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 2002  marzo 28 Giovedì calendario

Ciriello Raffaele

• Venosa (Potenza) 2 agosto 1959, Ramallah (Palestina) 13 marzo 2002. Ucciso dai colpi di mitragliatrice sparati da un tank israeliano. Fotografo. «Il padre Giuseppe, 73 anni, ex dirigente dell’intendenza di finanza, la mamma Teresa, ex insegnante elementare, la sorella Corinne, 30 anni, avvocato civilista. La passione sfrenata per la fotografia Raffaele ce l’ha avuta fin da ragazzino - racconta la madre. - In terza media vinse un concorso di religione, il “Veritas”. Avrebbe potuto scegliere, come primo premio, tra un viaggio a Venezia o una macchina fotografica. Non ebbe esitazioni: scelse la macchina fotografica. Per anni la casa fu invasa da vaschette per lo sviluppo delle fotografie. Il bagno trasformato in camera oscura. Le librerie in archivi”. “Siamo lucani, originari di Venosa, il paese di Orazio, in provincia di Potenza - racconta con un filo di voce il padre - Siamo a Milano dal ’61, quando Raffaele aveva appena due anni. Dopo il liceo classico, al Berchet, Raffaele si è iscritto a medicina. La laurea e poi la specializzazione in chirurgia plastica. Ma la passione per la fotografia non lo ha mai abbandonato. E ha cominciato a viaggiare. Prima seguendo le gare motociclistiche, a cominciare dalla Parigi-Dakar. Poi le guerre”. Medico-fotografo. Sono le due anime, diverse, di Raffaele Ciriello. “Una strana dicotomia, di cui abbiamo parlato tante volte insieme - racconta il suo grande amico Luca Vaienti, responsabile del reparto di chirurgia plastica dell´Ospedale di San Donato Milanese. - La passione più forte, vincente, era la fotografia. Ma non dimenticava mai di essere un medico. Tre giorni prima di morire mi aveva telefonato da Ramallah per parlarmi di due gemelle siamesi che avevano bisogno di essere operate al più presto. “Devi trovare un posto per loro", mi aveva supplicato”» (Carlo Brambilla, “la Repubblica” 14/3/2002). «Gian Micalessin - amico, inviato di guerra freelance come lui, compagno di tanti servizi: “Raffaele era uno speciale - dice - fotoreporter, e chirurgo. La passione da una parte, e dall’altra un lavoro che non ha mai abbandonato. Non voleva quasi che si sapesse. Stavamo per partire, e mi diceva: dammi ancora due giorni, che ho qualche testa da rimettere a posto”. La guerra, sui fronti più caldi: il sangue, la morte, la sofferenza. Poi, al suo paese, ancora il mestiere di riparare altre sofferenze: chirurgo plastico. Fotogiornalista e medico: un caso unico, e forse significa qualcosa. La sua era la stessa passione divorante che animava Maria Grazia Cutuli, grande amica sua. Anzi, ecco cosa scriveva nel dicembre dell´anno scorso: “Dall’Afghanistan sono rientrato da pochi giorni. In tempo per apprendere dell’incidente che ha perduto Maria Grazia, un’amica dolcissima e una compagna di viaggio insostituibile”. Sierra Leone, Cecenia, Afghanistan, Kosovo, Iran, Libano, Ruanda, Eritrea, Somalia, Sahara Occidentale, Pakistan. Un fotografo vero, e proprio lontano dai cliché. “Era un uomo colto - racconta Alberto Negri del Sole 24 Ore - uno che si preparava, che studiava la storia dei paesi dove stava andando. Spesso era più informato di noi giornalisti scriventi, e ti aiutava sempre. Era riservato, educato, con la testa sulle spalle. Conosceva i rischi del suo mestiere, ma non era amante del rischio. Amava il viaggio e la conoscenza. Lui si appassionava ai paesi e alle persone”. Magro, leggero, ironico. Racconta Francesco Cito, uno dei più grandi fotogiornalisti italiani: “L’ho conosciuto nei primi anni ’90, in Palestina. Non si vestiva da battaglia, come tanti. Niente giacche militari. L’ho preso per un inglese. Abbiamo parlato in inglese per mezz’ora, prima di scoprire che venivamo tutti e due da Milano”. Cito, sulla morte ha una sua idea: “Gli hanno sparato apposta. Da quelle parti, non è che si spara a casaccio. L´hanno fatto per intimidire i giornalisti”. La moglie Paola lo aspettava a casa, con la figlioletta Carolina di un anno e mezzo: “Lei l’ha sempre sostenuto - racconta Negri - Si preoccupava, certo: aveva sposato un medico e si era ritrovata un fotografo di guerra. Ma non l’ha mai ostacolato. Anzi, era diventata amica di molti di noi, colleghi