Varie, 15 marzo 2002
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Schlesinger Arthur
• Columbus (Stati Uniti) 15 ottobre 1917, New York (Stati Uniti) 1 marzo 2007 • «Professore di storia e padre nobile del partito democratico degli Stati Uniti» (Antonio Carlucci, “L’Espresso” 18/2/1999) • «Angelo custode di John Kennedy, storico della democrazia americana, personaggio di primo piano della cultura mondiale. È un “liberal” impenitente, ma attenzione a non etichettarlo secondo schemi troppo rigidi, ideologici: perché, ad esempio, è favorevole alla pena di morte» (Arturo Zampaglione) • «[...] Senza di lui, l’uomo che inventò Kennedy, non ci sarebbe stato un John Kennedy. Quello che Lee Harvey Oswald fece quella mattina di ottobre a Dallas con i proiettili del suo fucile Carcano, scolpendo per l’eternità il volto, il sorriso, il ciuffo di JFK nella memoria della sua gioventù interrotta, Arthur Bancroft Schlesinger fece con le 384 pagine dei suoi Mille Giorni di Kennedy, la cronaca di una presidenza troppo breve, letta attraverso gli occhi umidi di chi l’aveva amata, nutrita e creata nella saga di una moderna Camelot. Molto prima che la letteratura di regni immaginari, draghi, maghetti, anelli, conflitti fra spiriti buoni e spiriti malvagi invadesse le librerie, questo professore harvardiano e studioso di storia con due Premi Pulitzer divenuto più narratore che ricercatore, aveva restituito alla Casa Bianca e ai suoi occupanti l’aureola di una magia che non avrebbe mai più avuto, coperta dal silenzio e dalla complicità degli iniziati. “La luce che emanava dalla Casa Bianca dei Kennedy si diffondeva come il chiarore di una torcia nella foresta oscura della città che la circondava”, scrisse. Schlesinger era, nella sua apparenza esterna di wizard, di mago buono avvizzito dal tempo, con l’immancabile papillon al collo e le giacche di cotone a righe bianco-azzurre di tessuto seersucker stazzonate da professore universitario incollato alla sedia della cattedra, il prototipo di ciò che negli anni ’60 fu la “nuova generazione” al potere. Si chiamavano “teste d’uovo”, erano intellettuali sfornati dalle grandi università e persuasi di essere destinati a riplasmare l’America, convinti di essere non soltanto i migliori, quali spesso erano, ma gli unti dal dio dei destini americani. Veniva da lombi materni e paterni di famosi storici, autori di monumentali storie degli Stati Uniti, docenti a Harvard, come il padre, risucchiati dall’atmosfera sofisticata ed elegantemente spocchiosa dei bramini della “intellighentsya” bostoniana, anche se la famiglia Schlesinger veniva dal Mid West più ruvido, dall’Ohio. Secondo la legge del “nella vita importa più chi conosci di ciò che conosci” a Harvard fu compagno di corso del primogenito Kennedy, Joseph jr, il più brillante della nidiata di Rose e Joseph senior, destinato a precipitare sulla Germania in una missione di guerra segreta e rischiosa. Ma il contatto con la famiglia era stato stabilito e non fu una sorpresa quando, la sera del 9 gennaio 1961, undici giorni prima dell’ingresso ufficiale alla Casa Bianca, John F. Kennedy, il “presidente eletto”, entrò senza farsi annunciare nella casa di Schlesinger e gli chiese di accompagnarlo a Washington, come “consigliere”. Uno storico? Perchè mai uno storico? Perchè JFK era un ingordo lettore di storia, sfogliava le opere di Barbara Tuchman come La Marcia della Follia sulla assurdità e la follia catastrofica dei conflitti nelle ore della crisi dei missili. Ed era, come lo stesso Schlesinger lo aveva descritto prima di beatificarlo, “un giovane non stupido”. Ma sapeva circondarsi di “cavalieri” che lo avrebbero deificato e avrebbero taciuto le sue debolezze e i segreti di corte. E mentre Jackie riverniciava e riarredava la Casa Bianca con l’aiuto dei curatori dei musei di storia americana e con i soldi di ammiratori munifici come il miliardario Paul Mellon, Ted Soerensen forgiava le parole stupende che il Presidente avrebbe pronunciato, (“non chiedete che cosa la nazione possa fare per voi, ma che cosa voi possiate fare per la nazione”); Pierre Salinger e Bill Moyers seducevano la stampa e corteggiavano quelle telecamere che avevano fatto vincere il loro uomo nel duello con Nixon, avendo capito che i media vanno usati, come poi avrebbe fatto Reagan, e non subiti o messi al guinzaglio, come poi avrebbero tentato di fare Nixon, Clinton e Bush con esiti disastrosi. Bob McNamara progettava con il regolo e la calcolatrice guerre “per sconfiggere il comunismo pagando ogni prezzo e portando ogni peso” (altra frase di Soerensen) e l’accademico, il maghetto con il farfallino, prendeva gli appunti per inventare la futura saga del nuovo re Artù. Soltanto molti anni, e molte delusioni più tardi, Schlesinger ammetterà di avere molto edulcorato quei mille giorni, per i quali prese comunque il secondo Pulitzer, di avere poi cercato invano di reinventarsi un altro Jfk nella disastrosa candidatura di McGovern e poi nell’abortita campagna dell’ultimo fratello superstite, il senatore Ted. Sarebbe invece rimasto un liberal impenitente fino alla fine, un “democratico” nel midollo delle ossa, oggetto di scherno per gli avversari di destra che gli ricordavano di avere sbagliato tutte le teorie sui cicli della storia elettorale americana. [...] È morto, a quasi 90 anni (era del 1917) ancora fanaticamente al lavoro - scriveva in media 4.000 parole al giorno - e tenacemente persuaso che la missione storica dell’America sia quella di essere una forza di pace, non isolazionista, non avventurista, mai uno strumento di guerra, che la filosofia del New Deal, di un modesto, attento, prudente intervento della “mano pubblica” nell’economia sia necessario per temperare gli eccessi e le sregolatezze del capitalismo sfrenato e amareggiato da quella sciagura irachena che lui aveva definito “un pasticcio osceno”. [...]» (Vittorio Zucconi, “la Repubblica” 2/3/007) • «[...] l’icona liberal dell’America, il simbolo, assieme all’economista John Kenneth Galbraith, della sua età d’oro intellettuale, quella di John F. Kennedy [...] il cantore del rooseveltismo e del kennedismo, ha lasciato al Paese un’eccezionale eredità: 20 illuminanti libri di storia e di politica di cui il primo, sul presidente Andrew Jackson, pubblicato nel ’45, e l’ultimo, contro la guerra in Iraq, nel 2004; campagne vittoriose di difesa dei diritti umani e delle libertà civili durante la guerra fredda; e una dottrina del liberalismo, Il centro vitale, dal titolo di un saggio del ’49, che ha resistito a ogni riflusso conservatore. La fama di Schlesinger, due volte vincitore del premio Pulitzer, resta affidata ai suoi tre volumi dell’Età di Roosevelt, a I mille giorni di John F. Kennedy, a Robert Kennedy e i suoi tempi e a La presidenza imperiale, un libro del ’73 contro il presidente Richard Nixon e il suo rafforzamento del potere esecutivo a danno del potere legislativo, “un attentato — protestò — alla democrazia”. Oltre che come storico, Schlesinger va ricordato anche come politico. Negli anni trascorsi alla Casa Bianca quale consigliere di Kennedy dal ’61 al ’63, rappresentò la voce della ragione, inascoltata quando si oppose all’invasione di Cuba, poi fallita, e all’intrusione in Vietnam. Ma ascoltata ad esempio quando, in visita a Roma su incarico di Kennedy, caldeggiò l’avvento del centrosinistra in Italia. Ha notato il New York Times che “Schlesinger concepì la vita come un viaggio nella storia”. E per lui la storia fu una vocazione familiare e una maestra. Nell’800 un suo antenato, John Bancroft, scrisse una monumentale Storia degli Stati Uniti in 12 volumi e, nella prima metà del ’900, suo padre fu il massimo storico sociale del Paese. Ma Schlesinger ritenne sempre inseparabili la storia e la politica. Per questo, nella Seconda guerra mondiale prestò servizio a Parigi e Londra nell’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa, antesignano della Cia; nel ’47 fondò “Americans for democratic action” per lo sviluppo del New Deal di Roosevelt; e negli anni ’50 assurse a braccio destro del senatore Adlai Stevenson, candidato sfortunato alla presidenza, da cui passò poi a John Kennedy. Il ruolo di Schlesinger nella dinastia Kennedy fu definito da Time “di ponte tra essa e l’intellighenzia di sinistra da un lato e l’ala radicale del partito, quella di Eleanor Roosevelt, vedova del presidente Roosevelt, dall’altro”. Portò alla Casa Bianca compositori come Carlo Menotti e statisti stranieri. Inizialmente scettico nei confronti del presidente, che trovò “un uomo non sciocco ma un po’ conservatore”, ne rimase poi sedotto. Ma il suo idolo era il fratello Robert Kennedy, assassinato nel ’68, “uno dei più grandi politici che io abbia incontrato”. Dopo la parentesi di “luminare di corte” del nuovo Camelot, il regno di re Artù, come Kennedy amò dipingere la sua Casa Bianca, lo storico fece da consulente ai successivi presidenti democratici e al Congresso. Il suo papillon — non indossava