Antonella delli Carri - Macchina del Tempo Anno 3 n.12/13 Febbraio/Marzo, 26 marzo 2002
Esiste un gene dell’umanità? «Quel margine di differenza dell’1,6% nei genomi non deve creare false speranze» avverte Paolo Menozzi, professore di ecologia all’Università di Parma «perché non vi troveremo mai la spiegazione di cosa ci fa uomini»
Esiste un gene dell’umanità? «Quel margine di differenza dell’1,6% nei genomi non deve creare false speranze» avverte Paolo Menozzi, professore di ecologia all’Università di Parma «perché non vi troveremo mai la spiegazione di cosa ci fa uomini». Il numero dei geni umani, fino a pochi anni fa stimato intorno a 100.000, potrebbe infatti non superare i 30.000. Sarebbe quindi ridotta di molto l’importanza delle caratteristiche genetiche e invece aumentata quella dell’ambiente in cui cresciamo. «Esperimenti come quello di Snyder sono molto interessanti» continua Menozzi, «e di grandissimo valore per capire il funzionamento e la crescita delle cellule staminali nervose. Questo fenomeno è indubbiamente molto simile nelle due specie e lascia molto sperare. Il nostro antenato comune risale però a qualcosa come 5-10 milioni di anni fa e le differenze tra il nostro cervello e quello di un primate sono ormai profondissime». La diversità tra uomo e scimmia sembra in realtà un delicato cocktail di codici genetici e stimoli ambientali. A prima vista la genetica sembrerebbe favorire l’uomo rispetto alla scimmia. Sono infatti i nostri geni a fornirci un cervello più grande con regioni del linguaggio più sviluppate. Queste, situate nei lobi frontali, nella cosiddetta area di Broca, che prende il nome dal Paul Broca che per primo la descrisse nel 1861, sono invece praticamente assenti nelle scimmie. Ma anche l’ambiente conta: se un bambino non vive in una famiglia umana e non viene esposto quotidianamente all’uso delle parole durante i primi anni di vita, quasi certamente non imparerà più a parlare. Un esperimento del genere fu avviato nel 1933 da Winthrop e Luella Kellog decisero di allevare uno scimpanzè insieme a loro figlio. Risultato: la scimmia rimase scimmia, mentre il figlio sviluppò gravissimi problemi di apprendimento. Niente paura però: per quanto geneticamente talmente simili da poter ingannare le nostre stesse cellule e farle crescere nel cervello di una scimmia, le differenze tra le specie rimangono fondamentali. I piccoli di scimpanzé che sono stati allevati da famiglie umane si sono dimostrati ben più svegli e rapidi di un bebè nell’assimilare nuove parole per tutti i primi tre anni di vita. Ma in seguito non hanno più manifestato curiosità di fronte alle parole.