Varie, 29 marzo 2002
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Bonnefoy Yves
• Tours (Francia) 24 giugno 1923. Poeta. Uno dei maggiori poeti francesi contemporanei. Critico d’arte e traduttore di Shakespeare e Keats, insegna al Collège de France. Raccolte: Del movimento e dell’immobilità de Douve, Ieri deserto regnante, Pietra scritta, Nell’insidia della soglia, Ciò che fu senza luce. Saggi: L’improbabile, Un sogno fatto a Mantova, La verità della parola (’liberal” 13/5/1999) • «Il padre faceva il meccanico e la madre insegnava alle elementari quando Yves Bonnefoy nacque, nel giugno del 1923, a Tours. I primi studi del futuro poeta si indirizzarono alla metamatica e alla filosofia, dopo il diploma si trasferì a Parigi dove cominciò a frequentare i surrealisti e fondò una rivista ”La révolution et la nuit”. Ma già nel `47 le sue frizioni con il gruppo lo portano a allontanarsene e a tornare a studiare. Dopo essersi già laureato in matematica alla Sorbona, sostenne un’altra tesi su Baudelaire e Kierkegaard, seguendo i corsi di Jean Whal, Jean Hyppolite e Gaston Bachelard. Tra il 1949 e il 1953 fece una serie di viaggi in Europa e specialmente in Italia dove cominciò a studiare le opere della pittura classica. Moltissimi i letterati francesi e gli artisti con i quali si unì in una stretta amicizia; con alcuni di questi fondò la rivista ”Ephémère”. Intanto comparivano via via le sue nuemerose raccolte di versi, cui nel tempo sommò traduzioni da Shakespeare, Yeats, Keats, Leopardi. Cominciò a viaggiare in America e dagli anni ”60 in poi ricevette vati incarichi nelle università svizzere e francesi. Negli anni `80, accanto alla produzione in versi, diresse il Dizionario delle mitologie e delle religioni. Tradotto in decine di lingue, ha scritto 18 raccolte di poesia e 35 opere in prosa, tra saggi e racconti. Moltissimo è stato tradotto in italiano. Chi volesse farsi una idea dell’evolversi della poesia di Bonnefoy ha a disposizione una scelta di versi datati tra il 1953 e il 2001, raccolti e introdotti da Fabio Scotto per Crocetti sotto il titolo Seguendo un fuoco. Tra i suoi saggi dedicati a altri poeti, molto bello quello titolato L’impossibile e la libertà. Saggio su Rimbaud, trad. e introduzione di Gabriella Caramore (Marietti, 1988). A uno tra i suoi artisti preferiti Bonnefoy ha dedicato Alberto Giacometti, trad. di A. La Rosa, Leonardo, 1991. Ancora sull’arte del ”900, Lo sguardo per iscritto, trad. e cura di J. Sarno, postfazione di S. Agosti (Le Lettere, 2000). Nello stesso anno è stato anche tradotto da Maria Sebregondi per Archinto il primo libro scritto da Bonnefoy nel 1946, Trattato del pianista» (’il manifesto” 7/5/2005) • «[…] un passato di docente universitario e di amico del surrealista Breton, laureato in matematica e studioso di filosofia e arte, è il maggior poeta francese vivente. […] ha scritto […] (nella postfazione a Seguendo un fuoco) che ”ogni poesia è il fallimento della poesia”. In che senso? ”La poesia tenta di trasgredire le rappresentazioni delle cose e degli esseri come ce le fornisce la nostra esperienza concettuale, che non fa altro che delle letture astratte della realtà. Bene, ma trasgredire questa lettura astratta è difficile, tanto più difficile in quanto questa ci permette di sognare: un mondo semplificato è un mondo che permette il sogno. La nostra condizione, il lavoro della poesia, è difficile, non si stabilisce nella verità poetica o nella ricerca. Quando parliamo, quando siamo obbligati a usare il linguaggio, quando il linguaggio è costituito da dei concetti e quando questi concetti ci sono molto utili per comprendere la nostra realtà pratica, ebbene a noi è sempre impedito stabilire una piena immediatezza di rapporto con l’esistenza, con gli altri esseri, col mondo naturale. La poesia è dunque solo un obiettivo che ci si offre, niente di più, e immaginare che per aver scritto una bella poesia siamo dentro la poesia è un errore che non dobbiamo fare. La poesia comincia nell’istante in cui riconosciamo l’insufficienza di questa creazione artistica. La poesia è ricominciamento perpetuo, è ostinazione in questo ricominciamento, consiste in questa ostinazione molto più che nella creazione