Varie, 28 marzo 2002
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Dorazio Piero
• Roma 29 giugno 1927, Perugia 17 maggio 2005. Pittore. Considerato il padre dell’astrattismo italiano. Negli anni Quaranta si iscrive ad Architettura e comincia a dipingere paesaggi della campagna romana e piccole nature morte. Si avvicina a Guttuso ma respinge subito la soluzione del realismo socialista: la sua pittura è più vicina al recupero del futurismo. Nel 1947 con Perilli, Accardi, Attardi, Consagra, Guerrini, Sanfilippo e Turcato fonda il gruppo ”Forma”. Dopo i quadri rigorosamente geometrici, gli effetti di luce e ombra, il bronzo, comincia a sperimentare il perspex ma poi si ”converte” decisamente al colore. Si trasferisce a Todi nel 1974, in un ex eremo camaldolese che diventa la sua casa-studio. «La storia di Piero Dorazio è prestissimo una storia di battaglia, combattuta col coraggio e con l’intelligenza sapendo di stare, lui giovanissimo fra altri giovanissimi, in prima linea: rischiando l’anatema o, peggio, l’emarginazione. La Roma del dopoguerra - nella quale egli mosse i suoi primi passi maturi - nell’ansia che aveva di aprirsi all’Europa, sembrava solo capace di guardare alla lezione dei neocubisti francesi: che a loro volta mediavano fra Picasso e Matisse, fra una prudente scheggiatura della realtà e un colore acceso, tripudiante. Corpora da una parte e Guttuso dall’altra (ancora molto lontano dal realismo) tessevano le fila di questo saggio aggiornamento: militando assieme, fra ”46 e ”47, nel ”Fronte Nuovo delle Arti” e, già prima, in un movimento meno noto ma altrettanto importante che si diede battesimo, appunto, di ”neocubismo romano”. Dorazio seppe invece, sin dai suoi primi passi, che la sua nuova pittura avrebbe preso le mosse dalla convinzione dell’alterità profonda e radicale che essa avrebbe conservato di fronte alla realtà esistenziale: che fondare ”un fatto nuovo reale che è il quadro”, come scrisse poi, sarebbe stato il difficile confine da toccare: in definitiva libertà da ogni plausibile rappresentazione del reale.Questo fu quanto lo strinse, fin dai primi mesi del 1947, quando aveva solo vent’anni, ad altri suoi coetanei (Perilli e Mino Guerrini, per primi; e Accardi, Sanfilippo, Consagra, e un’altra straordinaria figura di quella nostra preziosa stagione d’arte, lui appena più anziano ma egualmente votato all’audacia: Giulio Turcato) con i quali fondò il gruppo ”Forma”. Per brevissimo tempo furono ancora Bazaine, Manessier, Pignon e gli altri ”jeunes peintres de tradition française” a orientare i passi di quel manipolo di giovani: ma forse ancor prima che finisse l’anno, e comunque entro il successivo 1948, i loro sguardi si rivolsero ad altro: alla tradizione concertista, mai morta a Parigi - Magnelli, Arp - o all’astrazione lirica di Hartung, allora vicino all’informel di Tapié, o ancora a Balla, che proprio Dorazio andò a riscoprire quand’era dimenticato da tutti, segregato in una periferia romana. Parigi, Praga, le mete dei loro primi viaggi: assetati di scoperte. Tutti assieme ancora per un biennio: con i quadri dell’uno che si potevano quasi scambiare con quelli dell’altro. Ma non per molto: agli albori del nuovo decennio, la lingua d’ognuno va facendosi del tutto autonoma. Dorazio è allora fra i primi a trovare una sua via; ed è tra l’altro, molto e felicemente attivo nella promozione del nuovo astrattismo: scrive, polemizza, fonda la libreria-galleria dell’Age d’Or, intesse i contatti con la Fondazione Origine - ove espone lui stesso e promuove mostre di Balla e Vantongerloo - pubblica con Colla la rivista Arti Visive. Nel ”53, infine, si trasferisce in America. Al tempo americano risalgono i rilievi in legno dipinto, veri e propri laboratori della sua maggiore pittura che sta per sbocciare. In essi, un lungo, paziente, metodico saggiare l’apparizione del colore puro alla sommità di piccoli rilievi rotondeggianti, e d’una linea vagante in modesto aggetto su una