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 2002  marzo 28 Giovedì calendario

MOBY (Richard Melville Hall) Harlem (Stati Uniti) 11 settembre 1965. Musicista • «Nel 2000 non si parlava che di lui, presunto bis-bis-bis nipote di Herman Melville per l’appunto autore di Moby Dick

MOBY (Richard Melville Hall) Harlem (Stati Uniti) 11 settembre 1965. Musicista • «Nel 2000 non si parlava che di lui, presunto bis-bis-bis nipote di Herman Melville per l’appunto autore di Moby Dick. Con il suo album Play aveva portato a eccellente compimento l’invenzione non americana della post-canzone, che mescolava campionamenti elettronici con il blues Anni Quaranta o il rock o altre fette di musica nera. ”Oggi possiamo disporre di mezzi pazzeschi per dimostrare che l’elettronica può trasmettere emozioni”, spiegava, e poi aggiungeva con un po’ di malizia: ”Anche i Rolling Stones, in fondo, manipolavano il vecchio blues”. Moby riuscì a creare un suo stile originale lavorando sugli ossimori musicali; si rivelò particolarmente dotato nell’accostare con credibilità la meccanica delle basi techno, dance, funk, con voci calde e sentimentali anche nel successivo disco 18, che però (come spesso accade) non gli regalò un bis di successo, pur vendendo del tutto decorosamente un numero di copie che sono solo un sogno per la cima della hitparade italiana. Ma la musica va avanti, disordinata come sempre. E Moby è ora nel momento delicato di quelli che stanno in mezzo al guado, in attesa di eventuale riconferma» (’La Stampa”, 29/6/2003). «Sarà perché è nato a Harlem che ha nel sangue la naturale propensione a farsi contagiare da quelle generose voci nere blues, soul o gospel, quella insopprimibile curiosità che l’ha spinto a spulciare persino nei leggendari archivi di Alan Lomax, l’etnomusicologo che registrò canzoni direttamente sul campo. Gli elementi che hanno rese celebri Honey, Natural blues e Why does my heart feel so bad […] un Arsenio Lupin, meglio un Woody Allen del pop, che riesce a modernizzare antiche emozioni con una brillante, colta e sofisticatissima filosofia di studio [...] ”Ci sono musicisti che cantano magnificamente, ballano da dei e sono anche bellissimi. Io canto così così. Ballo male. E non sono l’uomo più brutto del mondo, ma neanche un gran fico”» (Giuseppe Videtti, ”la Repubblica” 12/3/2002). «’Prendere posizioni attraverso una canzone è un vero campo minato. Bisogna saperlo fare bene. Clash, Sex Pistols, Crosby Stills Nash & Young ci sono riusciti. Io ci ho provato, fallendo miseramente. Resta il fatto che ho le mie idee politiche e sento il bisogno di esprimerle. Come l’operaio al pub, come il padre in famiglia. Dico ciò che penso aspettandomi una risposta, una reazione da chi mi ascolta. La mia posizione è dialettica, perché sono convinto che lo scambio di opinioni porti ad una crescita”. Col rischio di vedersi cuciti addosso gli scomodi abiti della popstar opinionista: ”I miei attacchi a Bush, come nel caso dell’affaire Iraq, sono stati fraintesi, c’è addirittura chi mi ha etichettato come portavoce della sinistra americana. Non sono né conservatore né liberal anche se mi sento più in sintonia con quest’ultima sponda. In certe occasioni ho sentito il bisogno di criticare Bush perché troppo pochi negli Stati Uniti lo fanno, anche tra coloro che non la pensano come lui”. […] I canti degli schiavi raccolti da Alan Lomax, grande padre del folk americano, e mixati al ritmo techno sono stato il piatto forte di Play: il crossover tra etnica e pop elettronico è uno stile ormai così canonizzato da rischiare di sterilizzarsi in moda? ”Non credo. Come in Giappone si va ai ristoranti messicani, così i musicisti sentono il bisogno di contaminarsi: è una conseguenza della globalizzazione. Quella bella, vera, costruttiva. Non quella che rinuncia alla compassione”» (Fulvio Paloscia, ”la Repubblica” 2/11/2002). «[...] che razza di musicista sono. Ho cominciato a suonare a otto anni, perché mia madre era pianista e mio zio chitarrista e flautista. Sono cresciuto circondato dagli strumenti. Anche da adolescente, quando i miei amici uscivano a giocare a football, me ne restavo in casa a suonare o a leggere i fumetti. Nella mia formazione ci sono pezzi di Beatles, Doors, Rolling Stones, David Bowie, punk e Joy Division. All’università studiavo filosofia, ma volevo campare di musica. A 19 anni, cominciai a fare il dj nel bar sotto casa e a lavorare in un negozio di dischi. Assorbivo continuamente nuovi ritmi, suoni diversi. E alla fine della giornata tornavo a casa e rigurgitavo tutto nei pochi strumenti che allora avevo a disposizione, una chitarra, un registratore e un microfono. La mia musica è nata e cresciuta in casa, quindi tutto quello che mi ha permesso di produrla è per me fondamentale [...] Neanche Play, il cd che ha venduto oltre dieci milioni di copie, ha mutato le mie abitudini. Stesso appartamento, stessi amici, e un home studio appena più sofisticato. Questo mio legame con Manhattan mi fa sentire una specie di Woody Allen del pop. Vivendo a New York, sono venuto a contatto con diversi stili di musica. La migliore l’ho sempre ascoltata nei taxi: yemenita, haitiana, senegalese. Poi subito di corsa a casa a ”suonare” le idee che mi venivano in mente. Senza uno studio domestico non avrei mai fatto la mia musica [...] La digitalizzazione della musica non sempre produce buoni risultati. Quando andai a riascoltare i vecchi blues registrati sul campo decenni prima da Alan Lomax, che poi utilizzai nell’album Play, mi resi conto che le sofisticatissime apparecchiature che avevano cancellato tutti i fruscii avevano fatto un pessimo lavoro. Senza i segni del tempo, quelle canzoni avevano perso la loro identità [...] Il tour di Play doveva durare cinque mesi: si protrasse per due anni. Rientrai nel mio studio con un entusiasmo incredibile. Il disco successivo,18 fu tutto concepito lì dentro. Buttai giù almeno 150 canzoni. Ecco, se c’è una cosa che mi rende prolifico è lavorare in perfetta solitudine. Quando sono in casa non ho altre tentazioni: non ho la patente, non guardo la tv, tutto il tempo lo dedico al lavoro. Il guaio fu che poi impiegai quasi sei mesi per decidere quali canzoni includere nell’album [...]» (Giuseppe Videtti, ”la Repubblica” 13/2/2005).