dell’oggetto letterario”» (Bianca Garavelli, ”Avvenire” 23/2/2005) • «Nei versi di Yves Bonnefoy, una delle voci più alte della poesia contemporanea, da anni insistentemente proposto tra i candidati al Nobel per la letteratura, convergono tutti gli interessi che hanno contribuito alla sua formazione, quello per la matematica, e quello per la letteratura, la devozione per l’arte che gli ha dettato pagine bellissime e la passione negativa per la filosofia, ai cui concetti attribuisce il maleficio di immobilizzare nell’astrazione sentimenti e eventi, imprigionandoli in ”una dimora eterna”. Nato nel 1923, ha traversato con una certa turbolenza anche la stagione surrealista, in sintonia con la quale scrisse i primi versi, che ora gli appaiono il frutto di ”un errore”. Il vero esordio, datato 1953, produsse la raccolta Movimento e immobilità di Douve (Einaudi 1969), nome che indica fossati di acque morte, fiori di palude, ma soprattutto allude con i versi accordati ai suoi oggetti al ”destino mortale di tutto ciò che ha vita” - come ha scritto Gabriella Caramore nel saggio introduttivo al libro che Bonnefoy ha dedicato a Rimbaud (Marietti, 1988). Dalla seconda raccolta di poesie, Ieri deserto regnante [...] l’intento dominante - lungo diciotto raccolte poetiche alle quali ha affiancato trentacinque opere in prosa, tra saggi e racconti - diventa la necessità di prendere coscienza degli oggetti dei luoghi, della terra, degli esseri che la abitano, insomma dell’universo sensibile, per fare fronte al disfarsi delle cose. Compito della poesia sarà dare voce al desiderio possibile di una ”presenza”, ovvero ”del mondo che si esprime”, e ridurre la distanza tra apparenza e realtà fino a farle coincidere. Quando insegna ai suoi studenti i poeti più amati, Shakespeare, Rimbaud, Baudelaire, li guida a inseguire le loro voci ripercorrendo il tragitto che trova compimento quando chi scrive raggiunge chi legge, e entrambi recuperano per via la pienezza sensibile delle nostre associazioni di pensiero inconsce, insieme alle nostre comparazioni intuitive, tramite le quali le immagini ricompongono la loro unità di senso. Così si restaura quel significato che la scrittura dovrebbe preservare e che ogni tentativo di interpretazione disperde. Certo, avverte Bonnefoy, una lettura selvaggia, che ignori la polisemia dei termini che incontra, che passi sopra alla distinzione tra ciò che è esplicito e quel che si nasconde tra le righe, una lettura brutale che si distanzi dalle intenzioni dell’autore è da scongiurare; ma, in fondo, quel che resta di più prezioso è l’incontro tra due voci che sappiano sgelare le parole, che dissolvano le nozioni nelle quali il pensiero si irrigidisce fino a paralizzarsi. Quel che più importa è portare all’evidenza l’alleanza tra chi scrive e chi legge tramite la condivisone del senso che una parola nasconde; e il segno che la evoca non è meno importante del significato al quale allude. Per far capire quanta eccedenza di significato nasconda ogni convenzione linguistica, Bonnefoy ha fatto l’esempio di due bambini non ancora in grado di parlare, nell’atto di raccattare un ramoscello o un ciotolo e porgerlo all’altro. Cosa c’è in quel gesto? Nulla di preciso, se non l’annuncio di una solidarietà in potenza. Il poeta, quando si trova davanti al linguaggio, non fa nulla di diverso: tanto meglio se la specie di ramoscello o di sassolino che offre troverà un significato condivisibile, ma quel che l’ha mosso è prima ancora di questa aspirazione la necessità di ritrovare una forma di solidarietà con l’altro. Nella parola poetica dovrebbero riemergere - dice Bonnefoy - bisogni dimenticati, quei bisogni specialmente trascurati dai discorsi della politica che sono perciò forieri di frustrazioni, disarmonie, guerre. Risolvere le tensioni è il miraggio della politica, ma essa è sempre in ritardo sul suo scopo; è alla poesia che spetta, dunque, risalire al di qua di queste frizioni, muovere la parola a rivoltarsi contro la rigidità intrinseca ai concetti. [...] ”[...] mi sento a disagio quando si tratta di affrontare questioni teoriche in una conversazione: i problemi che pone la poesia sono tra i più difficili da comprendere e avrebbero bisogno