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 2002  marzo 28 Giovedì calendario

Tobin James

• Champagne (Stati Uniti) i6 marzo 1918, New London (Stati Uniti) 11 marzo 2002 • «Unico economista al mondo ad avere inventato una tassa ”popolare”. Una tassa che non esiste ancora (e forse non esisterà mai) ma è diventata parte integrante del programma dei no-global, piace ad alcuni leader del Terzo mondo antioccidentali come il premier della Malesia, e ha dato la nascita addirittura a un’ssociazione che la sponsorizza con l’appoggio del governo francese. Per la verità lui, che ebbe il Nobel per l’economia nel 1981, non avrebbe mai immaginato di ricavare tanta fama da quella che per lui fu quasi una provocazione intellettuale, al termine di una onorata carriera accademica che lo vide come uno dei massimi esponenti del pensiero keynesiano (nonché professore di Mario Monti). Ma solo la Tobin tax ha fatto del suo nome uno slogan agitato nelle manifestazioni: una tassa da cui lo stesso autore alla fine aveva preso un po’ le distanze, spaventato da tanto entusiasmo e dalla sua difficile applicazione pratica. A quell’idea Tobin era giunto contestando uno dei principi del ”pensiero unico” liberista, e cioè che i mercati siano sempre razionali, caratterizzati da una perfetta circolazione delle informazioni, e quindi benefici se lasciati operare senza lacci e lacciuoli statalisti. Da buon keynesiano, Tobin era predisposto a mettere in discussione i limiti del liberismo. Ma soprattutto, l’osservazione empirica delle crisi finanziarie del dopoguerra lo aveva portato alla conclusione seguente: i mercati possono sbagliare perché sono quasi sempre imperfetti, gli operatori che vi agiscono possono operare sulla base di informazioni parziali, cedere all’emotività, e quindi il risultato della libertà assoluta può essere talvolta dannoso per il benessere generale. Le ultime crisi finanziarie internazionali hanno confermato la sua analisi. Tobin riteneva che sarebbe stato meglio rendere un po’ meno fluida la circolazione dei capitali speculativi a breve termine, inserendo nel delicato ingranaggio dei mercati un ”granello di sabbia” che li rallenti. Era appunto la tassa Tobin. Si trattava di prelevare un’imposta sui movimenti valutari a breve termine, anche solo dell’1%, che poteva rallentare le ondate speculative e fornire risorse per compensare i paesi poveri danneggiati. Negli ultimi tempi Tobin ci aveva un po’ ripensato. Si interrogava sulla difficoltà pratica che i governi avrebbero incontrato nel tentare di incassare la tassa. Intanto però il movimento no-global se ne era impadronito. Era nata anche un’associazione, Attac, con la Tobin tax come ragion d’essere: ad essa aderiscono leader politici riformisti del mondo intero e il governo socialista francese l’ha esplicitamente appoggiata» (Federico Rampini, ”la Repubblica” 13/3/2002). «Premio Nobel della economia che fu il più prezioso consigliere del presidente Kennedy, e che di recente era diventato, suo malgrado, l’eroe dei ”no global” grazie alla sua proposta di tassare le transazioni monetarie per impedire le speculazioni. Paul Krugman, un altro grande economista, lo ha ricordato sul ”New York times” come ”l’ultimo centrista”, l’erede del grande John Maynard Keynes, il teorico inglese della oculata politica fiscale e monetaria dello stato, ossia dell’aumento o della riduzione delle imposte, la spesa pubblica e il credito, a sostegno del libero mercato. ”Con la sua scomparsa - ha scritto Krugman - si è chiusa un’era: quella dell’onesto confronto delle idee. Tobin fu un nuovo democratico mezzo secolo prima che i nuovi democratici diventassero di moda”. Laureato magna cum laude ad Harvard nel 1939, sposatosi nel 1946, aveva avuto quattro figli. John Kennedy lo portò a Washington nel ”61, con il compito di rilanciare l’economia dopo la cosiddetta ”recessione Eisenhower”, dal nome del suo predecessore. Tobin ci riuscì con un drastico taglio delle tasse che facilitò gli investimenti -a esso si rifece nel 2001 il presidente George Bush presentando il suo al Congresso - e con l’espansione dei commerci, che aiutò la