Varie, 28 marzo 2002
DAVERIO
DAVERIO Philippe Mulhouse (Francia) 17 ottobre 1949. Come dice lui stesso, «uno di quelli del Sessantotto». Ha studiato economia alla Bocconi senza laurearsi, in segno di protesta contro il sistema. Ha cominciato quasi per caso a fare il mercante d’arte moderna e negli anni Ottanta ha aperto due gallerie a Milano e New York. Dal 1993 al 1997 è stato assessore alla Cultura e all’educazione del Comune di Milano (’liberal” 9/9/1999). «Quel ricciolone biondo, tondo e rubicondo sprizzava intelligenza da tutti i pori. Anche da ragazzo si capiva che l’alsaziano aveva qualcosa in più. Era un uragano di parole, uno sfavillio d’occhi e un bagaglio di seri propositi. Arrivò, dalla natia Mulhouse, a Milano nel ”66 perché aveva deciso di frequentare la Bocconi. Era l’esatto contrario del bocconiano tipico: triste, serio, ingessato. Lui era allegro, esuberante e già allora il suo guardaroba non conosceva il grigio. [...] il suo guardaroba è una festa di colori, le sue cravatte, a farfalla, un arcobaleno [...] decise di aprire una galleria d’arte, che divenne a Milano la galleria d’arte per antonomasia. Indimenticabili i suoi vernissage, a farne un avvenimento non era solo la qualità dell’artista ma la qualità del pubblico che vi accorreva. [...] Bastava scendere quelle scale di via Montenapoleone, dalle 19 alle 21, perché tutta la città fosse informata di una nuova seduzione, una nuova relazione, un abbandono, una separazione. Quando ancora esisteva una società, tutta la società più glamour della città si trovava, compatta, ai vernissage di quel ricciolone biondo che con una battuta riusciva a dissacrare ogni situazione. Daverio è un uomo mimetico che si è reinventato più volte: da sessantottino a bocconiano, da universitario a gallerista, da gallerista ad assessore alla Cultura per la Lega, da assessore a disoccupato (per breve tempo, ma intenso di preoccupazioni), da disoccupato a star della Rai. [...]» (Lina Sotis, ”Capital” aprile 2003). «[...] gigioneggia con la tv, si concede primi piani sparati a un centimetro dal volto (che forse meriterebbero un po’ più di circospezione) [...] Giocare con la tv tenendo una dotta lezione non vuol dire tutt’altro farsi soggiogare dal mezzo televisivo come succede ad altri. Significa avere un’idea di partenza (la lezione impartita e commentata) e rendere poi docile la telecamera, il montaggio e le altre tecniche tv per provare a dare valore aggiunto (a meno che qualcuno non preferisca una lezione dalla cattedra con proiezione di diapositive). Una volta trovato un assetto, una volta abbinate giacche e cravatte (anche qui, un minimo di prudenza in più non sarebbe male) si fa lezione. E non c’è nulla di male; ricordandosi per di più, come fa Daverio, che raccontare le vicende umane che segnano e contornano le opere e gli stili fa premio su tutto il resto. Senza tralasciare la fatica ovvia verso un approccio all’arte che è quello istituzionale (storia, percorsi, interpretazioni sul reale) [...] Il metodo-Daverio, va da sé, non fa scuola in tv: e va capito [...] Se proprio bisogna fare un appunto, è all’unicità dell’esperimento: ovvero l’impressione che senza Daverio, senza la costanza di un metodo perseguito e alla fine imposto, senza una squadra di lavoro costituita all’uopo, non ci sarebbe niente di simile e che tutto sia ben lontano dall’essere organico a un progetto ampio, voluto e difeso da nostra signora televisione» (’la Repubblica” 17/8/2005).