la cravatta — divenne una sorta di stemma dei democratici, un nostalgico richiamo a un’età di ottimismo e speranza che non si sarebbe ripetuta. Molti, tra cui lo scrittore Gore Vidal, più liberal di lui, rimproverarono a Schlesinger di aver mitizzato i Kennedy. Altri lo accusarono di aver taciuto i vizi privati del presidente, come il suo gallismo. Negli ultimi decenni, pur disertando Washington, Schlesinger restò un punto di riferimento per il partito democratico, il leader della cosiddetta scuola di New York, dove insegnava all’università. Scuola a volte controversa, come quando si pronunciò contro il multiculturalismo, a favore del vecchio “crogiolo americano”. Assertore dei corsi e ricorsi storici, fu accusato dai repubblicani di non essere obiettivo. Rispose di non essersi mai spacciato per bipartisan e di essere convinto che il pendolo americano sarebbe ritornato a sinistra. È scomparso prima di poterlo verificare alle elezioni del 2008» (E. C., “Corriere della Sera” 2/3/2007) • «[...] . Era nato in Ohio ma cresciuto tra l’edera di Harvard, dove il padre era capo del dipartimento di Storia. Siccome non vedeva bene, durante la Seconda Guerra Mondiale lo avevano assegnato all’Office of Strategic Services, ossia il servizio segreto prima della Cia. Un intellettuale sul fronte delle lettere, contro fascismo e nazismo. Quando era tornato aveva accettato la cattedra ad Harvard. In pieno maccartismo aveva fondato l’Americans for Democratic Action, il gruppo dei liberal anticomunisti a cui è rimasto fedele tutta la vita, seguendo sempre l’impostazione del saggio Vital Center: politica interna progressista, e politica estera anti Urss. Ad Harvard lo aveva cercato il senatore John Kennedy, e Arthur si era lasciato convincere ad abbandonare l’establishment liberal di Stevenson, perché in lui aveva visto la possibilità di conquistare sul serio la Casa Bianca: “Un realista - lo avrebbe definito - mascherato da romantico”. Infatti Kennedy lo aveva portato alla corte di Camelot, dove sarebbe stato consigliere speciale. In quegli anni ebbe un ruolo decisivo anche per dare il via libera americano al centrosinistra in Italia. Un rapporto segreto della Cia che apriva a questa svolta porta ancora sopra la sua firma, come visto della Casa Bianca. Invece si era opposto allo sbarco nella Baia dei Porci, che ha sempre considerato l’unico errore commesso da Kennedy. Gli spari di Dallas avevano interrotto il suo sogno, e Schlesinger aveva lasciato l’amministrazione Johnson: il nuovo presidente texano non sapeva cosa farsene di quel professore col cravattino, e Arthur non voleva lavorare con lui, che era stato scelto solo per recuperare qualche voto al sud. Quindi era tornato all’accademia e a scrivere, cominciando con I mille giorni, quella storia di Camelot che John avrebbe voluto tratteggiare di persona, ma molti anni più tardi. Dandy sempre al centro della vita mondana, dalle feste di Truman Capote alle uscite con la vedova Jacqueline, era rimasto la coscienza del liberalismo americano, spesso critica. Ad esempio nel 1992, col libretto The Disuniting of America, aveva demolito la correttezza politica del multiculturalismo che stava distruggendo il melting pot. Quella era la nuova America di Clinton, eletto come se fosse il nuovo Kennedy, ma che aveva portato a Washington le politiche centriste del Democratic Leadership Council, la corrente moderata di cui era diventato capo quando era ancora governatore dell’Arkansas. Era l’America di Internet e del boom tecnologico a Wall Street, che pensava di poter fare a meno delle politiche sociali varate negli anni ’60, perché quando viene l’alta marea solleva tutte le barche. Schlesinger, sempre fedele alla linea liberal come unica via di progresso per la società, aveva sofferto un po’, ma poi si era preso la sua rivincita. Quando Clinton aveva perso le elezioni di medio termine del 1994, schiacciato dalla valanga conservatrice di Newt Gingrich, aveva riesumato proprio il Vital Center di Arthur per ricostruire la sua presidenza. Così erano tornati gli inviti alla Casa Bianca e le sedute per dare consigli. Schlesinger aveva difeso Clinton dall’impeachment per Monica, considerato un complotto politico, mentre avrebbe voluto quello di Bush per i danni della guerra preventiva, condannata nell’ultimo libro della sua vita, War and the American Presidency. A 89 anni, aveva sempre fretta di lavorare: “Alla mia età, non c’è un minuto da perdere”» (P. MAS., “La Stampa” 2/3/2007).