produzione industriale. Negli Anni successivi, i suoi scontri con il monetarista Milton Friedman, un altro premio Nobel, un liberista e anti statalista spinto, in cui talvolta intervenne anche John Kenneth Galbraith, suscitarono l’attenzione degli Stati Uniti. ”Gli americani” ha sottolineato Krugman ”impararono più economia da Tobin che da chiunque altro”. Il teorico neo keynesiano non era un uomo facile. Ma le sue proteste non furono mai immotivate. In quarant’anni, le sue tesi vennero strumentalizzate ora da destra ora da sinistra. Nel 2001 per esempio, durante la recessione, quando Bush tagliò le tasse, Tobin si oppose: ”Bisogna aumentare la spesa pubblica” sostenne. ”La riduzione delle imposte non aiuta i meno abbienti”. E quando i no global lo osannarono, commentò: ” la gente sbagliata che mi applaude”. Ancora dieci giorni prima della morte, a un convegno alla università di Yale, l’ultimo a cui partecipò, discusse della cosiddetta ”Tassa Tobin” sui movimenti di capitale: ”Il mio obiettivo” disse ”è di impedire la destabilizzazione dei mercati. I capitali devono circolare nella sicurezza, solo così i Paesi si apriranno ai commerci. Non sono ostile al liberismo, voglio solo un minimo di regolamentazione. La globalizzazione è inevitabile ma deve avere un volto umano”. I libri di James Tobin testimoniano della sua influenza sulla macroeconomia e sullo stato americano. Altri economisti hanno avuto più voce in capitolo a Wall street. Ma il ruolo di Tobin nel pensiero del governo Usa e in particolare del Partito democratico fu determinante. I titoli delle sue opere sono significativi: Politica economica nazionale, La nuova economia, Teoria e politica (in tre volumi). Tobin, che era passato attraverso la Grande recessione degli Anni Trenta, frutto del capitalismo selvaggio precedente, proponeva una società equa, moderatamente liberista e moderatamente assistenziale. Krugman è convinto che, dopo gli attuali eccessi, così simili a quelli dei ruggenti Anni venti, le sue idee torneranno a imporsi» (Ennio Caretto, ”Corriere della Sera” 13/3/2002). «Non avevo mai visto John Curren così nervoso, dare insoliti ordini militari ai suoi studenti e pulire ossessivamente la lavagna come stesse sterilizzando l’acqua in vista di un parto. Quando la figura rarefatta di James Tobin, suo ex professore a Yale, entrò con passo di traverso, quasi dando le spalle al muro di silenzioso rispetto che si era creato, Curren fu colto da una tale emozione che urlò come un presentatore della tv: ”Signore e signori! Ecco a voi il premio Nobel, James Tobin!”. Tobin lo guardò, per un attimo preoccupato, poi non riuscì a non ridere. Per un’ora la lavagna di un’aula universitaria immersa in un bosco vicino a White Plains prese letteralmente vita. Ma prima di descrivere in equazioni ”il mondo nel suo intero”, come amava dire, Tobin volle consolare il suo goffo ex allievo e raccontò di quando gli fu comunicata la vittoria del premio Nobel pochi anni prima nell´81. La motivazione ricordava il suo contributo alla ”teoria del portafoglio”, fu organizzata una conferenza stampa e i giornalisti gli chiesero di spiegarne il senso. ”Feci del mio meglio, ma mi interruppero subito: ”Non si capisce, ce lo dica in linguaggio piano!’. Così, per spiegare il concetto di ”diversificazione’, dissi: ”Conoscete quel modo di dire: non mettere tutte le uova nello stesso paniere?”. Il giorno dopo i titoli dei giornali di mezzo mondo riportarono: ”Economista di Yale vince il Nobel grazie alla teoria di non mettere tutte le uova nello stesso paniere’. Un amico mi mandò una vignetta annunciando il Nobel per la medicina a chi avesse sostenuto che ”Una mela al giorno toglie il medico di torno’”. Non c´era però nulla di semplice nel pensiero di Tobin se non la personale modestia. Si congedò dicendo: ”Se passate da Yale venite a trovarmi. Bussate o se non ci sono chiedete a Pam”. Un uomo sensibile e uno dei grandi cervelli della storia economica, le cui idee hanno influenzato il pensiero politico così profondamente da essere abbracciate talvolta in modo scomposto o inconsapevole da persone con cui Tobin non aveva molto da