28 marzo 2002
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Gadamer HansGeorg
• . Nato a Marburgo (Germania) l’11 febbraio 1900, morto a Heidelberg (Germania) il 14 marzo 2002. Filosofo. « vissuto per più di un secolo e per quasi mezzo secolo, almeno dal 1960 in poi, ha goduto di una posizione di primo piano nella filosofia contemporanea. Verso la fine della Prima guerra mondiale, nelle università di Breslavia e di Marburgo, aveva intrapreso gli studi di filologia e filosofia, come li offrivano le più tradizionali scuole tedesche: molto Platone e Aristotele, molto Kant e molto Ottocento tedesco. Il mondo che andava dissolvendosi nella guerra era sentito come l’eredità diretta dei filosofi ateniesi e la cultura scientifica e industriale della Germania moderna era filtrata attraverso i concetti kantiani. Ma all’inizio degli anni Venti, proprio sul filo dei suoi studi su Platone e Aristotele, scoprì Heidegger, che trattava la filosofia classica in modo molto più drammatico di quello che facessero filologi agguerriti o filosofi neokantiani. In lui il senso che qualcosa si era rotto era ben vivo e Nietzsche, l’imbarazzante filosofo che i professori delle università avevano cercato di purgare e assorbire o di censurare, era il simbolo della rottura.Era attratto dalla filosofia aspra di Heidegger, dal suo linguaggio profetico, dalla sua tendenza a introdurre nei concetti armonici della filosofia accademica vigorose categorie della filosofia medievale. Chi tra i cauti e dotti filosofi delle università aveva il coraggio di parlare dell’essere, di porre domande sull’essere, sulla morte, sul destino dell’uomo? Ma lui non era fatto per le esperienze forti: Heidegger lo imbarazzava; e così cautamente se ne allontanò. E poté non essere al suo fianco quando Heidegger si imbarcò nell’avventura nazista. Non apparteneva neppure alla cultura liberale, che nella Heidelberg di Jaspers e di Weber avrebbe fatto qualche tentativo di resistere all’imposizione nazista. Si sarebbe poi vantato di non aver fatto concessioni importanti al nazismo e di avere utilizzato nel modo migliore la libertà accademica che il regime consentiva. E così una tranquilla carriera lo portò a insegnare a Lipsia nello stesso anno in cui scoppiava la Seconda guerra mondiale. Qui lo colse l’occupazione sovietica, sotto la quale egli fu rettore dell’università dal 1945 al 1947. Credeva di poter contare sulla relativa neutralità del regime comunista, verso il quale avrebbe potuto tenere lo stesso atteggiamento che lo aveva tutelato da quello nazista. Ma non fu così e dovette rendersi conto che i comunisti non avevano per la filosofia il disprezzo dei nazisti: per loro il marxismo era una faccenda seria. Tornò nella Germania occidentale, a Heidelberg, dove dal 1949 tenne la cattedra che era stata di Jaspers. Di lì intraprese un’opera di ricostruzione della filosofia tedesca. Mentre Heidegger continuava a interrogare l’essere, a sostenere che quella dell’Occidente era una storia di decadenza, nella quale il progresso della scienza e della tecnica aveva fatto perdere il senso dell’essere e la capacità di pensare davvero, lui presentava una versione più dolce della faccenda. Era vero che scienza e tecnica sono ingannevoli, ma non tutto è perduto. Se, invece di coltivare impossibili nostalgie dell’essere, si guarda a ciò che di meglio il passato ci ha trasmesso, ai suoi testi letterari e religiosi, se invece di formulare domande estreme, si interpretano quei testi, si scopre che c’è una grande tradizione unitaria, che va dai filosofi greci classici a Goethe e alla filosofia classica tedesca. Habermas avrebbe detto che quella di Gadamer era una ”urbanizzazione della provincia heideggeriana”. Aveva ragione: Gadamer era urbano e sembrava più facile includerlo nella famiglia filosofica internazionale del dopoguerra. La filosofia antiscientifica diventava sempre più popolare, mentre aumentava l’insofferenza per il primato della scienza e per il suo linguaggio preciso e attendibile. Nella sua opera più celebre, Verità e metodo, Gadamer avrebbe detto, ma con garbo, che il metodo scientifico non conduce affatto alla verità e che non al linguaggio dei matematici bisogna guardare, ma a quello dei poeti e dei profeti religiosi: essi rivelano la verità, che sta non nelle cose o nella natura, ma nella tradizione. Nella Heidelberg del dopoguerra i germi di un liberalismo spregiudicato e coraggioso erano stati pur sempre uccisi dalla crisi degli anni Trenta: Gadamer rappresentava un tradizionalismo ecumenico ed edificante, che poteva integrarsi con il ritorno alla tradizione ormai dominante in tutto l’Occidente» (Carlo Augusto Viano, ”Corriere della Sera” 14/3/2002).