vasta superficie bianca denunciano l’intenzione di tornare a ragionare sugli elementi essenziali della pittura così com’essi erano stati individuati da Kandinsky, e dichiarano in Dorazio attiva una inclinazione meditativa, quasi analitica, che lo distacca singolarmente dalla pienezza emotiva della pittura d’azione statunitense, allora alla sua acme, e nei confronti della quale egli serba una completa indipendenza. Rientrato in Italia, Dorazio è in pieno possesso - a trent’anni - della sua maturità: reso dal tempo americano definitivamente libero non solo da ogni complicità con l’oggetto, ma dal bisogno stesso d’asserire una sua drastica separatezza rispetto ad ogni residuo di memorialità della pittura. pronto finalmente per dire: ”fare arte astratta per me non è importante. una cosa che faccio come parlare l´italiano”: perché, senza più alcuna remora, è cosciente ora della natura dell’arte come realtà altra rispetto al mondo. Torna, adesso - sulla metà dunque degli anni Cinquanta - alla pittura, dopo le esperienze dei rilievi, con una felicità, uno slancio, una semplicità nuova. Inizia di qui un tragitto, ininterrotto fino al seguente decennio, fitto di innumerevoli capolavori. Verranno infine, nella colma esplicazione del colore, i dipinti tissulari (i cosiddetti ”reticoli”, scalati a partire dal ”59), nei quali Dorazio ha trovato l’alta temperatura che spetta a dipinti difficilmente dimenticabili: Qualités jaunes o Passione diffusa, ad esempio. In essi, un unico colore, steso sulla superficie in trama fitta e minuta dal lungo scorrere del pennello che segue andamenti rigorosamente verticali, orizzontali o diagonali, nasconde una stesura sottostante, più complessa ma non meno sorvegliata, di un colore variato: leggibile talvolta - quasi fosse offerto didascalicamente allo sguardo - ai margini del dipinto. Ne risulta un’immagine vibrata, trapunta di inattese palpitazioni, e che smentisce l’assioma del ”monocromo” - categoria alla quale, alla prima, i ”reticoli” paiono appartenere. La prassi che li sorregge è dunque subordinata a un sistema - mentale, e insieme fabbrile - d’accerchiante metodicità; ma esita un’immagine in cui si finisce per perdersi. Un’interpretazione critica assai diffusa - e ovviamente respinta da Dorazio, ma con solo alterna fortuna - presto ravvisò in questi dipinti una complicità con la pittura programmata. Appartengono invece, i ”reticoli” - e ne sono anzi espressione culminante - soltanto ad una vicenda di pittura già avviata da Dorazio al ”56, ”57: da un gruppo di dipinti, fra i quali Cambiando idea, Vuoi la tromba di Federico?, Due tempi, Glyka e il suo fuoco, nei quali la griglia dei colpi rattratti del nero vale già a istituire un ”primo piano” oltre il quale affiora alla superficie il colore più chiaro del fondo: in una sintassi compositiva che ad evidenza preannuncia la struttura formale dei ”reticoli”, che risiede appunto in un cromatismo qualificato e svelato dall’incidenza della luce e dal suo lento affiorare dal fondo alla prima pelle del dipinto. Un cromatismo, dunque, sottratto a quanto di istintivo, ingovernato, emozionale e in fondo imprevisto può implicare una pittura affidata per intero al colore. E invece consegnato, nel suo ultimo manifestarsi, al demone totalizzante della luce: che si dà, in questi anni, come condizione necessaria, e attraverso cui transita nella pittura di Dorazio, in qualche misura subordinandovisi, l’epifania del colore. Così Balla pre-futurista, e Previati, e Seurat (o, ancora, Piero della Francesca) prendono il luogo di Monet, o di Matisse, o ancora della pittura americana, da Hofmann a Motherwell a Barnett Newman: una pittura tanto a fondo conosciuta da Dorazio (e di cui qualche eco rimbalzerà, ma episodicamente, negli anni a venire), che seppe però mettervisi in rapporto senza una sola volta subirne il fascino paralizzante. Più spesso, nel tempo lungo e spesso così nuovamente intenso che verrà, sarà invece Matisse a rinascere, al