della elaborazione propria a uno scritto per arrivare a rendere giustizia a tutte quelle sfumature che sono il luogo in cui si nasconde la verità. Fatta questa riserva [...] ovviamente, è attraverso la scrittura che cerchiamo la poesia, ma alla scrittura sfugge la realizzazione completa di quel che la poesia esige. Essa, per me, non coincide con la produzione di un testo, con la scrittura di un libro, con la creazione di un oggetto artistico ma è invece un tentativo di prendere contatto con una realtà più immediata e più completa, che ci viene interdetta nel discorso concettuale: quello che pratichiamo di solito nel mondo dell’azione, nelle generalizzazioni che ci impediscono di entrare in rapporto con la vita di ogni giorno, con le scelte che bisogna fare minuto per minuto. Così, la poesia è un atto di ricerca che non trova mai davvero compimento, proprio a causa della nostra abitudine a impiegare dei concetti. E la scrittura è una lotta tra il nostro discorrere concettuale e l’intuizione che è propria della poesia. Mentre scriviamo ci accorgiamo di aprirci un varco, di vedere un po’ di luce, poi veniamo nuovamente proiettati sulla nostra immaginazione abituale, che è anch’essa concettuale. I componimenti poetici rappresentano dei momenti nei quali accettiamo, finalmente, un compromesso tra il discorso corrente e la poesia. [...] si tratta di riprendere contatto, tramite la poesia, con una realtà più totalizzante e più immediata e questi momenti di contatto sono letteralmente silenziosi, sono al di là della presa che possono esercitare le parole. Ebbene, in queste condizioni il linguaggio ci appare insufficiente, non è altro se non uno strumento che impieghiamo per andare alla ricerca di noi stessi, però non è un luogo che ci comprenda interamente. Non sono tra coloro che considerano il linguaggio come la suprema prerogativa dell’uomo, e dunque pretendono che le opere di poesia, o della letteratura in genere, siano semplicemente delle costruzioni linguistiche. Per me il linguaggio non è altro che lo scalpello impiegato dallo scultore davanti al suo blocco di marmo. La realtà in gran parte gli sfugge. [...] Il linguaggio permette di dare forma alle nostre intuizioni, ai nostri bisogni fondamentali, permette di realizzarli in una certa misura, ma noi siamo qualcosa di più. E la poesia è là a ricordarci che noi veniamo prima delle nostre parole. [...] stato un percorso lungo il quale ho cominciato col prendere coscienza della finitezza che le parole ci sottraggono: il titolo stesso Movimento e immobilità di Douve traccia questo incontro tra la immobilità alla quale la parola obbliga la realtà dell’esistenza e la poesia che risveglia un movimento capace di metterci in relazione con il nostro essere più profondo. Ma in quei versi c’era anche la scoperta della morte, del fatto che là dove noi siamo ha luogo la finitezza, e farne l’esperienza è stato molto duro. Il secondo libro, Ieri deserto regnate, l’ho scritto sotto il segno di quel che bisognava dunque accettare della nostra esistenza quotidiana per essere all’altezza delle intuizioni indicate dalla poesia. Attraverso questo secondo passaggio ho avuto la possibilità di sperimentare effettivamente una mia reiscrizione nella fiducia, una fiducia nella vita che mi veniva dalla adesione alla realtà del mondo mediterraneo, con la sua grande lezione di saggezza. Attraverso il libro seguente, Pietra scritta si trattava di sperimentare la condivisione dell’esistenza con esseri diversi. Poi, nel libro titolato Nell’insidia della soglia le esperienze dominanti sono state quelle della paternità e l’ambientazione in una dimora costruita, nella quale vivere. Negli anni seguenti ho tentato di approfondire ancora questi temi, approdando alla proposta di una poesia pratica, ossia rivolta non alla conoscenza speculativa bensì all’organizzazione del nostro rapporto con il mondo e con noi stessi. Dunque, in fondo, è stato un tragitto alla ricerca di una morale. A partire da questa idea il mio lavoro si è sviluppato allargandosi alla conoscenza di altri autori, sui quali ho scritto saggi di riflessione critica e storica: Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, tra gli altri. E ho lavorato