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 2002  marzo 28 Giovedì calendario

DI MATTEO Santino

DI MATTEO Santino (Mario Santo) Altofonte (Palermo) 7 dicembre 1954 • «Santino “mezzanasca” come lo chiamavano gli amici di una volta, quelli che gli sembravano importanti, quelli che si “annacavano” e facevano i boss e a un certo punto decisero di far saltare in aria il giudice Giovanni Falcone. E lui prese parte alla strage: pianificò, telefonò, fu a disposizione quando sventrarono l’autostrada di Capaci. Si pentì per primo, parlò, fece arrestare praticamente l’intera squadra di macellai di Cosa nostra. Gli obblighi legati alla protezione lo portarono lontano da Altofonte, che ancora oggi tutti chiamano “U Parcu”, per via della splendida vegetazione che ricopre le pietre bianche delle montagnole che furono il regno di Salvatore Giuliano. Ulivi, ginestre, mimose, aranci e limoni e, nella piana, finocchio selvatico e favette. Il polline della mimosa gialla solletica allergie sopite, il sole riscalda ed è luce di primavera. Mancava da dieci anni, Santino. Un decennio davvero irrequieto che lo ha visto protagonista contraddittorio: pentito, pentito in fuga, poi di nuovo caduto nell’errore e riarrestato. Oggi fuori dal programma di protezione, ferito nell’orgoglio di uomo senza residenza, marito reclamato da una moglie che lo ha visto poco, padre che si porta dentro l’enorme macigno della tragica morte del figlio Giuseppe. Ucciso, il bambino, quando avrebbe dovuto continuare a giocare coi cavalli che erano la sua vera passione. Strangolato e sciolto nell’acido, dopo una prigionia di tre anni. Usato cinicamente da Giovanni Brusca, oggi pentito anche lui, per cercare di barattare la ritrattazione di Santino con la sopravvivenza del “picciriddu”. Ma “mezzanasca” non ritrattò e Giuseppe non vide più i suoi cavalli. Il bambino morì, ma né il padre né mamma Franca hanno mai potuto piangere sul loro caro perché non hanno avuto indietro un corpo su cui piangere. Un romanzo, la vita di Santino, una tragedia greca il lamento di Franca. […] Dice che non è questo il momento in cui possono fargli del male: “C’è la tregua per ora. Nessuno deve turbare l’ordine costituito”. Ovviamente sa che la tregua non sarà eterna e sa pure che presto sarà costretto a prendere decisioni sul suo futuro. […] “Sono libero dal ‘96. Gli altri sono stati liberati prima del processo. E non è vero che non sono stato un solo giorno in galera: mi sono fatto precisamente cinque anni e mezzo su 13 di condanna. Certo, non hanno dato l’ergastolo a noi pentiti. Ma questo vuole la legge, una legge voluta da Falcone e Borsellino. Ora la legge è cambiata, ma anche con questa nuova io sarei a posto perché prevede che si deve scontare un quarto della pena”. È impresa ardua obiettare che una strage, una carneficina come quella di Capaci e via D’Amelio, è difficile da dimenticare. “Certo, lo so, il danno fu grosso. Ma quello che è venuto dopo, lo dimentichiamo? Io stavo all’Asinara e non pensavo minimamente a collaborare. La mia cella era una meta di pellegrinaggi continui, ogni giorno arrivava l’agente di custodia e mi diceva che c’era l’avvocato nella saletta dei colloqui. Ma quale avvocato, ci trovavo sempre qualcuno che mi veniva a proporre di “dare una mano”. Dall’Asinara mi hanno portato a Cagliari ed anche lì ho ricevuto visite. Un grande poliziotto mi disse: ‘Guarda che sappiamo perfettamente chi sei tu, aiutaci’. È stato così che ho accettato. Ma ho confermato le notizie sugli omicidi piccoli che già aveva dato Balduccio Di Maggio”. Voleva bluffare. “Fino a quando - dice - mi hanno chiesto se sapevo qualcosa su Capaci. Era stato Nino Gioè, che si è pentito e poi si è ucciso, a dire che dovevano seguire i paesani di Altofonte per capire Capaci”. Cosa ha risposto? “Quando ho detto che avevo partecipato all’attentato e sapevo tutto è accaduto il finimondo. Hanno chiamato pure Scalfaro. Il resto si sa, fino ai 29 ergastoli dei processi” […] “Io rispetto il grande dolore dei familiari del giudice Falcone e capisco il risentimento. Ma mi chiedo anche perché nessuno sembra ricordarsi più del mio dolore e del mio lutto. Io ho perduto un figlio per aver scelto di collaborare. Mia moglie stava morendo appresso a lui. Per tre anni mi hanno tenuto acceso il filo della speranza, dicendomi che Giuseppe era ancora vivo. Lo hanno portato via che aveva 13 anni e non me l’hanno mai restituito. Se la sono presa con lui, anche quel Brusca che oggi è sotto protezione, perché non potevano arrivare a me. Ha pagato il ramo per la colpa dell’albero. Ma di questo non si parla più, vero?”. Dice di essere stanco e di esser tornato ad Altofonte perché vede il paese come una specie di oasi di riposo. Dice che lui è fatto per la campagna, che gli piacciono gli animali “come piacevano a Giuseppe”. “Una volta scappai dal rifugio dove la polizia mi proteggeva”. È vero, lo cercarono in tutta Italia convinti che fosse fuggito sulle tracce di una possibile vendetta sui sequestratori del figlio. “Ma quando mai”, confessa. “Sono stato tre giorni a caricare fieno nella campagna di Terni e stavo bene con la testa. Quando ho visto il terremoto che avevo provocato mi sono preoccupato per quelle persone che mi ospitavano e che erano ignare di tutto. Mi sono fatto accompagnare in questura ed ho dovuto pure insistere per farmi aprire la porta perché il piantone continuava a dire: ‘Torni domani’”. Come vede il suo futuro? La moglie non nasconde il desiderio di non farlo più partire (“da dieci anni apparecchio la tavola solo per me e per mio figlio”), ma se gli consentissero di rientrare nel programma di protezione non potrebbe rimanere a casa sua. Certamente gli chiederebbero di trasferirsi di nuovo e perderebbe ancora moglie e l’unico figlio rimastogli. Un bel dramma, quello di Santino. Senza lavoro, lui e il ragazzo che adesso ha vent’anni. Potesse restare in questa campagna, sarebbe “l’uomo più felice del mondo”. Ma nessuno potrà mai garantirgli l’amnistia di Cosa nostra. Si tratta perciò di campare con l’occhio perennemente vigile, come ora che sembra una fiera impaurita. “Però....” Però, Santino? “Se lo Stato mi desse l’ultima possibilità... Un lavoro, per esempio... Io me la sento di badare a me stesso. D’altra parte io un lavoro ce l’avevo, ho dovuto lasciarlo quando sono entrato nel programma di protezione». Si guarda intorno, il pentito senza protezione. Certo, ne ha fatti errori Di Matteo. Ma mentre la sua auto, sola in mezzo al verde, scompare verso il convento di Poggio San Francesco, affiora una domanda: se dovesse accadergli qualcosa, chi potrebbe dire di avere la coscienza completamente a posto?» (“La Stampa” 15/3/2002).