suo orizzonte: come chi abbia saputo possedere intero quell’abbandono all’incanto e ai rischi della pittura di cui Dorazio ebbe, talvolta, spavento» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 18/5/2005). «[...] tumultuosa esistenza, segnata da viaggi, incontri e amicizie con artisti come Arp, Miró, Léger, Pollock, De Kooning o Barnett Newman. Difende sempre, con foga, la pittura astratta, scaglia strali contro la Biennale di Venezia, contro la mercificazione dell´arte, contro la Galleria nazionale d´arte moderna di Roma. [...] Negli anni Cinquanta è stato artista ”errante”, pronto a correre a Parigi o a New York, ma sempre legato a filo doppio alla natia Roma e agli italiani, a Consagra, Sanfilippo, Turcato, al gruppo ”Forma 1” fondato nel 1947, risposta al ”realismo socialista” di Guttuso. [...] Locarno [...] Negli anni della gioventù Dorazio si recava spesso nella città svizzera per incontrare Jean Arp, che vi soggiornava, così come sono state significative l´amicizia con il pittore e pioniere del cinema astratto Hans Richter, anch´egli di stanza a Locarno, nonché la collaborazione con la stamperia d´arte Lafranca. [...] ”Alla fine della seconda guerra mondiale in Italia, da un punto di vista artistico, c´era quasi il vuoto. C´era la Scuola Romana, è vero. Ma nient´altro. L´idea di unire formalismo e marxismo fu del nostro gruppo, di Forma 1. Venne da Ripellino con cui studiavamo i formalisti russi, la cultura della sinistra russa della rivoluzione e prima della rivoluzione. Il resto era figlio di quel poco che conoscevamo della tradizione europea moderna. [...] Piuttosto che provare a conciliare il marxismo con il formalismo cancellarono tutto. Fu Togliatti, furono i comunisti italiani non moderni. C´erano anche dei comunisti moderni, e non pochi, ma erano messi la bando. Amendola non era ostile. Di Guttuso è inutile parlare: era il nostro nemico numero uno. Io a quel tempo ero iscritto al partito socialista. Ma quelli che erano iscritti al Pci, come Consagra o Turcato, furono più volte chiamati per rendere conto di queste ”deviazioni”. Ci fu sempre una grande ostilità nei nostri confronti tanto che a nessuno di noi fu affidato un insegnamento. Solo Turcato insegnava, ma perché gli era stato assegnato un posto di assistente di Consagra fin dai tempi di Bottai. Io fui costretto a emigrare negli Stati Uniti per insegnare, andai a dirigere una scuola. Non avevamo i soldi per vivere. Nessuno comprava i nostri quadri. E l´ostilità degli stalinisti, anche se ora sono degli ex, continua tuttora. [...] Con gli artisti americani c´era un vero rapporto di scambio. Non c´era colonizzazione, quel fenomeno che ha cominciato a manifestarsi dopo la metà degli anni Sessanta, dopo il Leone d´oro assegnato dalla Biennale di Venezia a Rauschenberg. Fu questo il momento in cui mercanti, galleristi, collezionisti decisero di sostenere la pop art, che non è la vera arte americana, ma un´involuzione commerciale, una speculazione. Gente come Pollock o De Kooning rappresenta la vera grande pittura americana, che nasce dalla tradizione europea, sviluppa la tradizione francese, italiana. Gli altri sono duplicatori, copiatori. Si vede bene alla Biennale” [...]» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 16/2/2004). «Il campo d’azione di noi artisti di Forum 1, uno dei primi gruppi astratti sorti in Italia, non era via Veneto, ma via Margutta, dove fondammo nel ”47 il nostro gruppo. Noi non eravamo dolci, ma amari, arrabbiati, battaglieri, lottavamo per la libertà di espressione, suscitando la reazione furiosa dei realisti-socialisti e degli zdanovisti, come Guttuso e Antonello Trombadori. Nel ”48 Togliatti attaccò violentemente la mostra organizzata a Bologna dall’Alleanza della Cultura, bollandola come ”una raccolta di cose mostruose”. Ne seguirono polemiche clamorose e scontri furibondi, come quello avvenuto nello stesso ”48 alla galleria ”La Palma” di Piazza Augusto Imperatore. Fra noi che