteva la Costa Smeralda, non c´era mica l´Aga Khan, questa bellissima terra non l´avevano ancora massacrata. Noi, che pure eravamo solo dei calciatori, le demmo un nome. Eravamo una questione d´orgoglio, di rivincita per tanta gente. Ed eravamo una squadra completa, giusta sul campo in ogni ruolo. A Milano, una volta, un arbitro si rivolse a Suarez chiamandolo ”signor Suarez’, e a un mio compagno invece urlò ”se non stai zitto ti sbatto fuori’. Non ci sentivamo soltanto la squadra di Cagliari, ma il simbolo di tutta la Sardegna. Io rispondevo alle ingiustizie a muso duro, e spesso mi perdonavano perché ero importante per la nazionale e non potevano squalificarmi: allora, gli squalificati non venivano convocati”. E il Cagliari si stava allargando in azzurro: ”C´eravamo io, Domenghini, Cera, Albertosi e Niccolai. E di scudetti potevamo vincerne due: nel ”70-’71 eravamo in testa alla quinta giornata, avevamo vinto 3-1 a San Siro con l´Inter e 4-1 all´Olimpico contro la Lazio. Ma poi mi ruppi la gamba. [...] Angelo Moratti diede un sacco di soldi al Cagliari per congelarmi, perché non fossi venduto a nessuno. Boniperti ci scherza e mi aggredisce ancora, quando mi incontra: in tasca ha sempre il foglio a quadretti dove il nostro presidente scrisse cosa voleva per vendermi: Bettega, Capello, uno tra Marchetti, Gentile e Cuccureddu, più Boni della Sampdoria, Casarsa del Bari, Brignani del Cesena, e inoltre che gli piazzassero Albertosi per avere un altro portiere. Rifiutai la Juve, rifiutai l´Inter e il Milan di Buticchi. Ma a San Siro, verso il settantesimo minuto, quando avevamo già segnato tre gol il pubblico smetteva di gridare pecorai e qualche volta applaudiva”. La maglia bianca con i laccetti, la pubblicità della birra Ichnusa allo stadio. C´era in panchina un allenatore che chiamavano filosofo, Manlio Scopigno, un nome come un groviglio da pronunciare e anche lui era così, complesso. I continentali all´inizio sbagliavano l´accento dello stadio Amsìcora, lo chiamavano Amsicòra. ”Alle undici di mattina era già pieno. Il pallone calciato forte aveva lì dentro un suono cupo, e i tifosi battevano i piedi sulle pedane di legno: come un temporale, qui che non piove mai. E non c´era latitante in Supramonte che non tenesse con sé una radiolina, non c´era pastore nel capanno che non ascoltasse Tutto il calcio minuto per minuto. Una squadra forte, compatta, orgogliosa. Un ottimo allenatore. Il mio sinistro. Il carattere di una terra. Tutto questo, credo, ci portò allo scudetto. [...] Io, nel giorno di riposo andavo all´interno, volevo vedere, volevo provare a capire. Mi spingevo fino a Orgosolo, erano i tempi di Mesina latitante. Seppi che il suo primo delitto avvenne perché gli avevano ammazzato una pecora. E io non parlo per giustificare, mi interessa conoscere: questa gente abbandonata da Dio, fuori da un mondo che si chiamava e che si chiama Italia, senza scuole, senza lavoro, senza regole, senza futuro. Da una parte la pecora ammazzata, dall´altra gli yacht: e allora può nascere un certo risentimento. [...] Io non ho mai avuto paura dei rapimenti. Un giorno andai in un paesino che si chiama Seui, entrai con un amico in una casa piccolissima dove una vecchia ci offrì da bere. Sulla credenza teneva le foto dei figli e dei nipoti, e lì accanto una mia immagine. Mi strinse la mano e mi disse grazie, con un filo di voce, grazie Gigi Riva per quello che fai per noi”» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 27/12/2003). «Riva era così: forza e coraggio, come le polisportive d’una volta. Frangar, non flectar, per chi era fresco di liceo. Rombo di Tuono lo sarebbe diventato prima del Messico. Gli piaceva il soprannome? ”Molto, anche se a Brera non l’ho mai detto. Veniva da uno importante, all’estero il più intervistato dei giornalisti italiani era lui”. Riva non ha mai amato i giornalisti. [...] la sua specialità era dribblarli. Non essendoci telefonini, ai campioni si faceva la posta sotto casa. Per Riva, la casa di Fausta, la sorella che gli ha fatto da madre. O era in ritardo l’aereo dalla Sardegna, o Gigi era appena uscito e chissà quando sarebbe rientrato. Nell’attesa, spesso inutile, Fausta faceva un caffè [...] mostrava i quadri (paesaggi) che dipingeva suo marito, gli album di ritagli su Gigi calciatore. ”A me non importa nulla, se vuoi pensaci tu”, le aveva detto. Gigi di suo aveva due scatoloni di ritagli in garage: uno scatolone per Bandini, morto bruciato a Montecarlo, l’altro per Tenco suicida (forse) a Sanremo. [...] i compagni lo chiamavano Hud (Hud il selvaggio era un film con Paul Newman). A volte mollava tutti al tavolo del ristorante Corallo e usciva a correre in macchina sulla costa, a tutta velocità, da solo. Boninsegna diceva di aver fatto un’assicurazione sulla vita, dopo la