varie, 28 marzo 2002
GNOCCHI
GNOCCHI Gene (Eugenio Ghiozzi) Fidenza (Parma) 1 marzo 1955. Comico, «piaccia o no uno dei più imprevedibili e surreali del panorama attuale». Laureato in giurisprudenza, ha esercitato a Fidenza la professione di avvocato. Nel 1988 ha iniziato la sua carriera di attore e comico debuttando come cabarettista allo Zelig di Milano. Lavora in televisione dal 1989: l’esordio su Italia 1 con Emilio. Quest’anno su Rai2 in coppia con Simona Ventura ha condotto. Ha pubblicato numerosi libri. «Non ho mai fatto un discorso di carriera, di posizionamento d’immagine, faccio una cosa oggi e una cosa diversa domani, non ci ho mai pensato su. vero che faccio anche degli errori enormi, faccio cose che si trasformano in passi indietro invece che in avanzamento di carriera, ma mi piace così, adoro cambiare ed esprimere la comicità in maniere sempre diverse […] L’età non è necessariamente saggezza, la tensione verso la deficienza assoluta che mi contraddistingue resta intatta […] A me la televisione piace, la faccio volentieri, mi trovo bene, non ho la puzza sotto il naso. L’ideale è non restare fermo, non fare sempre le stesse cose, cercare stimoli nuovi. Certo è sempre più difficile, perché negli ultimi anni è cambiato il modo di far televisione, soprattutto con questa irruzione del personaggio della strada che diventa una star […] Da piccolo volevo fare il calciatore e oggi lavoro a Quelli che il calcio…, mi sarebbe piaciuto essere una rockstar, un rocker vero, maledetto, tipo Nick Cave, e invece ho condotto Perepepè. E scrivo libri, perché ho sempre scritto, perché scrivo continuamente, racconti, poesie, piccoli testi. Ogni tanto faccio vedere quello che scrivo a qualcuno e, se piace, si trasforma in un libro» (Ernesto Assante, ”la Repubblica” 15/6/2002). anche poeta: «Leggendo la sua prima raccolta di poesie, Sistemazione provvisoria del buio, ci si renderà facilmente conto della distanza che esiste non solo tra lui e tanti ”autori di volumi” sfornati dal mondo dello spettacolo, ma anche tra Gnocchi e Gnocchi (quello da guardare e quello da leggere). ”Scrivo dai tempi del liceo, ma oggi non provo nessuna schizofrenia tra il mio lavoro televisivo e quello poetico o narrativo. Mi organizzo e basta, scrivo la sera o la mattina, in poltrona, non necessariamente isolato, spesso ci sono i bambini attorno che giocano o fanno chiasso. Non mi sono mai detto: devo stare lontano dalla tv perché mi inquina e mi disturba. Non è un problema mio: Wallace Stevens era un agente assicurativo eppure ha scritto poesie bellissime. Il problema semmai è il pregiudizio di chi legge, ma vorrei che questo pregiudizio cadesse” […] Il poeta Gnocchi si apparenta con la linea oggettuale e morale cosiddetta ”lombarda”, frequenta volentieri fatti minori della vita privata, una quotidianità rivissuta in obliquo: i suoi sono racconti essenziali (a volte paradossali) in cui lo sguardo apparentemente distratto sulla realtà e sulle persone rivela sfumature inattese, scarti, scambi, speranze, segni da decifrare nascosti dietro le cose comuni […] La geografia di Gnocchi è quella domestica della sua Fidenza, niente esotismi; nuvole e nebbia (’la condizione ideale per esistere perché vedi solo i contorni puoi permetterti di non riconoscere…”) bassa pressione, strade ghiacciate, cresime all’aperto, metronotte in bicicletta, casette a schiera, cortei funebri da cui qualcuno esce per andare a comperare i fichi, lunghi silenzi, tempi vuoti […] I modelli sono presto detti: ”Prima di tutto un poeta lombardo trascurato, Luciano Erba, per la precisione e la riduzione all’essenziale” […] ”Mio padre era una persona stranissima. Era stato sindacalista e funzionario comunista, ma votò contro la linea togliattiana nel ”60. Poi, a un certo punto, in mezzo a tante difficoltà economiche, si è messo a vendere vino, con sei figli non era certo facile tirare avanti la famiglia. Appeso alla parete c’era un calendario pieno di cifre, mio padre vi segnava le bottiglie che riusciva a vendere, i guadagni