di Raffaele”. Per Ciriello il lavoro non finiva al ritorno da un servizio. S’era fatto un sito Internet (“Postcards from hell”, cartoline dall´inferno), dove sistemava le immagini dei reportage, le cose che scriveva. Al centro dello schermo campeggia una scritta: “Ciao Maria Grazia”. C’è anche un ritratto di Massud, una delle ultime foto del “Leone del Panshir” scattata sulle montagne afghane poco prima che venisse assassinato. “Quel ritratto è diventato la foto ufficiale di Massud - dice Massimo Cappon, amico e collega di Ciriello - Raffaele ne era talmente fiero che l’aveva attaccata al parabrezza del suo scooter”. Sul sito, anche le foto dei suoi “compagni di viaggio”. Ci sono quelle di Maria Grazia Cutuli, di Ilaria Alpi anche lei uccisa. Magro e silenzioso, ma d’acciaio. “Lo conoscevo da dieci anni - dice ancora Micalessin - dai tempi della Somalia, e abbiamo viaggiato molto insieme. Siamo entrati in Cecenia nascosti sul fondo di una jeep. In Kosovo siamo entrati fra i primi: erano marce interminabili, e Raffaele sembrava sempre che dovesse stramazzare. Sottile, mangiava pochissimo, ma non cedeva mai. Per uscire dal Kosovo abbiamo marciato per 25 ore”. Nella borsa, oltre alle macchine e agli obiettivi, portava sempre un palmare con centinaia di articoli: la sua documentazione per capire meglio» (Fabrizio Ravelli, “la Repubblica” 14/3/2002). «La parola inferno era la sua, era quella che ripeteva più spesso […] Tutti lo descrivono tranquillo, perbene, sereno, silenzioso, educato, elegante, che poteva far soldi facendo belle le signore, che poteva continuare ad andare su e giù fra Milano e Codogno dove la moglie Paola ha una farmacia, che poteva baciare e tenere in braccio la figlioletta Carolina di neanche un anno. No. L’inferno, l’inferno. Lo vedeva dove si soffre, si muore, si spara. L’inferno lo cercava. Il primo inferno fu il Sahara, il silenzio mortale del deserto intuito fra i rombi delle moto della Parigi-Dakar. Nel ’91 era là, faceva foto di sport. Iniziò così, come fotoreporter. E dieci anni più tardi è da tutt’altra parte, fa tutto un altro lavoro, è in Uzbekistan con i guerriglieri anti-taleban e un giorno sale su una vettura scassatissima, una Gaz, e racconta di quella polvere sollevata dall’auto che acceca e turbina, una polvere rossa che quasi lo manda in trance fra i mille sobbalzi sulle buche della strada e il frastuono del motore su di giri. È Uzbekistan e sarà Afghanistan, ma è come il Sahara. Sempre polvere, sempre deserto, sempre uomini in fuga, uomini che assalgono, sparano, uccidono e muoiono. Perché mai questa folgorazione per l’inferno? Nel ’98 era in Kosovo, e una sera cercava di tornare in Albania clandestinamente al seguito di una colonna di profughi e di partigiani dell’Uck. Aveva marciato tutto il giorno per quelle montagne, era pure salito su un cavallo e poi su un mulo, era stanco morto quando in un bosco esplode davvero l’inferno, le pallottole sibilano dappertutto. Un’imboscata dei serbi. “Per fortuna c’era il fango, che attutisce i colpi dei mortai - ricorda Fausto Biloslavo, inviato del “Giornale” - Lui non disse una parola, quando ci rivedemmo all’alba. Eravamo fuggiti tutta la notte. Ciriello era taciturno, sempre garbato, sempre molto british, con un aplomb che mi dava sui nervi. Scherzo, naturalmente. Gli volevo e gli voglio bene. Ma il suo stile silenzioso era proverbiale fra noi inviati di guerra. Un giorno lo vidi fotografare impassibile orrende fosse comuni in Bosnia. Clic, clic. Non una parola, non una smorfia. Un’altra volta voleva ritrarre me e altri colleghi: “Fermo! - gli urlai - Niente foto”. Aveva fotografato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia e Maria Grazia Cutuli, la sua grande amica, la sua ispiratrice, in Afghanistan. Sono morti tutti. ’No - lo pregai - non fotografare anche me’. Adesso è morto lui in questo modo assurdo, infame”. Perché mai Raffaele Ciriello ha scelto questa vita? “Per bisogno morale - secondo un amico fraterno, Alberto Negri, inviato del ’Sole 24 Ore’ - Lui doveva andare in certi posti. All’inizio c’era stata la curiosità intellettuale ed emotiva di cercare altri paesaggi, altre situazioni di vita. C’era stata la voglia di avventura. Poi mi disse che doveva esserci, in quei