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 2002  marzo 15 Venerdì calendario

Said Edward

• Gerusalemme (Israele) 1 novembre 1935, New York (Stati Uniti) 25 settembre 2003 • «La sua vita si confonde con il destino di un popolo, quello palestinese, di un angolo del mondo, Israele e la Palestina. E´ stato un acuto osservatore delle società arabe e dell´Occidente, poiché viveva negli Stati Uniti dove per anni ha insegnato Letteratura comparata presso la Columbia University di New York. [...] La sua vita si confonde con la storia del Medio Oriente. Nel 1922 la Società delle Nazioni aveva assegnato il mandato sulla Palestina alla corona britannica, definendo il suo compito come “sacra missione di civilizzazione”. Said nacque a Gerusalemme nel 1935, e la sua vita fu segnata dalla nascita del conflitto israelo-palestinese: si trasferì in Egitto con la famiglia, per emigrare in seguito negli Stati Uniti. Vivere oltre oceano implicò per lui l´emarginare la sua lingua materna, l´arabo, in una situazione di dualismo e lacerazione. Ha consegnato tutte le vicende della sua vita in una bellissima autobiografia dal titolo Out of Place, pubblicata a New York nel 2000 (tradotta in italiano da Feltrinelli con il titolo Sempre nel posto sbagliato), in cui scrive: “La cosa più importante per me, come autore, era il sentimento permanente di cercare di tradurre delle esperienze vissute non solo in un contesto lontano ma anche in una lingua differente. Tutti vivono la propria vita in una data lingua; l´esperienza di ciascuno si svolge, è assorbita e memorizzata in quella lingua. La lacerazione fondamentale nella mia vita è quella che separa l´arabo, la mia lingua materna, dall´inglese, la mia lingua scolastica e, in seguito, la mia lingua d´espressione in quanto universitario e professore. Così, cercare di scrivere in una lingua per raccontare una storia vissuta in un´altra lingua - senza contare i numerosi mescolamenti e passaggi che per me si creavano fra quelle due lingue - era un´impresa complicata”. In alcune pagine toccanti parla di un mondo che non c´è più e che non tornerà mai più. Storia di una peregrinazione, di una lacerazione interiore, di un doppio esilio, la riflessione di Edward Said è una riflessione sul sé, che finisce per assorbire la vasta moltitudine di identità che si trasformano in popoli nel Medio Oriente, in quell´Oriente il cui concetto egli contestava. Ebbe notorietà in Europa soprattutto agli inizi degli anni ´80, grazie al suo famoso saggio Orientalism (Orientalismo, Feltrinelli), in cui contestava la categoria dell´Oriente e gli stessi orientalisti. Per lui l´Oriente rappresentava una categoria dell´immaginario; l´orientalismo era uno strumento di quell´immaginario, che poteva definire anche i rapporti di forza e gli strumenti di controllo. Il dibattito sollevato da Edward Said fu acceso: un grande orientalista, Maxime Rodinson, rispose con un saggio dal titolo La fascination de l´islam, in cui non contestava realmente Said, ma metteva in evidenza come grazie all´orientalismo si fosse salvato dall´oblio e dalla distruzione un vasto patrimonio di memorie storiche. Edward Said ha continuato nella decostruzione dell´idea di Oriente, evidenziando come i modelli culturali veicolino forme e rappresentazioni: ad esempio nel suo saggio Culture and Imperialism (Cultura e imperialismo, Gamberetti). Per gli studiosi di quel mondo che come me da esso provengono, la riflessione di Edward Said è importante anche perché ha evidenziato che la difficoltà di conoscere e studiare le società arabe proviene sia dalle loro condizioni che dalle molteplici trasformazioni che quelle società stanno vivendo, come pure dalla percezione che di esse si ha. Secondo lui, infatti, la storia si situa al centro di una serie di rivalità in cui convergono poste in gioco identitarie, politiche e simboliche. I suoi lavori definiscono luoghi e memorie, in cui procedure di occultamento, conflitti interpretativi, questioni dell´alterità sono altrettanti spazi in cui lo storico esercita il suo mestiere ma anche promuove memorie che rischiano di essere dimenticate o emarginate. C´è una trama essenziale nei suoi interventi: è quella di definire un popolo, di dire come un popolo approdi alla propria storia, come la formuli. L´identità palestinese fu il suo leit-motiv: un´identità ferita, travagliata, dai molteplici occultamenti sia da parte araba che da parte occidentale. Il suo impegno fu anche politico oltre che intellettuale, anche se molto critico verso la dirigenza palestinese: agire politicamente