prima uscita sull’Alfa 1600 di Gigi. [...] Ugo Riva, il padre, era tornato dalla prima guerra mondiale con una medaglia di bronzo al valore. Aveva fatto il sarto, il barbiere, poi era entrato in fonderia. Una scheggia di ferro schizzata via dalla pressa lo passa da parte a parte, come fosse in guerra. Muore il 10 febbraio del ”53. Edis, la madre, lavora in filanda e arrotonda facendo pulizie nelle case dei meno poveri. Gigi è mandato in collegio dai preti: a Viggiù, a Varese, perfino a Milano. Scappa un sacco di volte, e ogni volta lo riportano indietro. Se avrà incubi, da adulto, riguarderanno i giorni in collegio e più tardi quelli in divisa militare, sempre obbligato a obbedire. ”E il peso, l’umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire sempre grazie signora grazie signore a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi”. [...] Quand’era ancora al Laveno gli arrivò la convocazione dell’Inter e Gigi era interista. Mostrò quel pezzo di carta a tutto il paese, compresi i dirigenti del Laveno che glielo sequestrarono e addio convocazione dell’Inter. E poi, quand’era al Legnano e in Nazionale juniores, la svolta. Italia-Spagna all´Olimpico, 13 marzo ”63, molti osservatori in tribuna, per il Cagliari Silvestri, Tognon e il dirigente Arrica. Nell’intervallo, accordo col Legnano per 37 milioni. Nel secondo tempo Gigi segna il definitivo 3-2 e Dall´Ara (Bologna) offre 50 milioni. Ma ormai è fatta. [...] ”La Sardegna allora non era la Costa Smeralda, l’Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione. Dall’aereo, sembrava di andare in Africa. Un aereo che non andava oltre i quattromila metri, viaggi da incubo. Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m’invitava a cena, quella dell’edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c’erano cinque-seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace di non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io. E nessuno di noi giocatori era sardo. Ma eravamo un gruppo forte, solido, senza che nessuno ci avesse mai chiesto di fare gruppo. Rappresentavamo tutta l’isola, lo sapevamo e ci piaceva”. Per questo non si è mai mosso? ”Anche per questo, e perché stavo bene così. Ma ogni volta ne parlavo coi compagni: se a voi va bene, rimango. Un giorno Martiradonna mi disse: rimani, così finisco di pagare la cucina. Ai tempi, si viveva di premi-partita, gli ingaggi non erano granché, tutto quello che ci veniva in tasca lo sudavamo sul campo, non c’erano sponsor per le scarpe, gli occhiali, le tute. L’unica possibilità di guadagno extra mi arrivò dal regista Zeffirelli: 400 milioni per intepretare san Francesco in Fratello sole, sorella luna. No grazie”. Uno scudetto: poco o tanto? ”Poco, altrove ne avremmo vinti tre, ma davamo fastidio al Nord. E il destino, anche. Prima che Hof mi rompesse una gamba a Vienna, avevamo vinto 3-1 in casa dell’Inter ed eravamo primi in classifica. Mazzola sul 3-0 venne a dirmi: Gigi, andateci piano o qui vien fuori un casino. Rallentammo. Angelo Moratti so che mi voleva, ma Herrera preferiva Pascutti, più maturo e affidabile secondo lui. Non andò in porto. Ogni anno, sapendomi interista, Moratti mi mandava una sterlina d’oro per Natale. Una volta chiaro che non mi avrebbero preso, credo abbia dato dei soldi al Cagliari per garantirsi che non andassi altrove”. Con quali giocatori ha legato di più? ”Non guardavo alla grandezza ma alla simpatia. Uno, Aristide Guarneri, che non vedo almeno da 35 anni, l’altro il povero Bruno Mora. Con Fabbri lui poteva fumare, io no perché ero l’ultimo arrivato. Allora Bruno mi chiamava dietro il pullman e mi passava una cicca. E poi, amici veri sono Boninsegna, Gori, Cera, Ferrero, Zignoli, Tomasini, quelli di quel periodo [...] Scopigno era intelligentissimo, ci faceva ragionare oltre il calcio e ci trattava da uomini. Pensa cos’era a quei tempi abolire il ritiro prepartita. Quando si ruppe Tomasini inventò Cera libero e giocavamo un 4-4-2 molto attuale, solo Martiradonna e Niccolai giocavano a uomo. Scopigno aveva tanti interessi, dalla musica alla pittura, ci dava fiducia ma non dovevamo deluderlo. Se in albergo facevamo chiasso a tavola, picchiava il coltello su un bicchiere e diceva: ragazzi, non siamo a casa nostra. E non volava più una mosca. Una notte in albergo si giocava a poker in camera mia, con Albertosi, Poli e Gori, fumo da tagliare con l’accetta, avevamo fatto salire panini e bottiglie. Bussano alla porta, sarà l’una, Gori intuisce chi è e si nasconde nell’armadio. Scopigno entra e dice: ”Almeno invitare gli amici, quando si fa festa’. Si siede sul mio letto e fa: disturbo se fumo? Noi zitti. E lui: però è l’ultima, anche per voi. Il giorno dopo abbiamo vinto 3-0 [...]» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 5/11/2004).