difendevamo la libertà dell’arte e coloro che l’affossavano. Alla ”Palma” venne allestita una mostra di Corrado Cagli, che era un trombone, un pompiere, ma voleva farsi passare per un pittore astratto. Allora attaccammo presso la galleria un cartellone in cui mostravano gli affreschi fascisti di Cagli, uno dei quali raffigurava Mussolini a cavallo. Ne nacque uno scontro da far west tra noi astrattisti e il gruppo del quale facevamo parte Afro, Mirko e gli innumerevoli macellaretti amici di Cagli. Finimmo tutti al commissariato di Campo Marzio. Ma non meno violento, anche se più divertente, fu lo scontro che avvenne al Circolo artistico di via Margutta 54. Roma era una città viva, vitale, scalpitante, allegra. Eravamo giovani, pieni di entusiasmo e di energia. La libertà dell’arte era il nostro obiettivo principale. Per difenderla eravamo pronti a tutto. In una delle riunioni che ci si tenevano abitualmente, venne inviato Giorgio de Chirico a parlare dell’arte moderna. C’eravamo un po’ tutti, io, Turcato, Consagra, Carla Accardi, Perilli, Corpora, Monachesi, Angelo Maria Ripellino, lo slavista che sosteneva le nostre battaglie. De Chirico incominciò a prendersela con gli artisti moderni, Cézanne, Matisse, Modigliani. Mentre diceva peste e corna di Modigliani, Monachesi gli fece una sonora pernacchia. Senza alterare la sua maschera da sfinge, il pittore metafisico gli scaraventò una sedia in testa […] La Galleria Nazionale d’Arte Moderna è un’altra accozzaglia di roba, tutta prestata. Non sono stati capaci di allestire una mostra delle opere che si son fatte a Roma dal dopoguerra in poi. Eppure la Roma del dopoguerra e degli anni Sessanta era una capitale internazionale dell’arte, più di Parigi, era l’ombelico del mondo. Vi affluivano galleristi, mercanti e collezionisti, gli artisti di altri paesi, specialmente americani, venivano a vedere ciò che facevamo. In ogni altra capitale del mondo civilizzato sono state organizzate rassegne storiche, meno che a Roma. La voleva organizzare Augusta Monferrini, ma fu mandata via. E la situazione è andata sempre peggiorando […] La Biennale di Venezia ha consacrato nel passato artisti di ogni parte del mondo, da Pollock a Moore, da Giacometti a Rauschenberg, tanto per fare qualche nome. Ma ora non fa più arte, non consacra più nessuno. Nel nuovo statuto non c’è più la parola ”arte”. Nel consiglio di amministrazione non ci sono più artisti, né storici dell’arte, ma soltanto manager. Grazie alla riforma promossa da Veltroni, è stata privatizzata, ma il 49 per cento delle azioni destinate ai privati sono rimaste invendute. Ora si occupa di ”prodotti culturali”, che non hanno niente a che fare con l’arte, né con la filosofia dell’arte, né con la morale. La Biennale è diventata una specie di circo» (Costanzo Costantini, ”Il Messaggero” 10/3/2002). «Uno dei più grandi amici di Piero Dorazio è stato Giuseppe Ungaretti (altri: Murilo Mendes, Henry Miller, Eugène Ionesco, Diego Valeri, Rafael Alberti, Andrea Zanzotto). Spesso il poeta gli telefonava per leggergli i versi appena composti sottoponendogli anche le varianti. ”Ti piace così o così?”, gli chiedeva. Ecco, Dorazio amava ricordare questa consuetudine fra lui e il grande vecchio dal cuore di ragazzo, per dimostrare che i pittori lavorano come i poeti: sulle varianti. In fondo, diceva Piero, l’artista dipinge sempre lo stesso quadro. Tutt’al più, era la situazione a cambiare. Per il resto, creando spazi e prospettive diverse, i colori avevano solo una funzione strutturale. così che la pittura diventa musica senza melodia, era solito dire. E tirava in ballo i grandi jazzisti come Charlie Parker, Thelonius Monk, Charles Mingus, Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans. E, soprattutto, Duke Ellington. Piero era nato a Roma nel 1927. Suo padre era funzionario di Stato, nonché ”cacciatore, spadaccino e ammiratore di Benedetto Croce”, aveva scritto in una sorta di autobiografia. Gli inizi? Dipingeva con