per lui significava prolungare la riflessione e confrontarsi con la realtà. Questo conduce talvolta l´intellettuale alla perdita della sua distanza critica: ma egli era un intellettuale impegnato nel senso di Jean-Paul Sartre. Ha contribuito a definire ciò che comunque rimane un mistero per le scienze sociali: che cos´è un popolo. Con lui se ne va un po´ di quell´identità palestinese che lui stesso aveva contribuito a formulare con i suoi lavori, nell´osservare le società arabe» (Khaled Fouad Allam, “La Stampa” 26/9/2003). «Il suo cruccio maggiore era che parlava per gli arabi, difendeva la causa palestinese, si presentava come il portavoce della sua gente negli Stati Uniti, ma larga parte dei suoi libri proprio nel mondo arabo venivano censurati, vietati, ostracizzati. Paradosso dei paradossi, Edward Said, il palestinese, l’intellettuale arabo che ai tempi dell’accordo di Oslo nel 1993 accusava Arafat di “svendere la causa palestinese, sino a diventare collaborazionista con l’esercito israeliano”, era più ascoltato dall’intellighenzia della sinistra ebraica a New York, che tra gli studenti palestinesi dell’università di Bir Zeit, la più importante in Cisgiordania. [...] “Ma guarda che scandalo”, diceva in un’intervista al “Corriere” qualche anno fa durante una delle sue rare visite a Gerusalemme, “i miei libri sono in vetrina nella parte ebraica della città, ma non nelle librerie della Cisgiordania. Arafat li ha fatti sequestrare. Un libraio di Gaza mi ha detto che hanno portato via settantadue copie del mio libro di saggi critici del processo di pace, e non lo hanno neppure indennizzato”. Forse perché era un arabo cristiano, minoranza scomoda in questo Medio Oriente sempre più patria dei fondamentalismi islamici. Oppure perché era un arabo ormai abituato a ragionare con i canoni critici maturati nelle migliori università americane. Sta di fatto che Edward Said era davvero un intellettuale scomodo. Nella sua autobiografia [...] racconta la sua breve infanzia a Gerusalemme, dove era nato da una famiglia dell’alta borghesia palestinese cristiana. Il padre Wadie (Guglielmo), della piccola comunità anglicana della Città Vecchia, aveva sposato nel 1932 Hilda Musa, che proveniva dalla ancora più minoritaria comunità battista di Nazareth. A Gerusalemme ci restano sino al 1947, abbastanza per assistere all’intensificarsi della guerra tra arabi ed ebrei. Poi, come tante altre famiglie dell’alta borghesia palestinese, si spostano al Cairo, dove Said frequenta le scuole migliori. Poco dopo la nascita dello Stato di Israele, viene mandato a perfezionarsi negli Stati Uniti. Studia musica, diventa un ottimo pianista, letteratura, resta nel mondo accademico, sino a diventare professore di letteratura comparata alla Columbia University di New York. Sono presto celebri i suoi saggi di musicologia. Ma la fama internazionale arriva nel 1978, quando pubblica Orientalismo,: una accusa serrata contro i pregiudizi attraverso i quali i media e il mondo intellettuale occidentale guardano agli arabi. Il saggio diventerà un best-seller dieci anni dopo, quando lo scoppio della prima intifada nei territori occupati rilancia con drammaticità l’attenzione sulla questione palestinese. Da allora Said è sempre in prima linea. Parla inglese meglio che l’arabo e soprattutto parla la stessa lingua dell’intellighenzia occidentale. I suoi saggi diventano il contraltare delle mille voci che parteggiano per Israele. Il suo status di intellettuale della diaspora lo rende ben accetto tra i circoli della sinistra ebraica negli Stati Uniti. Ma non può sopportare le dittature, il fondamentalismo islamico, il clima oppressivo che regna nei paesi arabi. Said è un laico, può capire la rabbia dei kamikaze di Hamas, il loro nazionalismo e le frustrazioni per l’occupazione israeliana, ma non la jihad (la guerra santa) e il fanatismo religioso. Così quando nella prima metà degli anni Novanta critica il processo di pace, lo fa riprendendo la tesi dei partiti comunisti ebraico e palestinese (dove guarda caso militavano molti arabi cristiani) che propagandavano la necessità di uno Stato binazionale. “Arabi ed ebrei possono convivere assieme in uno stesso Stato. In ogni caso la crescita delle colonie ebraiche nei territori occupati rende impossibile la separazione”, continua a ripetere. Lo fa sino all’ultimo, anche durante questa seconda intifada, senza mai abbandonare le sue riserve per Arafat e la paura per Sharon. E muore lontano, negli Stati Uniti, dove aveva sempre vissuto» (Lorenzo Cremonesi, “Corriere della Sera” 26/9/2003).