anche molto su alcuni pittori, sul rapporto tra la creazione poetica e quella artistica. [...] Non posso che constatare come buona parte dell’arte contemporanea abbia desiderato essere nient’altro che linguaggio, abitare il mondo dei segni che sembrano funzionare indipendentemente da noi, dimenticando che siamo incarnati in una esistenza, in un luogo, in una durata, in una finitezza. Questo tipo di arte ha scordato tutto ciò per potere costruire strutture di segni atemporali, o per sperimentare l’universo segnico allo scopo di verificare in quale misura esso possa creare situazioni nuove per l’intelletto. Tutto ciò è rispettabile e mi interessa, ma quel che mi aspetto dall’arte è piuttosto che essa collabori con la poesia per ristabilire il contatto con quanto sta oltre il linguaggio. Credo che le forme classiche, in particolare quelle della pittura - ossia la rappresentazione, la messa in questione della realtà - restino valide. Gli artisti con i quali ho sentito una sorta di connivenza attraverso gli anni sono quelli che mantengono il contatto con il mondo esterno, con il paesaggio, con la figura umana. Sono quelli che testimoniano della realtà e la interrogano nel suo rapporto con noi. Tra loro ho amato molto Giacometti, il suo modo di lavorare la materia per rappresentare l’esistenza della persona che gli sta di fronte, di cui non ci restituisce il colore degli occhi, o dei capelli, o la forma del naso, bensì il suo essere là. E lui si fa testimone di questa presenza, di questo mistero. [...] Il contributo essenziale dell’esperienza surrealista, o meglio di André Breton, è la comprensione del ruolo dell’inconscio nelle nostre parole e nelle nostre azioni. I surrealisti hanno tentato di fare apparire la verità che l’inconscio ci rammenta; dopo di loro esso è scomparso. Certo, lo si ritrova negli scritti dei teorici della psicoanalisi, ma nei testi letterari e specialmente nelle poesie non ce n’è più traccia, come fossimo ancora nel diciottesimo secolo. un grande guaio, perché solo ascoltando l’inconscio possiamo imparare come risituarci al centro del mondo. D’altronde, gli stessi surrealisti non hanno saputo ritrovare l’inconscio dopo averlo evocato: la loro scrittura automatica resta alla superficie, non perviene a un vero ascolto dell’inconscio. Dunque bisogna trattenere la lezione fondamentale dei surrealisti ma lavorare su di essa fino a intendere meglio, attraverso la scrittura poetica, quel che l’inconscio ha da dirci. Perché esso può orientarci verso la presenza immediata del mondo, e dunque bisogna fargli spazio nella parola. Ho cercato anch’io di fare la mia parte con un libro titolato Racconti in sogno: diversamente da quelli dei surrealisti, che cercavano di riferire di esperienze oniriche, i miei racconti provano a dare la parola direttamente al sogno. [...] La mia critica non investiva tanto i fondamenti del surrealismo, ma il modo in cui quel gruppo di persone li stava fecendo evolvere in quel momento. Io mi richiamavo alle radici del loro pensiero, non ero affatto in disaccordo con i suoi presupposti. Con Breton, in realtà, la rottura non fu totale: quando smisi di vedere il suo gruppo lui capì benissimo che il mio rifiuto non era verso quel che di essenziale c’era nel suo pensiero. E così non me ne volle. [...] la poesia si aspetta dalle parole che non si limitino semplicemente a constatare la reificazione di ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra esistenza concettualizzata, ma che rendano nominabile una realtà più profonda, più immediata, più forte. Nel dire ”albero” la poesia ci mette in relazione con l’infinito a cui esso allude e non solo con il legno della pianta. Dunque bisogna amare le parole per quel che potrebbero essere, ma non è detto che questo basti a che la poesia ci si conceda. [...] Non dobbiamo esitare a nutrire i testi poetici dei nostri ricordi personali, perché la poesia è fatta per stabilire, con ciò che nomina dell’esistenza, una relazione profonda. Se il poeta usa la parola ”casa” è perfettamente legittimo pensare alla propria casa. a questa effettivamente che il poeta allude, perché parlando di sé parla sempre anche degli altri» (Francesca Borrelli, ”il manifesto” 7/5/2005).