Perilli, Manisco e Bandinelli. Dopo la scoperta di Caravaggio e Fattori, la fondazione dei gruppi ”Ariele”, ”Arte sociale”, assieme a Turcato, Maugeri, Sanfilippo, Consagra, Accardi ed altri aveva firmato il manifesto di Forma 1 , ”contro la cultura artistica provinciale italiana e il Realismo socialista”. Il suo astrattismo era cominciato così. Quando dipingeva, Dorazio era solito ascoltare jazz. Da qui, alcune sensazioni che stimolavano la sua immaginazione e fantasia. Non solo segni, strisce, frequenze di forme, ma anche rapporti cromatici fra rosso, blu, giallo (’fondamentali”) e verde, viola, arancione (’complementari”). Certo, la sua astrazione si basava sulla perfetta conoscenza delle ”strutture percettive”. Su grandi superfici, stendeva i colori con alternanza di timbri, di spazi e di sonorità che ricordavano l’orchestrazione. E, come il ritmo sincopato e le dissonanze del jazz, Dorazio spezzava le linee, le mischiava, le scandiva, le frazionava, concentrandole e dilatandole, contrapponendole e sovrapponendole, dando loro forza e senso dinamico. Stesso motivo? Non aveva importanza. Erano le varianti che contavano. Questione, questa, già affrontata da pittori e musicisti. Ne Lo spirituale del’’arte (1911), per esempio, Kandinsky scriveva che il colore era ”un mezzo per esercitare sull’anima un’influenza diretta”. Dopo Mondrian, Kupka, Balla, Klee, Matisse (che aveva cambiato titolo ad un suo quadro: da Il circo a Jazz) anche Schönberg aveva detto la sua. E a ragione: egli era stato più musicista che pittore. Dorazio aveva sviluppato i loro postulati integrandoli con l’esigenza d’una spiritualità contemporanea. Il pittore romano aveva incontrato Matisse nel novembre del ”48. ”Potreste telefonare a Matisse anche da parte del Padreterno per fissare un appuntamento, che la segretaria vi risponderebbe sempre allo stesso modo: ”Il signor Matisse è molto stanco e riposa’ – ricorderà Dorazio – . Questa segretaria è ormai diventata famosa: una giovane bionda di origine russa che, piuttosto che alle modelle di Matisse, farebbe pensare ad un personaggio di Zweig, un personaggio buono, fra la segretaria innamorata e l’infermiera”. I maestri di Dorazio? Potevano chiamarsi Monet, Seurat o Van Gogh, o meglio, Klee o Mondrian o Severini, precisava Ungaretti, ”potevano insegnarli a ridurre tutto a un effetto effimero di luce o [...] all’esplosione ossessiva d’uno dei colori smembrati”, ma restava in lui una grande libertà d’espressione, propria ”della musica e dell’architettura”, quando raggiungevano ”la loro assolutezza”. Concerto per tele e colori, quindi. Suggestioni? Pareva di sentire i trilli della Valse oubliée di Listz. Le taches sembravano muoversi, vibrare, incalzare, stimolare l’occhio e la fantasia. E la musica si mutava in architettura. Musica jazz e pittura astratta: il mondo si poteva scandagliare e conoscere anche così» (Sebastiano Grasso, ”Corriere della Sera” 18/5/2005). «[...] uno dei protagonisti della pittura astratta in Italia, l’indimenticabile interprete di un colorismo assoluto e felice [...] Aveva vent’anni quando insieme con Accardi, Turcato, Sanfilippo, Consagra, Perilli firmava il manifesto di Forma 1, uscito sull’unico numero dell’omonima rivista. E così si inseriva in un dibattito, all’epoca vivacissimo, su quale dovesse essere il ruolo della pittura, del romanzo, della poesia nell’Italia appena uscita dalla guerra e dal fascismo. Gli artisti di Forma 1, e Dorazio con loro, si dichiaravano ”marxisti e formalisti”. Ovvero si sentivano di appartenere a una nuova classe di intellettuali che si professava di sinistra, ma non per questo sposava regole e dettami del cosiddetto Realismo socialista. Chi l’ha detto - sostenevano i nostri baldi giovanotti - che il popolo comprende soltanto la pittura di figura, che per farsi apprezzare dalle masse bisogna mettere in scena contadini, operai e magari anche crocifissioni? Polemizzavano con Renato Guttuso naturalmente, ma lo stesso Dorazio