luoghi infernali, doveva partecipare, condividere le ansie e le sofferenze di tanti popoli alla deriva o in rivolta. Così si sentiva vivo. Qui a Milano non trovava un senso profondo e sociale. Amava da morire la moglie e la figlia, ma lui doveva andare. Andare fuori di qui. E la moglie anche lo amava da morire, capiva questo suo bisogno e capiva pure i rischi cui andava incontro e aveva paura, ma non gli diceva nulla, non lo frenava. Anzi. Una passione radicale e anche misteriosa, la sua. Passione umana, per la gente, non tanto politica”. Un uomo segreto, bisognoso di miti, di eroi, di visioni reali. Un chirurgo estetico, che frequentava pure corsi di aggiornamento nella sua amata New York, cui ha dedicato un tributo appassionato nel suo sito dopo l’11 settembre. E un fotografo che di recente lavorava pure con la videocamera, e con una competenza da professionista non da dilettante, da freelance allo sbaraglio. Aveva filmato una splendida intervista al suo eroe Massoud, il capo dell’Alleanza del Nord. Lo aveva fotografato più volte, e una sua foto è famosa, è un poster che i mujaheddin issano sui loro camion e che lui, Raffaele Ciriello, aveva attaccato sul parabrezza del suo scooter milanese. “Ciriello è un esponente della nouvelle vague, del nostro fotogiornalismo di guerra - dice Roberto Koch dell’agenzia Contrasto - I fotografi italiani oggi sono premiati nel mondo. C’è più consapevolezza, intraprendenza”. Raffaele Ciriello a Milano è ricordato da un’intera tribù di giornalisti e fotografi che rischiano la vita in giro per il mondo. Aveva gli occhi azzurri, voleva vedere l’inferno e l’ha visto infine» (“La Stampa”, 14/3/2002). Avevo chiamato Raffaele martedì sera, stava già dormendo. Era tranquillo, ma mi aveva raccontato che l’albergo era sotto tiro. Voleva tornare a casa perché non riusciva a lavorare bene, a scattare le foto che avrebbe voluto. Quasi si annoiava: ’Sto finendo il libro che mi sono portato’. Anch’io ero stufa, volevo vederlo, era solo una decina di giorni che era via, ma volevo vederlo. Così avevamo organizzato il ritorno, gli avevo prenotato un volo per venerdì. Mi ricordo la sigla, AZ805, atterraggio a Malpensa alle 9 del mattino”. Anche questa volta Paola e Raffaele avevano deciso che lei non sarebbe andata a prenderlo. Avevano rinunciato a quel loro rito - esserci sempre all’aeroporto, essere con lui alla partenza e all’arrivo - dopo un piccolo tamponamento sull’autostrada, quando Paola era incinta di Carolina. Raffaele non aveva più voluto far correre rischi alla moglie: attento, cauto, premuroso, come quando si spostava nelle zone di guerra. “Era un uomo molto razionale - racconta -. Guardarlo mentre era pensieroso poteva far pensare che fosse un musone, un timido. Era solo riflessivo. E dolce. Ci siamo incontrati per la prima volta in università, a Milano nel 1985. Io studiavo Farmacia, lui Medicina. Già allora era attratto da quello che succedeva nel mondo, voleva immergersi nella realtà. Per qualche anno ha continuato su un doppio binario: la specializzazione in Chirurgia plastica, il lavoro in ospedale. E nel tempo libero i viaggi, le foto. L’amore per l’Africa nacque mentre seguiva la Parigi-Dakar. Trattenerlo avrebbe significato strappargli un pezzo della sua vita. Puoi dire a una persona di vestirsi in un modo o nell’altro, ma non puoi stravolgere il suo carattere. Io gli volevo bene, non mi ponevo problemi. Dopo la nascita di Carolina, che adesso ha 17 mesi, era diventato ancora più coscienzioso. E voleva riuscire a fotografare soprattutto i bambini, provare a capire che cosa potesse significare per loro essere coinvolti in un conflitto […] Matrimonio a City Hall, un sogno, anche se la cerimonia non è stata celebrata dal sindaco Rudoplh Giuliani. A New York avevamo i nostri riti, le mete preferite. Raffaele organizzava interminabili escursioni nella parta bassa della città, a Lower Manhattan, in zone magari trascurate o poco frequentate. Non era un uomo da Upper, East o West, non era un uomo da quartieri alti […] Sono sempre stata scaramantica, attenta ai segni. Ma questa volta lo sentivo davvero tranquillo e gli avevo già lasciato le chiavi in portineria per quando sarebbe tornato a casa» (Davide Frattini, “Corriere della Sera” 14/3/2002).