e le molte uscite, ma in mezzo a tutti quei segni aveva trovato lo spazio per segnare i nostri compleanni”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 6/2/2001). Un passato di calciatore. giocava nell’Alessandria: «Era il ”72, avevo diciassette anni e mi avevano comprato dal Piacenza. A dire la verità avevo già passato le visite mediche al Milan e pensavo che sarei andato là, invece il Piacenza mi dirottò all’Alessandria che stava in C con l’ambizione di salire di nuovo in B [...] Io ero un trequartista, giocavo dietro alle punte, il mio numero nella squadra Primavera dove giocavo era il 10, qualche volta l’8. Erano i numeri che nell’Alessandria aveva avuto Rivera, soprattutto il 10. Io ero bravino ma il confronto finiva lì [...] Giocai un anno, mai in prima squadra dove c’erano Pozzani, Salvadori, Manueli. Avevano comprato Mammì, quello che segnò il famoso gol alla Juve sul campo allagato di Catanzaro. L’allenatore era Pippo Marchioro e sopra tutti c’era quel gran personaggio del presidente Sacco. Io studiavo: seconda liceo classico al ”Plana”, era durissima riuscirci allenandomi tutti i giorni, infatti fu l’unica volta che conclusi l’anno con una materia a settembre, matematica. Insomma tra scuola e calcio faticai ad andare bene e a fine stagione mi mandarono al Guastalla, in quarta serie [...] Stare all’Alessandria era un po’ come vivere al Toro prima che abbattessero il Filadelfia, cui, tralaltro, il Moccagatta assomigliava abbastanza. Agli allenamenti di noi ragazzi, a Spinetta Marengo, c’erano i pensionati che ricordavano i grandi giocatori del passato, sognavano ancora un futuro importante e infatti si riuscì a tornare in B in quegli anni. Ricordo il massaggiatore: avrà avuto 90 anni, era vecchissimo ed era la memoria storica della società. Anche la famiglia dove abitavo, i Bulfari, erano tifosi di quelli che sanno nomi, cognomi, date, gol. Abitavamo vicino allo stadio. C’era uno spirito forte, allora» (’La Stampa” 13/7/2003). «Ero il classico giocatore dilettante. [...] Ho fatto tutte le categorie. Promozione, Interregionale, prima, seconda. Ho smesso a 34 anni. Sono stato il Maraschi dei dilettanti. Cambiavo perché mi piaceva e anche per guadagnare sull’ingaggio. Allora i campionati dell’Emilia Romagna erano tosti. Non potevano mica giocare tutti. Dài, non scherziamo[...] Uscivo da scuola all’una. Fuori c’era un taxi che mi aspettava. Un panino volante, salame, mortadella, farcito con i peperoni. Stazione di Parma e via in treno a Guastalla. La linea Parma- Guastalla era un delirio. Il treno faceva tappa ad ogni fattoria, si fermava dai contadini, la gente scendeva e acquistava le zucche, il figlio del capotreno scambiava le figurine con i ragazzi della campagna. Per fare ventisei chilometri ci metteva, quando andava bene, un’ora e trequarti. La mia è stata una carriera completa. Dopo Alessandria sono stato a Guastalla e poi a Noceto, Reggiolo, Fidenza, ancora Guastalla, Poviglio, Fiorenzuola, Castiglione delle Stiviere, Viadana, Salsomaggiore, Vigolzone, Busseto. Ho chiuso a Praticello di Gattatico, in seconda categoria. Ho fatto tutti i gironi dell’Italia settentrionale, Piemonte, Lombardia, Veneto, Marche [...] La mia famiglia aveva un’allevamento di tacchini americani. Mi ero appena comperato una 127 bianca e quel giorno faceva un freddo terribile. Papà mi chiamò: ”Dobbiamo mettere al sicuro i tacchini, bisogna portarli al riparo, al caldo, altrimenti muoiono tutti’. Arrivarono con un camion e caricarono i tacchini. Erano troppi e allora mio padre disse: – Eugenio, questi tre mettili sulla 127 sul sedile di dietro’. Sembravano tre viaggiatori. Erano alti come Rui Barros, Zavarov e Lupetto Mannari. [...] I tacchini stavano comodi e sembravano buoni. Quando siamo arrivati al campo di Guastalla, uno ha lasciato la portiera aperta e i tacchini sono usciti e si sono messi a correre assieme ai giocatori. Siamo riusciti a catturarli dopo un estenuante inseguimento. Quel giorno allenamento ridotto» (’La Gazzetta dello Sport” 20/7/2003)