ricorderà molti anni dopo com’era bella un’epoca in cui si discuteva di idee e non di nomine... Fatto sta che dalle parti di Forma 1 si pensava che il ”sol dell’avvenire” stesse proprio in uno stile e in un linguaggio opposto a quello contrabbandato come l’unico dall’ufficialità del Partito comunista. Loro cercavano la rivoluzione nella libertà della pittura astratta. Sostenevano la modernità dell’astrazione con passione e con foga. Difendevano i valori puri della pittura, della forma, del colore e della luce. A prescindere dal soggetto. Anche in Unione Sovietica, molti anni prima, qualcuno, come Tatlin o Malevic, aveva fatto lo stesso e a Roma c’era Angelo Ripellino che lo raccontava all’amico Dorazio seduto al tavolino di un caffè. Qualche volta con loro si incontrava anche Ungaretti. Insomma erano anni di scoperte. E poi arrivava da fuori tutto ciò che il fascismo aveva tenuto nascosto. E per Dorazio tra dipingere il faccione di Mussolini e quello di un contadino, la differenza era poca. Per questo cominciò a immaginare un mondo di tasselli colorati, di forme geometriche che creavano armonie e accordi sulla tela. Vivaci, leggere, spesso allegre. I suoi quadri nel 1947 si chiamavano Natura morta o magari Tutta Praga ma erano sempre più sfaccettati, semplificati, scomposti. Si conosceva il Cubismo, una specie di passaggio obbligato, di malattia esantematica degli artisti italiani. Dorazio però fa qualcosa di più. Recupera in modo precoce il Futurismo, soprattutto Giacomo Balla e, attraverso di lui, Previati, Segantini, Pellizza e tutta la linea italiana della pittura come luce. Qualcuno, dimenticando che un genio come Umberto Boccioni, per esempio, era morto nel 1916, considerava i futuristi troppo legati al fascismo. Per cui si era deciso di rimuoverli dalle coscienze e dai manuali. Ma Dorazio e Perilli conoscevano personalmente Severini. E il nostro pittore era uno spirito libero, magari a volte un po’ aggressivo nelle affermazioni, molto polemico, ma certamente libero. Così eccolo rivisitare le Compenetrazioni di Balla e farle rivivere nelle sue tele: Ottimismo Pessimismo, Din Don sono omaggi al grande maestro torinese. Prima c’erano state le sue meravigliose tessiture: dipinte dalla fine degli anni Cinquanta, mostrano come la profondità spesso si possa conquistare con un unico elemento, il colore. Questo per Dorazio era ”un nuovo parametro spaziale”. E sapeva come dimostrarlo. Sono opere bellissime, come lo sono le ”bande” dai colori contrastati e trasparenti, con quei titoli poetici come Presente e passato o Rideau reversible. Dorazio era un viaggiatore. Spesso andava a Parigi, dove aveva conosciuto Magnelli, Arp e Picabia, ma anche Tzara e Breton, e negli Stati Uniti. datata al 1954 la sua prima personale a New York. Soltanto due anni dopo realizzava una mostra tutta per sé a Roma, alla galleria La Tartaruga, e appendeva il suo primo quadro nelle sale della Biennale di Venezia (è del 1960 la sua prima sala personale). ” stato uno dei primi artisti italiani a conquistare, per così dire, l’America” ricordava Maurizio Fagiolo [...]. Eppure negli ultimi tempi rivelava un grande attaccamento nei confronti dei valori dell’arte italiana. Sognava da molti anni di fare una grande mostra che partisse dalla pittura dell’Ottocento, dai Macchiaioli, e arrivasse ai contemporanei. Detestava il sistema dell’arte globalizzato. Forse in anticipo su tutti è stato proprio lui il primo a lamentare la scarsa presenza degli artisti italiani alla Biennale di Venezia. L’abolizione del Padiglione Italia proprio non gli andava giù. E poi, sosteneva che le istituzioni che in Italia sono destinate allo sviluppo e alla diffusione dell’arte contemporanea, come la Biennale e la Quadriennale, non tenessero nella giusta considerazione il parere degli artisti. Sognava un presidente o un direttore di questi organi che provenisse dal campo: voleva un artista a guidarle, non un critico» (Lea Mattarella, ”La Stampa” 18/5/2005).