condividere. ”Avrei fatto il giornalista, come mio padre - raccontò una volta - sentivo l’importanza della storia e non concepivo teoria che non si confrontasse con la realtà: tutti i maggiori economisti hanno sviluppato le loro teorie osservando i fatti”. Fu suo padre a scoprire sul ”New York Times” un’offerta di fellowship a Harvard che introdusse James all’accademia economica. Quando vi arrivò, a Harvard insegnavano nomi come Leontief, Schumpeter, Chamberlin e Haberler. Come junior fellow trovò Paul Samuelson che in seguito lo chiamò ”complice di crimini keynesiani”. Erano gli anni in cui si sentivano gli echi di ”un nuovo libro che viene dalla Gran Bretagna”, il libro era La teoria generale pubblicata nel 1936 da John M. Keynes. Per Tobin, figlio di un giornalista liberal e di un’assistente sociale, fu un’esperienza unica che coniugava l’occasione di superamento intellettuale delle gerarchie accademiche con l’impegno contro la depressione economica e le terribili conseguenze di quegli anni. Diventò un ardente difensore del New Deal e un sofisticato elaboratore dei nuovi modelli di equazioni simultanee. La posizione ortodossa di allora sosteneva che i prezzi si muovono in modo da portare sempre in equilibrio offerta e domanda: una riduzione dei salari per esempio avrebbe eliminato la disoccupazione (cioè l’eccesso di offerta di lavoro). Keynes come è noto negò ciò, sostenendo che il mercato tendeva a sbagliare e a creare ”equilibri di sotto-occupazione”. Tobin, che dopo la guerra disponeva di uno strumentario matematico piuttosto sofisticato, riuscì a rendere meno rozze le distinzioni tra Keynes e i neoclassici e contribuì assieme a economisti come Mead, Solow, Modigliani e Samuelson a costruire un sistema moderno sui quattro pilastri della teoria di Keynes: il rapporto tra salari e occupazione; la propensione al consumo, la domanda di moneta e la preferenza per la liquidità; le motivazioni dell’investimento. Per superare la legge psicologica del consumo di Keynes, Tobin introdusse una funzione del consumo ”lungo la vita” che andò in parallelo con la teoria del ”reddito permanente” di Friedman e del ”ciclo vitale” di Modigliani. Ma il contributo che gli valse il Nobel aveva a che fare con la confutazione della teoria quantitativa della moneta. Secondo i monetaristi, guidati da Milton Friedman, la sensibilità della domanda di moneta ai tassi d’interesse (la ”velocità di circolazione”) era costante salvo casi estremi. La conseguenza era che la politica di bilancio dei governi era irrilevante perché tutto dipendeva dalla quantità di moneta. Tobin diede due spiegazioni del perché la sensibilità della domanda di moneta non era costante, la prima (Baumol-Tobin) fu un’applicazione della teoria delle scorte alla gestione dei flussi, la seconda diede una lettura del tutto innovativa del concetto di avversione al rischio già usato da Keynes (si preferisce la liquidità tanto più bassi sono i tassi d’interesse) in termini di scelta di portafoglio. Introducendo il concetto di non sostituibilità delle diverse attività finanziarie e una nuova forma di valutazione del capitale (la famosa ”q di Tobin”), l’economista creò un nuovo modo di interpretare i rapporti tra banche centrali, mercati finanziari e l’economia reale. Quella che sembrava una disputa teorica prese rapidamente la forma di una vera disputa politica che vide Milton Friedman arcirivale di Tobin. Nel 1960 Tobin fu arruolato nella campagna elettorale di John F. Kennedy, nonostante le sue preferenze andassero a Stevenson, ma fu Kennedy ad adeguarsi alle idee di Tobin, non viceversa. A quel tempo il messaggio di Tobin era che ci voleva un bilancio in equilibrio per poter ridurre le tasse e allentare la politica monetaria. La sua ricetta di mix variabile di politiche, condivisa da Okun, Solow e Arrow, è rimasta la stessa anche se è stata abbracciata spesso dai suoi avversari politici. Un destino ricorrente delle teorie dell’economista di Yale. La sua proposta di ”tassa negativa” per esempio venne sposata da Friedman e poi applicata da Nixon che aveva sconfitto McGovern» (Carlo Bastasin, ”La Stampa” 13/3/2002).